Sono passati quasi quattordici anni dal 2011, dal primo grande sciopero dei braccianti agricoli nella piana di Nardò, in Puglia. Per la prima volta i lavoratori immigrati si ribellano a chi chiede loro di aumentare l'intensità del lavoro per la stessa miserabile paga, scioperano per un mese e denunciano caporali e imprenditori agricoli. Scontando la consueta lentezza, il processo a loro carico si è concluso il 29 aprile scorso, con la sentenza definitiva della Corte di Cassazione
Il 31 luglio 2011 a Nardò, in provincia di Lecce, centinaia di braccianti immigrati iniziavano il loro primo sciopero auto organizzato in Italia. I caporali avevano chiesto ai raccoglitori di pomodori di riempire i cassoni facendo attenzione alle dimensioni del frutto: ci voleva più tempo, ma la paga sarebbe stata comunque 3,50 euro a tonnellata. Due ragazzi ghanesi si rifiutarono per primi, chiedendo almeno 6 euro. In poco tempo, praticamente tutti i braccianti abbandonavano i campi e aderivano allo sciopero. Per la prima volta i braccianti facevano fronte comune riunendosi in assemblea, definivano le loro richieste e ottenevano fra l'altro l'approvazione, soltanto due mesi dopo, della legge che punisce il reato di "intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro". Yvan Sagnet, uno studente del Camerun, che studiava ingegneria a Torino ed era sceso a lavorare a Nardò per guadagnarsi da vivere e pagare l'Università, è stato il portavoce della protesta e ha ben espresso la volontà di lotta degli immigrati: “E' una lotta difficile, ma vi assicuro che vinceremo. Abbiamo il nostro potere, siamo una forza, non dobbiamo arrenderci. So che questo messaggio è difficile perché la maggior parte di voi è venuta qui per lavorare. Sappiamo tutti che manifestare è difficile, ma tutto ciò che di bello c’è in questo mondo è stato ottenuto manifestando”. Alla lotta ha fatto seguito anche il processo ai responsabili e la sentenza che riconosce la condizione di riduzione in schiavitù che avevano subito i braccianti.
La schiavitù non è un fenomeno estinto nel mondo, e non lo è nemmeno in Italia. Un'inchiesta del settimanale “L'Espresso” del gennaio 2024 calcolava in oltre 50 milioni le persone ridotte in schiavitù nel mondo, circa 200.000 in Italia - tra l'altro ai primi posti in Europa per numero di schiavi - in crescita costante da un decennio. Non si tratta della schiavitù intesa in senso classico, con deportazioni in catene di esseri umani, vendita all'asta e sorveglianti muniti di frusta, ma di un evento non meno feroce e molto più insidioso. Non a caso la Corte di Cassazione ha stabilito che la condizione in cui si trovavano i braccianti di Nardò, principalmente africani arrivati in Italia tra il 2008 e il 2011, era per l'appunto di schiavitù. I lavoratori non erano liberi di scegliere se accettare o meno le condizioni a cui erano costretti a causa della loro estrema condizione di bisogno, della mancanza di alternative possibili, e molto spesso perché non conoscevano i loro diritti né sapevano esprimersi in una lingua pressoché sconosciuta. Che le catene siano fisiche, o che si tratti di catene di fatto, costituite dalla propria condizione nella scala sociale e dalla disponibilità dei mezzi di sopravvivenza, sempre di mezzi di coercizione si tratta. Di questi mezzi di coercizione avevano ampiamente approfittato sia i caporali che gli imprenditori agricoli, anzi in maggior misura questi ultimi, ma la sentenza della Cassazione – in questo come in innumerevoli altri casi – ha ritenuto che non fosse configurabile un'associazione a delinquere tra caporali e datori di lavoro; quindi ha assolto i datori di lavoro dal reato di riduzione in schiavitù. A ben vedere, la sentenza rovescia le responsabilità: il reato di riduzione in schiavitù non sarebbe ascrivibile ai diretti beneficiari di manodopera a costi irrisori, ma esclusivamente a chi si occupa di procurarla. In pratica, i colpevoli non sono i mandanti del delitto, ma soltanto gli esecutori.
Per gli imprenditori agricoli, una vera manna questo caporalato: prendi qualche piccolo delinquente, spesso un immigrato al pari di quelli che sfrutterà, abbastanza spregiudicato e senza scrupoli da arruolare un gruppo di disperati per lavorare a qualsiasi condizione, gli saldi il pacchetto e poi faccia lui: è il pesce piccolo che approfitterà anche dei suoi connazionali, farà pagare loro il trasporto in un furgone scassato, il panino fetido che mangeranno per pranzo, e anche la bottiglietta d'acqua che non li farà morire di sete, ma se verrà beccato pagherà quel che c'è da pagare, anche conto terzi. Per il padrone non si configurerà responsabilità penale diretta, perciò la farà franca. Non si tratta di una prerogativa delle campagne meridionali: nelle campagne del Veronese è stato scoperto qualche mese fa un traffico che implicava caporali indiani sfruttatori di braccianti della loro stessa nazionalità, letteralmente deportati in Italia con il miraggio di un lavoro, privati del passaporto e costretti a lavorare gratis per estinguere un debito di 17.000 euro contratto con il caporale per l'ingresso in Italia e il permesso di lavoro stagionale (Il Sole 24 Ore, 13.7.24). E non è un fenomeno limitato all'agricoltura: del 15 maggio u.s. la notizia di 37 lavoratori di un supermercato nel Catanese, che lavoravano oltre 60 ore la settimana per 1,6 euro l'ora, con due soli giorni di riposo in un mese (Il Fatto Quotidiano, 15.5.25).
Aemme