Nessun accordo con le “parti sociali”, ma un semplice verbale e una proposta di legge. Fine della “concertazione” e “fine del posto fisso”: in estrema sintesi, così la riforma del mercato del lavoro è stata presentata pressoché da tutta la stampa borghese. Anche considerando che il posto fisso era già un’illusione da molto tempo, e la concertazione ormai considerata un ferro vecchio, è innegabile un ulteriore pesantissimo colpo alla condizione dei lavoratori.
La scadenza esatta di dieci anni dopo la storica manifestazione della CGIL a Roma in difesa dell’art. 18 (era il 23 marzo del 2002, e il 23 marzo scorso è stato reso noto il testo della proposta di legge) aggiunge un tono da resa dei conti alla presentazione della riforma del mercato del lavoro.
Ci sono voluti dieci anni per infrangere le ultime resistenze, e sotto i colpi della crisi economica, Governo e imprese portano a casa un altro risultato. L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è stato, per dirla con il ministro Elsa Fornero, “spacchettato”, o per meglio dire, totalmente svuotato di contenuto. Sostanzialmente si apre il via libera per i licenziamenti senza giusta causa, senza possibilità di reintegro nel posto di lavoro. Lo “spacchettamento” distingue tra le varie cause di licenziamento: a carattere discriminatorio, disciplinare, economico.
Per il primo caso, qualora venga dimostrato il carattere discriminatorio, non cambia niente, ed è previsto il reintegro. Ma, come sa chiunque abbia messo piede in un posto di lavoro, difficile che il padrone che ti licenzia affermi di farlo perché sei comunista, sindacalizzato, hai scioperato o magari sei omosessuale, donna o immigrato. Di solito trova una scusa migliore.
Per il licenziamento disciplinare, il reintegro è previsto solo se il fatto non sussiste, o il lavoratore non lo ha commesso, o se la fattispecie è prevista dal contratto nazionale con una sanzione diversa dal licenziamento. Ma se non si verifica nessuna di queste ipotesi, basta che secondo il padrone una qualunque infrazione sia degna di licenziamento, e può mandarti a casa con un semplice indennizzo, senza che il giudice possa disporre diversamente.
Per il licenziamento di carattere economico, la discussione si è allargata un po’ di più. Per i licenziamenti ingiustificati la regola diventerà il pagamento di un indennizzo, mentre fino ad oggi la regola era il reintegro. Non è previsto il reintegro nemmeno se la ragione economica è ingiustificata: per dire, sarà sufficiente un calo transitorio del fatturato. Ma è bastato che nell’ultima versione, pronta per l’iter parlamentare dopo la scelta di non voler esagerare con un decreto legge come per la riforma delle pensioni, si aggiungesse una postilla che prevede il reintegro nel caso di una ragione economica “manifestamente insussistente” (sarà dura dimostrare questa manifesta, chiara e lampante insussistenza), perché la Cgil – fino a quel momento dichiaratamente contraria - cominciasse ad ammorbidirsi. Stavolta manifestazioni oceaniche non ce ne sono state, e gli scioperi, che hanno accompagnato gli ultimi giorni della trattativa (se così si può chiamare) con i sindacati, sono stati frammentari e quasi esclusivamente limitati all’iniziativa della Fiom. Uno sciopero generale è stato ipotizzato dalla sola Cgil, ma com’è costume degli ultimi anni, ampiamente fuori tempo e rigorosamente dopo le amministrative di maggio, per non mettere in difficoltà il piddì.
E’ chiaro che ci voleva – ci vuole - molto di più, se già in occasione della riforma pensionistica dello scorso dicembre, Monti aveva potuto affermare, durante la sua trasferta americana di febbraio: “Solo tre ore di sciopero, dopo la riforma delle pensioni, significa che i nostri sindacati sono maturi, come l’opinione pubblica italiana” (Corriere della Sera, 10.2.11). E qualche giorno dopo: “Se gli italiani andranno avanti con questo senso di responsabilità e con questa maturità, mi permetto di sperare in uno spread zero” (Corriere della Sera, 15.2.12). Lo spread zero né Monti né gli italiani probabilmente lo vedranno mai, anche perché non è detto che i sacrifici sempre più insopportabili imposti ai lavoratori soddisfino la voracità inarrestabile dei “mercati”.
Però in effetti i sindacati “maturi” lo sono, Cgil compresa, almeno tanto da permettere l’erosione sempre più massiccia e aggressiva delle condizioni della classe operaia. E difatti Monti ha ribadito, stavolta dal Giappone, durante il giro asiatico in cerca di mercati e capitali: “Sono fiducioso, il caso precedente delle pensioni mi lascia ben sperare. Una parte della riforma è accettata da tutti, un’altra, strettamente complementare, rappresenta una medicina più amara da ingoiare” (Corriere della Sera, 29.3.12). La parte condivisa da tutti comprende una miseria di indennità di disoccupazione ottenibile solo con 52 settimane di lavoro in due anni, per cui sono state stanziate risorse scarsissime; quanto alla riduzione della precarietà, i 46 tipi di contratto oggi in essere ci sono ancora tutti. E’ chiaro che il boccone ghiotto sta proprio nello scalpo dell’art. 18. Il Corriere della Sera poteva ben esultare il 23 marzo scorso: “Dopo 42 anni di onorato servizio la norma simbolo dello Statuto va in pensione. E muore il posto fisso”.
Già dopo la manifestazione del 23 marzo 2002, avevamo scritto che la prova di forza messa in campo dalla Cgil aveva un senso solo funzionando da punto di partenza, per allargare e generalizzare le lotte; ma la battaglia per la difesa dell’art. 18 si è esaurita molto presto nel successo momentaneo e isolato sulla specifica norma. Nel frattempo il campo è rimasto aperto all’irruzione senza freni delle forme di lavoro precario, divenute poi la prassi e mai contrastate con la stessa determinazione dimostrata nella difesa dell’art. 18. Non era difficile immaginare che, una volta distrutte le tutele per tutte le infinite forme flessibili di contratto, l’art. 18 apparisse un’anacronistica cattedrale nel deserto tra un movimento operaio che non riesce a trovare i punti di riferimento e una classe capitalista che sa individuare lucidamente come - e a chi - far pagare i propri errori.