Autunno 1920 - L’occupazione delle fabbriche

Il 31 agosto 1920, in risposta alla serrata ordinata dall’Associazione degli industriali, quasi trecento stabilimenti metallurgici di Milano vengono occupati dagli operai. È l’inizio di un movimento che si allarga a tutto il Paese e che coinvolgerà le maggiori fabbriche, non solo metallurgiche, e riguarderà anche braccianti e contadini poveri. Nelle fabbriche la produzione continua, spesso di più e meglio di prima, grazie ai consigli operai. Le autorità sono impotenti. Gli operai istituiscono drappelli di "Guardie rosse" per tutelare la sicurezza degli impianti, difendere l’incolumità degli occupanti, mantenere la disciplina. Il grosso del movimento si esaurisce alla fine di settembre ma in alcune situazioni, non accettando il compromesso sottoscritto tra sindacato e governo, si resiste fino alla fine dell’anno.

Anni di rivoluzione in tutto il mondo

Non si può capire questo grande e insuperato slancio rivoluzionario del proletariato italiano da cui ci separano ormai novant’anni, se non lo si collega alla più generale crisi politica ed economica che attraversa tutta l’Europa e, in parte, la stessa America e che vede uno straordinario sviluppo delle lotte e delle rivendicazioni operaie. Ecco come, in un’analisi retrospettiva, veniva descritto questo periodo in un documento dell’Internazionale Comunista: "Il movimento rivoluzionario, al termine della guerra imperialista e dopo tale guerra, si contraddistingue per la sua vastità, senza precedenti nella storia. Nel marzo del 1917 viene rovesciato lo zarismo. Nel maggio, burrascosa ondata di lotta con gli scioperi in Inghilterra. Nel novembre, il proletariato russo si impadronisce del potere statale. Nel novembre del 1918, caduta della monarchia tedesca e austro-ungarica. Il movimento degli scioperi si espande in tutta una serie di paesi europei e si sviluppa particolarmente nel corso dell’anno successivo. Nel marzo del 1919 si instaura in Ungheria la repubblica sovietica. Verso la fine dello stesso anno, gli Stati Uniti sono sconvolti dai formidabili scioperi dei metallurgici, dei minatori e dei ferrovieri. In Germania, dopo le battaglie di gennaio-marzo del 1919, il movimento raggiunge il suo apogeo, all’indomani della sommossa di Kapp, nel marzo del 1920. In Italia il movimento del proletariato industriale e rurale cresce senza tregua e porta, nel settembre del 1920, all’occupazione da parte degli operai, delle officine, delle fabbriche e delle proprietà fondiarie. Il proletariato ceco, nel dicembre del 1920, sceglie l’arma dello sciopero generale politico. Nel marzo del 1921: sollevazione degli operai in Germania centrale e sciopero dei minatori in Inghilterra".

Il capitalismo italiano si ingrassa con la guerra

In Italia, dove lo sviluppo industriale ha cominciato a imboccare la via dei paesi più sviluppati solo nei primi anni del secolo, la guerra agisce come un formidabile strumento di accelerazione dei processi economici e organizzativi dell’apparato industriale. Si assiste ad una "militarizzazione" dell’economia in molti settori, come avviene del resto in tutti gli altri paesi belligeranti, ma si assiste anche ad una straordinaria crescita nel numero e nella concentrazione della classe operaia industriale e negli investimenti produttivi. La cosa riguarda naturalmente in primo luogo l’industria degli armamenti e la siderurgia ma l’enorme massa di soldati mobilitata richiede uno sforzo straordinario per assicurare ogni tipo di vettovagliamento e, di conseguenza, la moltiplicazione delle attività industriali tessili, alimentari, del cuoio, chimiche, ecc.

Lo stato diviene il cliente numero uno della grande industria. Una garanzia per profitti impensabili in tempo di pace, moltiplicati dalla corruzione e dall’intreccio di interessi tra alta burocrazia militare e civile, banchieri e dinastie industriali. La morte di centinaia di migliaia di contadini e di operai, lo sfruttamento inumano dei lavoratori nelle retrovie e l’affamamento della popolazione sono i pilastri di questa pagina della storia del capitalismo italiano. Ne sono garanti, a livelli e con compiti diversi, la monarchia sabauda, lo Stato Maggiore, la maggior parte dei vecchi partiti della destra liberale e della sinistra "democratica" e le nuove correnti nazionaliste e interventiste che fuori dal parlamento hanno contribuito nel 1914 a creare un clima favorevole all’ingresso dell’Italia in guerra e che durante la stessa guerra si propongono come la componente "rivoluzionaria" del macello imperialista.

All’interno del Partito Socialista, che sia pure blandamente, aveva assunto una posizione di ostilità all’intervento, si formano e si rafforzano, nel corso del conflitto, correnti più risolutamente contrarie alla guerra e fedeli alla tradizione internazionalista del movimento operaio, correnti che riceveranno un impulso decisivo dalla rivoluzione russa del 1917. Saranno il nucleo del futuro Partito Comunista e tra i più decisi e preparati militanti si distingue il giovane Amadeo Bordiga.

La crisi sociale del primo dopoguerra

L’Italia del 1918, a guerra finita, è contemporaneamente uno stato "vincitore" e uno stato oppresso dai debiti che il mantenimento di un apparato militare-industriale messo su in pochi anni gli impone. Uno stato dove i motivi di malcontento si acutizzano in tutti gli strati della società. Per la vittoria "mutilata" dal concerto delle vere grandi potenze, per la fine, che si profila all’orizzonte, delle speculazioni e dei profitti dei pescecani dell’imprenditoria e della finanza, per l’immenso strascico di sofferenza lasciato dalla guerra. Centinaia di migliaia di giovani non faranno più ritorno a casa. Molti altri ritornano come invalidi alle proprie famiglie, ai campi, alle città, senza altra prospettiva che quella di divenire poco più che mendicanti. Infine, il malcontento e l’aperta ostilità nei confronti del governo e del padronato da parte dei lavoratori, che già era scoppiato in diversi episodi di ribellione nel corso della guerra, per la scarsità dei viveri e per i disumani ritmi di lavoro imposti dall’industria militarizzata, trova ora nuovo alimento nel clima generale.

Una grande ondata di scioperi caratterizza così l’inizio del primo dopoguerra italiano. La tensione sociale e l’evoluzione delle coscienze è testimoniata non solo dal rapido incremento delle ore di sciopero ma anche dall’aumento esponenziale degli iscritti ai sindacati e al partito socialista e dalla diffusione della stampa "sovversiva". "Erano i periodi- dirà il delegato italiano al IV Congresso dell’Internazionale Comunista, nel 1922- nei quali i sindacati, organizzati saldamente su base nazionale, potevano, con la sola tacita minaccia della sospensione del lavoro, ottenere continuamente aumenti di salari e vantaggi d’ordine morale: cosicché, per esempio, le otto ore di lavoro divennero patrimonio di tutta la classe lavoratrice senza che a tale scopo essa abbia dovuto impegnare e vincere una battaglia particolare".

L’occupazione e le speranze rivoluzionarie

Quindi l’occupazione delle fabbriche altro non è che il punto più alto di un movimento che andava rapidamente evolvendo dal terreno puramente rivendicativo e sindacale a quello politico, alla questione del potere. All’interno del movimento socialista, i gruppi e le tendenze più vicini al nuovo orientamento comunista che ha già dato vita alla Terza Internazionale, tentano di accelerare la maturazione rivoluzionaria del movimento. Già nell’estate del 1919 Gramsci aveva teorizzato la trasformazione dei consigli di fabbrica, appena nati alla Fiat, ed espressione del voto di tutti gli operai, sindacalizzati o meno, da organismi di lotta a organismi di gestione della produzione e del potere politico. A Torino, dove lo stesso Gramsci dirige il nuovo organo socialista torinese, "L’Ordine Nuovo", l’occupazione delle fabbriche assume un’enorme importanza per il peso della Fiat nell’apparato industriale italiano e per la capacità di fondere, almeno fino ad un certo grado, i rappresentanti riconosciuti della classe operaia torinese, come Giovanni Parodi, segretario della Commissione interna e del Consiglio di fabbrica della Fiat-centro o come Pietro Ferrero, operaio anarchico, segretario della sezione locale della FIOM, con la redazione dell’ "Ordine Nuovo" e con il gruppo di rivoluzionari socialisti che si raccoglie attorno a questa testata.

Un movimento di questa portata, in aperto conflitto con la proprietà capitalistica e con l’ordine borghese, avrebbe potuto rappresentare, senza dubbio, il primo passo di una rivoluzione proletaria in Italia e, di conseguenza, in Europa. Questo non accadde. Le direzioni riformiste riuscirono ad approfittare dell’indeterminatezza e dell’immaturità politica del movimento operaio. In primo luogo dell’immaturità e dell’inesperienza dei comunisti. Questi, infatti, non solo a Torino ma in tutta Italia, si scinderanno definitivamente dal vecchio apparato socialista riformista solo nel gennaio del 1921. Le centinaia di migliaia di operai e di braccianti che occupavano terre ed officine aspettavano un ordine, un’indicazione, aspettavano che qualcuno tra quelli che per anni e anni avevano parlato di rivoluzione nei comizi e nelle adunate si decidesse a mostrare loro la strada per farla concretamente. Lenin, a un anno dall’occupazione delle fabbriche, dirà polemicamente: "I comunisti italiani non sempre sono abbastanza comunisti. Durante l’occupazione delle fabbriche si è forse rivelato un solo comunista? No; in quel momento il comunismo non esisteva ancora in Italia. Si può parlare di una certa anarchia ma certo non di comunismo marxista."

I riformisti con Giolitti e Agnelli

Gli unici a sapere che cosa fare in quel momento furono gli uomini della grande borghesia, con Giolitti come loro fiduciario al governo, e, da un altro punto di vista, i riformisti. I primi lasciarono che il movimento dei lavoratori si logorasse per poi scatenare, contro le sue organizzazioni e i suoi dirigenti, il terrore pianificato delle squadracce fasciste combinato con l’appoggio delle forze di polizia e della magistratura. I secondi, che dirigevano la CGL e la FIOM, sempre puntando sulla stanchezza e sullo sconforto degli operai mobilitati, puntavano a trasformare la spinta rivoluzionaria in una semplice lotta sindacale con obiettivi puramente economici. Questi obiettivi, che comprendevano l’istituzione legale di una commissione per il controllo della produzione con all’interno una rappresentanza sindacale, vennero formalmente raggiunti nell’accordo di fine settembre 1920. Ma la bufera reazionaria, che comincerà dal 1921 in poi, cancellerà ogni traccia di quell’accordo e finirà per abbattersi anche sui sindacalisti che avevano contribuito a scriverlo.

Gli anni detti in seguito del "biennio rosso", cioè il 1919 e il 1920, rappresentarono dunque, veramente, a dispetto dell’ironia di tanti "storici" dei nostri giorni, una grande occasione mancata per i lavoratori e, nella misura in cui avrebbero potuto accelerare il processo rivoluzionario in tutto il mondo, rompendo l’isolamento della Russia sovietica, furono un’occasione perduta per tutta l’umanità. Del resto si può dire la stessa cosa per gran parte dei paesi europei. Ma l’Italia aveva dalla sua una più estesa combattività delle masse, una più diffusa ostilità nei confronti dello stato monarchico, una grande popolarità dell’idea stessa di rivoluzione tra i lavoratori e gli strati più poveri della società. La mancanza di un partito rivoluzionario, di un partito operaio e comunista all’altezza dei compiti, a fronte di tante circostanze oggettive favorevoli, si fece sentire più drammaticamente che altrove.

Una lezione da non dimenticare.