Il “preaccordo” del 14 aprile, al quale la grande maggioranza dei dipendenti Alitalia ha detto No conteneva la diminuzione delle retribuzioni dell’8% per il personale di volo, una riduzione del numero di riposi annuali da 120 a 108, l’esternalizzazione della manutenzione, l’individuazione di 980 esuberi tra i lavoratori a tempo indeterminato, una retribuzione sensibilmente inferiore per i futuri assunti.
L’approvazione dei lavoratori è stata posta a condizione per la “ricapitalizzazione” di Alitalia, oggi sull’orlo del fallimento. In altri termini, gli stessi azionisti che hanno condotto l’azienda al disastro, dettano ora ai lavoratori le condizioni per accettare di rifinanziarla. Ma perché l’Alitalia è fallita o quasi? È una domanda alla quale molti rispondono con l’incapacità del management – per altro lautamente retribuito – di impostare un piano industriale in grado di tentare la conquista di nuovi collegamenti di lungo raggio, visto che sulle tratte nazionali e su quelle europee la concorrenza delle compagnie Low cost non lascia speranze. Sia vera in parte o del tutto questa spiegazione, i lavoratori si sono giustamente chiesti su quali elementi concreti si basasse la promessa di un rilancio dell’azienda. Addirittura, nel piano presentato ai sindacati era contenuto un forte aumento dei ricavi che, stando così le cose, non si comprende da dove potesse derivare. In queste vicende, quando ci sono le mediazioni del Ministero, c’è sempre qualche cosa che viene nascosto al pubblico. In ogni caso, è difficile sfuggire alla sensazione che qualche cosa di concreto sia stato promesso dal governo agli azionisti, che altrimenti non si sarebbero impegnati in un’avventura che pare attualmente senza speranze.
Ma dai dipendenti Alitalia si pretendeva che non ragionassero su quello che stava accadendo, si pretendeva un vero e proprio atto di fede, si pretendeva che dimenticassero i sacrifici già fatti in occasione di due precedenti crisi aziendali, accompagnate da altrettanti “salvataggi condizionati”. Da parte loro, gli azionisti, fiutato il clima, facevano pressioni sul governo perché esortasse i lavoratori ad approvare il preaccordo. Così si sono succeduti, in televisione o in interviste sui giornali, i ministri dei Trasporti Delrio, quello dello Sviluppo economico Carlo Calenda, l’immancabile Poletti per il Lavoro e anche il capo del governo, Gentiloni. Il refrain era sempre lo stesso: non c’è alternativa, o si approva o si va al fallimento. E bisogna dire che ben pochi commentatori, tra le più gettonate penne della stampa nazionale, si sono sottratti dal ripetere lo stesso ritornello. Un po’ di spirito critico, che dovrebbe far parte del loro mestiere, gli avrebbe almeno dovuto suggerire che una consultazione dove se vince il Sì va tutto bene e se vince il No è una catastrofe, non è democrazia ma è ricatto.
Stufi di essere presi in giro, i lavoratori Alitalia si sono ribellati. Se la loro lotta proseguirà, non ci sono dubbi che il primo passo è stato giusto.