Cento anni fa: La crisi Matteotti e il consolidamento della dittatura fascista

Nello scorso numero de “L’Internazionale” abbiamo ricordato le elezioni politiche del 6 aprile 1924 e il discorso del 30 maggio di Giacomo Matteotti, deputato socialista riformista, nel quale si smascheravano le prepotenze, gli imbrogli, le illegalità che avevano consentito alla lista fascista di ottenere la maggioranza assoluta alla Camera, anche appoggiandosi su una legge elettorale truffaldina, la cosiddetta legge Acerbo. Mussolini, parlando con Cesare Rossi, suo collaboratore sia nel partito fascista, sia nel governo, commentava: “Quest’uomo non deve più circolare”. Una chiara condanna a morte. Ne seguì, il 10 giugno 1924 il rapimento del deputato socialista e la sua uccisione da parte di una squadra fascista.

Matteotti è uno di quei personaggi di cui la retorica istituzionale parla volentieri come di un martire della democrazia. A Matteotti sono intitolate piazze, vie e monumenti. Si sorvola volentieri sul ruolo che ebbero i “pilastri” dell’ordine, la polizia, la magistratura, i giornali della borghesia, il Vaticano, i grandi imprenditori, nel determinare la situazione che portò allo stritolamento delle organizzazioni operaie e socialiste, utilizzando a piene mani la violenza più feroce e l’omicidio vero e proprio.

C’è anche da dire, per amore di verità, che della banda di farabutti che rapì e uccise materialmente Matteotti, praticamente nessuno ha pagato, dopo la fine della guerra e del regime fascista, il prezzo che doveva pagare. La repubblica italiana, che rivendicava la sua discendenza dal movimento antifascista, non fece a Matteotti nemmeno l’omaggio di un giusto processo e di appropriate condanne ai suoi rapitori e assassini. Il capo della squadraccia, Amerigo Dumini, morì a casa sua, nel 1967, per un collasso cardiaco seguito a un incidente domestico. Fu arrestato, è vero, nel 1947, ma fu poi scarcerato nel 1956. In quella data si iscrisse al MSI, partito neo-fascista il cui emblema, la fiamma tricolore, campeggia ancora nel simbolo del partito dell’attuale Presidente del consiglio. L’elenco dei rapitori assassini comprende altri sette nomi. Ricordiamone ancora qualcuno: Augusto Malacria, alla guida dell’auto con la quale fu sequestrato Matteotti, a cui i giudici fecero il regalo del “non luogo a procedere” . Giuseppe Viola che divenne un affermato costruttore a Milano. Ed è sempre a Milano che finisce normalmente la sua vita, come edicolante, Filippo Panzeri.

La crisi Matteotti

Il caso Matteotti generò una crisi politica che sembrò minacciare il governo Mussolini e il processo di “fascistizzazione” dello Stato. All’interno stesso del Partito nazionale fascista ci furono dimissioni, tentativi proclamati di “rigenerazione”, malumori di ogni tipo.

Per quanto Mussolini negasse ogni responsabilità diretta nel rapimento del deputato socialista, fino al punto di lasciar istruire un processo nel quale gli autori diretti del crimine e i loro fiancheggiatori furono posti sotto accusa, per l’opinione pubblica e specialmente per la classe operaia era chiaro che il primo responsabile era il capo del governo.

Il proletariato tornò a far sentire la propria voce. Si moltiplicarono gli scioperi, mentre la fragile costruzione del sindacalismo fascista rischiava di collassare irrimediabilmente.

Nelle parti più industrializzate d’Italia, i prefetti segnalavano a Roma una preoccupante ripresa delle “leghe sovversive”. Un rapporto della Milizia volontaria di sicurezza nazionale, indirizzata al Ministero degli interni lamentava come “nel circondario di Monza e a Gorgonzola, Trezzo e Cassano, la massa coalizzata contro il fascismo è numerosa e provocante. Nella Brianza e nel Vimercatese la situazione è criticissima. A Pisa, prosegue il rapporto, “negli stabilimenti Saint Gobain, Piaggio e Richard Ginori è intensa la propaganda sovversiva”. A Perugia si costituì una Camera sindacale “rossa”. In Veneto si registrava una intensificazione dell’attività comunista.

Insomma, lo sdegno popolare per il rapimento di Matteotti, prima ancora che in agosto se ne scoprisse il cadavere, aveva dato nuova forza ai nuclei più attivi del movimento operaio.

I riformisti non imparano la lezione

Neppure di fronte a questa situazione le direzioni riformiste seppero imboccare la via di una lotta decisa, basata sulla mobilitazione delle forze operaie. I gruppi parlamentari ricorsero alla cosiddetta tattica dell’Aventino che consistette nel rifiutare il rientro in Parlamento fintanto che non fosse chiarito il ruolo del governo nel caso Matteotti. Mussolini ne approfittò per fare approvare senza tanti contrasti delle leggi ulteriori sulla libertà di stampa mentre gli “aventiniani” aspettavano che il re rompesse con il governo e sciogliesse le camere per indire nuove elezioni. Cosa che, naturalmente, non avvenne.

La proposta dei comunisti di organizzare uno sciopero generale fu bocciata da Turati e dagli altri esponenti socialisti.

Lo svolgimento tragico degli avvenimenti non insegnava niente ai capi riformisti. Sembrava anzi che ne ricavassero una lezione contraria ai fatti. Si infilavano sempre più a fondo nelle illusioni “democratiche”, scambiando il loro desiderio di un ritorno al clima politico “pacifico” di prima della guerra per un traguardo raggiungibile attraverso i ragionamenti e la “persuasione” delle classi dirigenti. La valutazione della situazione politica, da parte dei capi socialisti, era incentrata sulla convinzione che la crisi aperta dal caso Matteotti avrebbe scavato un fossato tra le classi borghesi che, fino a quel momento avevano appoggiato sia lo squadrismo, sia il governo Mussolini, insediato nel 1922 dopo la Marcia su Roma. Il loro “termometro” erano gli editoriali di alcuni quotidiani di larga diffusione, le dichiarazioni di qualche vecchio esponente liberale, i risultati elettorali di alcuni paesi europei, come l’Inghilterra, che, con la vittoria dei laburisti, sembrava annunciare una nuova ondata di “sinistra”

Turati, Baldesi e gli altri dirigenti riformisti, sembravano ritenere che il fascismo era ormai divenuto uno strumento inservibile per le classi dirigenti.

Nel secondo convegno nazionale del PSU (Partito socialista unitario era le denominazione che aveva assunto l’ala riformista dei socialisti), nel marzo del 1925, si sosteneva: “La situazione oggi è, politicamente ed economicamente, il rovescio di quella esistente alla fine del 1922, che determinò la vittoria del fascismo. Allora molti partiti e classi aderirono al movimento fascista, lo supportarono e lo fiancheggiarono, perché si illusero di trovare in esso la possibilità di ricondurre il paese a un ritmo normale di vita...oggi il fascismo è stato abbandonato da tutti e trova le sue estreme difese nei moschetti della milizia”.

Ogni spazio viene chiuso

La crisi politica, indubbiamente, c’era o c’era stata, ma non avrebbe condotto automaticamente al crollo del fascismo, specie se questo crollo doveva dipendere dai partiti della democrazia liberale borghese e dal Partito popolare. Per quanto nell’ambiente degli industriali e dei banchieri serpeggiassero anche dubbi sul ministero Mussolini, nell’insieme il governo fascista continuò ad avere l’appoggio del padronato. Lo storico Valerio Castronovo, nel suo “L’industria italiana dall’ottocento a oggi” spiega bene quali sono i rapporti tra regime fascista e capitalisti. Dopo aver elencato una serie di provvedimenti del governo a favore degli industriali, scrive: “Questi provvedimenti non soltanto rafforzarono o agevolarono, a seconda dei casi, i rapporti tra gli ambienti industriali e il nuovo regime. Essi vennero intesi dalla grande industria come una sorta di sanzione definitiva della sua assoluta preminenza nella vita economica e sociale del paese, dopo che, nell’immediato dopoguerra, erano state sul punto di vacillare sia l’autorità indiscussa degli imprenditori nelle fabbriche sia l’assistenza dello Stato ad alcuni settori come quelli dell’industria pesante beneficiari fino allora di misure eccezionali di privilegio...Eliminate le organizzazioni sindacali democratiche, di pari passo con l’instaurazione della dittatura, anche la dinamica salariale subì una progressiva compressione”.

Perché la borghesia industriale e finanziaria avrebbe dovuto rinunciare a questi vantaggi e a questi privilegi?

Le tappe “istituzionali” che chiudono la crisi politica e stabiliscono definitivamente il regime dittatoriale sono aperte dal discorso al Parlamento del 3 gennaio 1925, in cui Mussolini si assume la responsabilità politica, storica e morale del delitto Matteotti. A ottobre dello stesso anno, con gli accordi di Palazzo Vidoni, la Confindustria riconosce alla Confederazione delle corporazioni fasciste il monopolio della rappresentanza dei lavoratori e quello della stipula di contratti collettivi di lavoro.

I partiti vengono aboliti di fatto nel novembre del 1926 .

La direzione riformista della Confederazione del lavoro, all’inizio del 1927, decide lo scioglimento di quella che era stata la più grande organizzazione operaia d’Italia. Il tradimento è completato dall’accettazione formale della legislazione fascista sul lavoro. Il regime ringrazia i vecchi burocrati confederali autorizzandone la costituzione in Associazione per lo studio dei problemi del lavoro, il cui organo mensile potrà uscire fino al 1941.

In uno scritto del 1932, scrive Trotsky: “L’ora del regime fascista arriva nel momento in cui i mezzi “normali”, militari e polizieschi della dittatura borghese, con la loro copertura parlamentare, non sono più sufficienti per mantenere la società in equilibrio...La fascistizzazione dello Stato non implica solo la mussolinizzazione delle forme e dei metodi di governo – su questo piano i mutamenti giocano, in fin dei conti, un ruolo secondario – ma anzitutto e soprattutto la distruzione delle organizzazioni operaie: bisogna ridurre il proletariato in uno stato di apatia completa e creare una rete di istituzioni che penetrino profondamente nelle masse e siano destinati a impedire la cristallizzazione indipendente del proletariato. È precisamente in questo che risiede l’essenza del regime fascista”.

Darsi i mezzi per impedire che la classe lavoratrice si organizzi e agisca politicamente in modo indipendente è, in fin dei conti, con strumenti diversi, ciò che la grande borghesia vuole da quando è al potere. Criticare il fascismo partendo da questo punto di vista mette evidentemente il luce i tratti di imbarazzante continuità tra dittatura fascista e “democrazia” costituzionale.

Matteotti, per quanto fosse imbevuto di illusioni e di pregiudizi democratico-borghesi, vedeva la lotta contro il fascismo soprattutto come espressione della contrapposizione tra proletariato e borghesia. Fu ucciso per il suo coraggio di militante del socialismo, di difensore delle organizzazioni operaie e di nemico implacabile del capitalismo.

R. Corsini