Perfettamente nel segno della “linea Marchionne”, le imprese incassano in forma definitiva il dividendo della legge sull’arbitrato. Ma la maggior parte dei lavoratori ancora non lo sa. Né giornali né telegiornali hanno dedicato all’argomento più di qualche accenno distratto. Per caso?
Si è concluso lo scorso 19 ottobre il lungo iter della legge sull’arbitrato, dopo che nella primavera scorsa era stata rinviata alle Camere dal presidente Napolitano, perplesso – perfino lui – sulla “conoscibilità e sulla comprensibilità delle disposizioni e quindi sulla certezza del diritto”, e soprattutto preso dalla necessità di “verificare che le disposizioni siano pienamente coerenti con la volontarietà dell’arbitrato e la necessità di assicurare un’adeguata tutela del contraente debole”.
Nemmeno un anno dopo, con la crisi che incalza sempre di più le condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori, con l’offensiva sempre più spinta di Governo e Confindustria, possiamo constatare cosa ne è stato delle perplessità e dei dubbi che accompagnavano il cosiddetto Collegato lavoro. Dalla scorsa primavera il tempo non è passato invano, nel frattempo c’è stata l’imposizione delle condizioni Fiat a Pomigliano, la disdetta del contratto firmato nel 2008 da Federmeccanica, l’accondiscendenza sempre più spudorata di Cisl e Uil alle posizioni padronali. E oggi, l’approvazione definitiva della legge sull’arbitrato aggiunge un altro tassello al disegno coerente che Confindustria ha in testa sull’utilizzo spregiudicato della forza lavoro.
Le imprese chiedono con determinazione margini sempre più larghi nella libertà di sfruttamento, senza di che minacciano chiusure, delocalizzazioni, investimenti all’estero. Le imprese chiedono chiaramente garanzie assolute e assenza dei rischi connessi alla conflittualità, su tutti i fronti. Sul fronte interno alle fabbriche, intendono scongiurare scioperi e blocchi della produzione, sul fronte esterno vogliono impedire, o ridurre al minimo, il contenzioso nelle cause di lavoro. La legge sull’arbitrato obbedisce a quest’ultima esigenza.
Il padronato non maschera l’intenzione di fare man bassa, e non di rado ci riesce. Rispetto alla versione del marzo scorso, contro la quale si era schierata la Cgil, presentandola all’ultimo momento fra i punti all’ordine del giorno nello sciopero del 12 marzo scorso, l’unico evidente vantaggio per i lavoratori è che non sarà possibile utilizzare le clausole arbitrali compromissorie per le controversie relative ai licenziamenti. Con una differenza, rispetto a prima: in caso di licenziamento, non sarà più sufficiente opporsi al provvedimento entro 60 giorni, ma tutto l’iter dovrà concludersi entro 9 mesi. I lavoratori precari licenziati, che intenderanno impugnare il contratto per ottenere l’assunzione a tempo indeterminato, dovranno farlo entro 60 giorni: così sanno che rischiano di non essere richiamati per un altro – eventuale e non certo - contratto precario, o devono rassegnarsi a rinunciare alla possibilità di agire in giudizio. La norma è già in vigore, per tutti, anche per i contratti già scaduti.
Per le altre controversie legate al rapporto di lavoro, sarà possibile rinunciare preventivamente, con un impegno vincolante di entrambe le parti (cioè in pratica solo del lavoratore) a ricorrere al Tribunale. Non è difficile immaginare fino a che punto il lavoratore sia costretto a firmare la clausola compromissoria, e quanto invece sia una sua libera scelta. Come i lavoratori di Pomigliano, ma in forma strettamente individuale e solitaria, dovrà scegliere se sottoporsi al capestro o restare senza lavoro. Gli arbitri privati costeranno di più al lavoratore, e soprattutto potranno decidere non in base alle leggi e ai contratti collettivi, ma “secondo equità”, e derogando tranquillamente alle regole.
Un’ulteriore garanzia per le imprese sarà la possibilità, sempre con l’accordo di entrambe le parti, in altre parole con la forzata sottomissione del lavoratore, di sottoporre il contratto di lavoro a certificazione: una commissione, creata appositamente e organizzata da consulenti del lavoro, dovrà certificare che il contratto stesso corrisponde veramente al rapporto di lavoro instaurato, che quindi non ci sono difformità della prestazione lavorativa tra ciò che è scritto e ciò che realmente si fa. Allo stesso modo potranno essere certificate le clausole compromissorie che “le parti”, ovvero l’impresa, vorranno introdurre. Con ciò il lavoratore avrà le mani legate, e difficilmente potrà dimostrare che gli sono state imposte.
Il tutto si configura come una manovra di accerchiamento sempre più stretta: mentre si smantellano le norme a garanzia dei lavoratori, si cerca di ridurre il contratto nazionale a una semplice cornice, dove gli aumenti non sono contrattabili, ma legati a un calcolo più o meno ingannevole dell’inflazione, la crescita del salario è legata esclusivamente alla produttività (anche questa calcolata chissà come), gli orari, i turni, etc. trattati su base aziendale.
I lavoratori non possono aspettarsi su questo terreno nessun’altra risorsa, se non la loro mobilitazione. In questo senso, la manifestazione FIOM del 16 ottobre, che ha visto la presenza forte e partecipata di una marea di lavoratori, deve diventare l’inizio di una serie di lotte più ampie e diffuse, fino allo sciopero generale e oltre.