A dispetto della propaganda xenofoba di marca leghista, ma ormai sponsorizzata da più parti dato che a quanto pare porta voti, il fenomeno delle migrazioni ha aspetti poco conosciuti che smentiscono i luoghi comuni, e non riguarda solo i popoli extracomunitari. Se ci fidiamo dei numeri invece delle chiacchiere, e ci occupiamo della realtà, la realtà ci sorprende.
Dal 2008, anno dell’inizio della crisi economica, la popolazione europea a rischio povertà o esclusione sociale è aumentata di quasi tre milioni di individui, e ha raggiunto nel 2015 la drammatica quota di 118,7 milioni, cioè quasi un quarto dell’intera popolazione UE. Tra i Paesi in cui l’indice di povertà è aumentato di più in questi anni, l’Italia si colloca al quarto posto dopo Grecia, Cipro e Spagna. Una persona su cinque da noi è a rischio povertà reddituale, cioè magari lavora ma il reddito di cui dispone è inferiore alla soglia di povertà stabilita per il nostro Paese. Più in generale, in Europa una persona su dodici è a rischio deprivazione materiale, cioè fa fatica a vivere pagando le bollette dei propri consumi, a curarsi o a riscaldarsi d’inverno. Infine, circa una persona su 10 vive in famiglie dove gli adulti lavorano meno del 20% del loro potenziale. (Dati Eurostat).
Naturalmente i paesi dell’Est sono i Paesi più colpiti da questa condizione, ma come abbiamo visto l’Italia fa parte dei Paesi affacciati sulle sponde del Mediterraneo che risultano maggiormente coinvolti, specialmente nelle regioni del Sud. Non a caso nel 2015, secondo il rapporto annuale della Caritas, i centri della Caritas dislocati nel Meridione sono stati punto di riferimento per una larga fetta di popolazione, e per la prima volta la percentuale degli italiani ha superato quella degli immigrati. Le necessità sono svariate, e vanno dalla povertà economica alla disoccupazione, ma sono ricorrenti anche i problemi abitativi e il disagio familiare, quando non si cumulano più problematiche. E i più poveri ormai non sono gli anziani, anzi. Oggi la povertà assoluta è inversamente proporzionale all’età: sono i giovani i più esposti al rischio, e considerando gli ultimi vent’anni di progressiva precarizzazione delle condizioni di lavoro, non è necessario ricorrere alla crisi economica per spiegarsene il motivo. Se la crisi mondiale ha ovviamente aggravato la situazione, sarebbe stato comunque complesso venire a capo di una legislazione del lavoro che s’impegna molto nel relegare le nuove generazioni ai livelli più bassi della società, mentre costringe la generazione di lavoratori più anziani a prolungare la vita lavorativa oltre i limiti più assurdi.
Non si tratta di affrontare unicamente il tasso di disoccupazione giovanile, che pure in Italia sfiora il 40%, quasi il doppio della percentuale di disoccupazione giovanile della media UE. Anche avendo un lavoro, vuoi per l’instabilità, vuoi per la precarietà istituzionalizzata, vuoi per i salari irrisori, non è detto che sia scongiurato il rischio di precipitare nella condizione di povertà: non può essere un lavoro stagionale, o a tempo determinato, o qualche vouchers distribuito saltuariamente, a fornire sicurezza economica alle nuove generazioni. E infatti, secondo il rapporto Migrantes, fondazione che fa capo ai vescovi italiani, la fascia anagrafica che va tra la maggiore età e i 34 anni è quella più soggetta a un fenomeno relativamente nuovo per il nostro Paese, almeno nell’ultimo ventennio: nel 2015 si sono trasferiti all’estero oltre 100.000 connazionali, con un incremento che negli ultimi 10 anni è stato di quasi il 55%. Il tono del rapporto tende a sdrammatizzare, descrivendo il fenomeno come una novità dovuta alle caratteristiche di una leva giovanile per la prima volta “mobile”, che ha voglia di “mettersi alla prova”, di “conoscere e scoprire”, di “coltivare ambizioni e nutrire curiosità”, la cui mobilità “è in itinere e può modificarsi continuamente perché non si basa su un progetto migratorio già determinato ma su opportunità lavorative sempre nuove”.
La voglia di sperimentare per fortuna è da sempre una qualità giovanile, ma fatto sta che, sia pure con condizioni molto diverse e fatte le dovute proporzioni, i giovani che dall’Italia vanno cercando all’estero nuove opportunità non sono poi così diversi dai loro coetanei che provengono dai Paesi dell’Est europeo o dai Paesi extracomunitari. Come loro cercano condizioni migliori, e come loro sono risucchiati dai meccanismi propri del modo di produzione capitalistico: vanno dove sperano e pensano di poter lavorare e vivere meglio. Certo, un conto è fuggire da guerre o dalla miseria assoluta a bordo di un barcone, un conto prendere un aereo, magari a basso costo, con i soldi della famiglia; ma l’obiettivo e le molle che muovono l’emigrazione in qualche modo si assomigliano.
A dispetto della propaganda sparsa con demenziale arroganza da politici privi di scrupoli, pronti nei momenti di crisi a marchiare un nemico qualsiasi pur di nascondere l’assurdità del sistema di produzione capitalistico, nel 2015 il numero dei cittadini italiani all’estero ha superato quello degli stranieri residenti in Italia. Gli stranieri residenti nel nostro Paese sono 5.000.000, ma sono 5.200.000 gli italiani residenti all’estero, secondo il dato delle anagrafi consolari reso noto nel Dossier Statistico Immigrazione 2016, realizzato dal centro studi Idos e dalla rivista Confronti, in collaborazione con l’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni). In più, aumenta la percentuale di coloro che restano stabilmente all’estero: il saldo migratorio tra chi parte e chi torna è negativo.
Non sarà facendo leva sugli istinti più bassi di popolazioni messe alle strette dal bisogno che si potrà trovare una soluzione alle crisi che si susseguono, e che muovono le persone indipendentemente dalla loro volontà, spingendole a cercare una via d’uscita lontane da dove sono nate e cresciute. E sicuramente additare chi entra nel nostro Paese come causa di ogni miseria, non permetterà a nessuno di evitare l’emigrazione a sua volta.
Aemme