Boom di licenziamenti nell’era del jobs act

Il vecchio assioma secondo cui per aumentare l’occupazione bisognava dare alle aziende la libertà di licenziare – una contraddizione nei termini spacciata per buona da almeno un ventennio – si è infranto naturalmente sullo scoglio della realtà. Non era necessario attendere i dati sui licenziamenti dell’ultimo anno; e di sicuro non sarà chiamato a rendere conto chi ha sostenuto una tesi tanto assurda. Ma per la classe operaia è un insegnamento in più.


Archiviato (per ora) il Governo Renzi con una replica più o meno analoga, resta la sua eredità più pesante per i lavoratori, non a caso il suo fiore all’occhiello nei confronti di Confindustria: la riforma del mercato del lavoro. C’è ancora chi ne parla come dell’estensione del lavoro a tempo indeterminato, quando ormai è chiaro a tutti che il vero risultato è stato l’abnorme proliferazione di quella sorta di lavoro nero legalizzato che sono i vouchers, mentre il vero motore del momentaneo aumento dei contratti a tempo indeterminato sono stati gli sgravi contributivi alle aziende.

Fermo restando che i cosiddetti contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti in realtà non tutelano un bel niente, caso mai trasformano tutti i lavori in lavori precari a vita, ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che l’obiettivo della riforma – ben lontano dall’essere l’aumento dell’occupazione – non era che dare un ulteriore colpo di maglio alle condizioni del lavoro dipendente. Nonostante ci sia ancora qualche esponente politico che ne vanta i presunti effetti benefici, ormai sulla stampa è diventato inevitabile pubblicare i dati che si rincorrono negli studi dei vari enti di ricerca, come anche degli organismi ufficiali, tipo l’Istituto Nazionale di Statistica o l’Inps. I lavoratori e i disoccupati in realtà se ne erano accorti già da tempo, oggi non resta che prenderne atto.

Nei primi dieci mesi del 2016 gli sgravi contributivi alle aziende hanno subito un drastico taglio, e il saldo tra contratti a tempo “indeterminato” e cessazioni è ancora positivo per sole 61.640 unità. Nei primi dieci mesi del 2015, ai tempi degli sgravi più corposi, il saldo positivo era migliore per ben l’89% in più: 588.039 unità. D’altra parte, i contratti a “tempo indeterminato” sono stati nei primi otto mesi del 2016 ancora meno che nel 2014, prima dell’entrata in vigore del Jobs Act, e quando si poteva ancora parlare di contratti a tempo veramente indeterminato (La Repubblica, 18.10.16). Nel frattempo il lavoro pagato con un semplice foglietto, senza obblighi né responsabilità né ulteriori lacci e lacciuoli per l’impresa, è esploso negli ultimi due anni, con un incremento del 35,9% della vendita di vouchers nei primi otto mesi del 2016 rispetto ai primi otto del 2015, che va ad aggiungersi a quello spettacolare del 71,3% nel 2015 rispetto al 2014 (dati: Il Fatto Quotidiano, 19.12.16).

In compenso, mentre calano le assunzioni, aumentano i licenziamenti, soprattutto “per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo”. Nel complesso anche in questo campo possiamo assistere a un altro boom: in due anni si è passati da 35.000 a 46.000 licenziamenti; per gli amanti delle statistiche, il 31%in più. Anche la stampa borghese è costretta ad ammettere: “Un dato che si spiega anche con la riforma del lavoro targata Renzi che ha cancellato l’articolo 18 allargando le maglie per le aziende” (La Repubblica, 18.10.16) .

Di quanto poi le abbia allargate, ce ne possiamo accorgere con frequenza quotidiana. L’appetito evidentemente vien mangiando, e non paghi di quanto siano già larghe, queste maglie, tra giusta causa e motivi vari, le imprese hanno già intravisto una nuova frontiera. Posto che i licenziamenti economici sono possibili per specifica situazione economica di crisi aziendale, mancanza di liquidità o organizzativa dell’azienda, apprendiamo proprio a fine 2016 che questi motivi “di organizzazione” si possono ulteriormente allargare a dismisura. Infatti la Corte di Cassazione, con una sentenza depositata il 7 dicembre scorso, ha emesso il suo giudizio – destinato a costituire un precedente e a fare quindi giurisprudenza - favorevole al licenziamento di un lavoratore, in quanto “- il datore di lavoro può licenziare un dipendente non solo in caso di difficoltà economiche e in situazioni di ristrutturazioni aziendali, dettate da una congiuntura negativa, ma anche per una migliore efficienza gestionale e per determinare un incremento della produttività. - In altre parole: per cercare di aumentare i profitti.[…] La Cassazione ha ritenuto che non sia necessario […] un calo di fatturato o bilanci in rosso per procedere a un licenziamento. […]Se l’attività privata è libera, deve esserlo anche la possibilità di organizzarla al meglio”. (La Repubblica, 29.12.16). Al meglio per chi? Qui non ci guadagna la società nel suo insieme, e nemmeno la qualità di un prodotto. Ci guadagna solo il singolo capitalista.

Ergo: solo il profitto ancora una volta è sacro, e vale ogni mezzo per raggiungerlo.

Ne possiamo trarre la semplice conclusione che gli interessi dei lavoratori valgono quanto i lavoratori stessi sono in grado di imporli, e che qualsiasi ulteriore cedimento non può che portare a nuovi abusi.

Aemme