Le ultime elezioni amministrative sono state accolte da un nuovo record di astensionismo. Dei 13 milioni di elettori chiamati al voto, se ne sono presentati meno del 60% al primo turno e poco più della metà ai ballottaggi. Negli strati popolari, nei quartieri periferici delle grandi città, il fenomeno è stato ancora più rilevante. Tra questo mare di astenuti ci sono operai, disoccupati, pensionati, i componenti di un proletariato che non ha una voce che li rappresenti come classe che ha specifici interessi, né all’interno delle istituzioni rappresentative, né nella società. Il Movimento 5 Stelle, che ha conquistato le poltrone di sindaco a Roma e a Torino, rappresenta attualmente il massimo di opposizione all’ establishment che l’arco delle forze borghesi riesca ad offrire all’elettorato.
Ma si tratta, ancora una volta, di una forza politica borghese, i cui rappresentanti si immaginano di mettere tutto a posto sfrondando la pianta del capitalismo dai suoi rami secchi e dagli insetti che ne succhiano la linfa. Ma la malapianta del capitalismo, nella loro visione del futuro, deve rimanere saldamente al proprio posto.
Eppure è proprio con questa che, principalmente, fanno i conti i lavoratori italiani e i giovani e non giovani che non hanno un lavoro. Le loro condizioni di vita e il loro avvenire sono stritolati da un rullo compressore che si chiama ricerca del profitto ad ogni costo. Un rullo che agisce in tutto il mondo e che la crisi ha reso più micidiale.
Difendersi da questa macchina infernale, al cui comando stanno gli uomini della grande borghesia, comporta avere idee chiare sulla natura del conflitto sociale in corso. Rivendicare “onestà” non ci farà avanzare di un centimetro. Si può “onestamente” continuare a sfruttare una generazione di lavoratori pagandola “onestamente” quanto legalmente e contrattualmente stabilito. Basta che i contratti siano delle trappole per i lavoratori, basta che le leggi li sottomettano al volere padronale. Tutto perfettamente legale!
Ma soprattutto bisogna capire che la povertà e la precarietà del lavoro sono indissolubilmente legati a tutti gli altri problemi che angosciano le famiglie del proletariato, a cominciare dall’occupazione. Una classe operaia debole e ricattabile non riesce a imporre limiti al proprio sfruttamento, alla durata giornaliera delle proprie prestazioni, a una “flessibilità” che in realtà vuol dire possibilità di essere utilizzati, e quindi pagati, quando l’azienda ne ha bisogno. In questo modo si tolgono nuove opportunità di lavoro ai disoccupati e, a sua volta, la massa dei disoccupati agisce come un potente ricatto collettivo sui lavoratori occupati.
Queste sono, per la classe lavoratrice, le vere questioni in gioco, perché comunque la si camuffi, l’anatomia della società rimane caratterizzata, come ai tempi del Manifesto comunista di Marx, da due classi fondamentali, borghesia e proletariato, e sul contrasto di interessi che oppone l’una all’altra. L’unica vera scelta di campo degna di questo nome è quella fra queste due classi.
Dunque, le rivendicazioni del campo dei lavoratori devono rispecchiarne gli interessi collettivi. La spartizione del lavoro esistente e l’adeguamento conseguente degli orari di lavoro, l’abolizione di ogni forma di lavoro precario, la reintroduzione di una legge che vieti i licenziamenti immotivati, la garanzia del salario per i disoccupati, costituiscono il primo abbozzo di un programma politico della classe lavoratrice. Fare di queste rivendicazioni l’oggetto di una continua propaganda tra i lavoratori è un modo concreto per propagandare l’idea di un partito indipendente della classe lavoratrice, strumento senza il quale i lavoratori salariati sono inevitabilmente votati alla sconfitta.