Ancora non basta

Una manovra contro i lavoratori e i ceti popolari


Sfogliando le pagine dei giornali all’indomani dell’approvazione della manovra finanziaria, dopo un’estate di tira e molla all’interno della stessa maggioranza di governo, ci si rende conto di quanto sia diffusa l’opinione che… non basterà.

L’impostazione generale l’aveva data, almeno teoricamente, il Documento di Economia e Finanza votato il 5 maggio, che si proponeva il pareggio di bilancio entro il 2014, secondo quanto era già stato stabilito in ambito europeo. Incombeva l’incognita delle amministrative e i comunicati del governo rassicuravano: “I conti sono in ordine, per il 2011 non è prevista alcuna manovra correttiva”.

In piena euforia per l’affermazione del centrosinistra alle amministrative, Il 28 giugno la Cgil firma un accordo con gli altri sindacati, la Confindustria e il governo che viene incontro alle esigenze degli imprenditori sulla “esigibilità” degli accordi collettivi e sulle possibili deroghe dei contratti aziendali rispetto a quelli nazionali. Erano, a suo tempo, le richieste di Marchionne. Il comunicato del Ministero dell’economia: “Grazie Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti, Susanna Camusso ed Emma Marcegaglia. Grazie per quello che hanno fatto oggi nell’interesse del nostro Paese”.

Il 6 luglio il ministro Tremonti presenta alla stampa i numeri della manovra. Il grosso dei tagli, circa 40 miliardi, è previsto nel 2014, dopo la scadenza naturale della legislatura. La “furbata”, che Tremonti e Berlusconi pensano di far passare impunemente, consiste nel lasciare il “cerino acceso” al prossimo governo. Inizia da quel momento il pressing, prima discreto, poi sempre più alla luce del sole, degli organismi europei, e del governo tedesco in modo particolare, per presentare un piano di rientro del deficit di bilancio un po’ più credibile. Il giorno successivo, lo stesso ministro dell’Economia deve difendersi in conferenza stampa dalle accuse di un suo coinvolgimento nello scandalo che ha travolto il suo ex braccio destro, il deputato Marco Milanese, per il quale la Procura di Napoli ha chiesto la custodia cautelare.

Ma è tutto il “percorso” della manovra che, visto a posteriori, appare come il susseguirsi di atti di una commedia in cui grandeggiano tanto il marciume della politica nazionale, quanto l’egoismo senza prospettive della borghesia italiana e la totale impotenza e la sostanziale subalternità dei cosiddetti “riformisti” di centrosinistra nei suoi riguardi. Il giorno prima della presentazione della manovra alla stampa, si era diffusa la notizia di una norma, inserita nel testo e inseguito ritirata, che avrebbe consentito di sospendere il pagamento del maxi- risarcimento di 750 milioni di euro che la Fininvest deve alla Cir di De Benedetti.

Il 12 luglio i giornali danno la notizia della telefonata della Merkel a Berlusconi perché cambi la manovra finanziaria. Nel frattempo si è già verificato un primo grande “tonfo” dei titoli di stato italiani. La risposta è una nuova rimodulazione della manovra che, complessivamente, è calcolata ora in 79 miliardi. Le opposizioni consentono al governo di varare la manovra, nella sua portata economica, in tempi record. In tre giorni viene approvata dalle Camere. Tutti si complimentano con il “senso di responsabilità” dei partiti di Centrosinistra. Per il Presidente Napolitano “la manovra pronta è un miracolo”.

Ma i tanto celebrati e temuti “mercati” non prendono la cosa sul serio. L’apertura della Borsa, il lunedì 18 luglio segna un meno 3% ulteriore mentre aumenta ancora lo spread con i titoli di stato tedeschi. Si susseguono alti e bassi in tutte le borse. Nel frattempo il dibattito parlamentare sui contenuti della manovra, cioè sui concreti provvedimenti economici da prendere per ottenere il risultato – condiviso unanimemente da tutte le forze politiche – del pareggio di bilancio entro il 2014, si fa sempre più caotico e si intreccia con i vari scandali che l’azione delle procure mette in luce. Gli uomini di Berlusconi, tutto sommato, restano fedeli al capo, rifiutando di discutere qualsiasi ipotesi di governo alternativo senza il Cavaliere come premier. Questo nonostante la portata e la gravità degli scandali in cui questo è invischiato sono tali che al suo posto si sarebbe dimesso anche il presidente di una società bocciofila.

Anche questo è un segno dei tempi ed è la misura del grado di imputridimento a cui è approdata la politica parlamentare: non esiste a breve una soluzione di ricambio, nessuno nel PdL sembra in grado di camminare senza la stampella del super-ricco di Arcore, tutti sembrano, in un modo o nell’altro, dipendere da lui. La Lega, nel frattempo, ha cercato di giocare la parte del difensore delle pensioni e ha rafforzato, a uso e consumo di un elettorato sempre più disilluso, la propaganda secessionista. Tutti gli impegni presi nel corso dell’estate sul taglio dei privilegi dei parlamentari e – in genere – dei “costi della politica”, si sono risolti in un nulla di fatto.

Ciò che interessa i lavoratori, solo per citare le cose più eclatanti, è che nel testo finale è stato inserito il famigerato articolo 8, per il quale i contratti di lavoro aziendali o territoriali possono imporre ai lavoratori condizioni peggiorative rispetto ai contratti nazionali e alle leggi. Le tutele dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori possono essere messe in discussione, si apre la strada ai licenziamenti collettivi anche nelle grandi aziende. Il governo ha approfittato appieno del varco aperto da tutti i sindacati con l’accordo del 28 giugno. Oltre a questo la manovra contiene l’anticipazione al 2014 del processo che porterà l’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni per le donne del settore privato. Inoltre, l’aumento immediato al 21% dell’IVA, si risolverà, come tutte le imposte indirette, in un aggravamento delle spese per i ceti popolari.

Ma tutto questo ancora non basta. Un ulteriore giro di sacrifici è dietro l’angolo. Su La Stampa del 13 settembre si legge: “…qualora i conti della manovra che il governo si appresta a varare a metà settimana non dovessero tornare, l’attenzione tornerà inevitabilmente a concentrarsi sulla previdenza. Del resto, se la Germania intende innalzare a 69 anni l’età pensionabile (dai 65 attuali), è chiaro che il nocciolo è tutto lì”.

Sarà chiaro per “loro”. Per noi invece è chiaro che ci vorrà molto di più dello sciopero generale del 6 settembre per imporre uno stop alle pretese del governo e del padronato!

R. Corsini