Aggressione razzista a Mortara, la barbarie avanza quando la coscienza di classe cede terreno

Ad inizio settembre Mortara, cittadina della provincia di Pavia e uno dei centri maggiori della Lomellina, si è trovata sotto i riflettori della stampa nazionale. Il motivo di questa attenzione è triste, vergognoso ma ormai tutt’altro che raro nello scenario di imbarbarimento del capitalismo italiano. Un giovane operaio, originario del Benin, è stato aggredito nei pressi di un bar da tre soggetti autoctoni. Tre signori di mezza età che, a quanto risulta dalle prime ricostruzioni comparse sulla stampa, non avrebbero gradito che un “negro” potesse circolare su di un monopattino elettrico, simbolo di un livello di agiatezza che evidentemente non può spettare a chi ha il colore della pelle sgradito ai paladini del “prima gli italiani”. L’affronto alla supremazia della bianca razza italica è stato prontamente vendicato: immigrato pestato e monopattino scassato.

Questa storia di ormai ordinario razzismo si è consumata in un luogo che mostra come questi comportamenti si possano sviluppare e diffondere sulla base di un determinato retroterra sociale, possano attecchire in una condizione prodotta dalle dinamiche contraddittorie della società capitalistica. Mortara ha infatti una storia di organizzazione e di lotta di classe lunga, prestigiosa e importante, ma per certi versi emblematica del percorso critico attraversato da molti centri industriali a partire dagli ultimi decenni del Novecento. Zona di antico radicamento delle società operaie, le cui prime presenze sono attestate alla metà dell’Ottocento, epicentro di un combattivo movimento bracciantile impiegato nelle risaie lomelline, Mortara ha vissuto un intenso processo di industrializzazione, con la formazione di una classe operaia concentrata in diversi stabilimenti operanti in vari settori, dal tessile al chimico. Anche il panorama politico locale attestava la consistenza di questa presenza. Non senza le inevitabili contraddizioni della rappresentanza opportunista nel quadro politico borghese, il Pci si era ritagliato un ruolo di primo piano nelle amministrazioni cittadine, ruolo che scemerà in concomitanza con il profondo mutamento economico e sociale divenuto palese e acceleratosi tra la fine del secolo scorso e i primi anni Duemila. I casi, in tempi molto recenti, di allarmi ambientali dovuti a roghi di rifiuti che hanno associato a Mortara e alla Lomellina la qualifica di “terra dei fuochi”, non fanno che confermare ulteriormente un degrado del tessuto economico e del livello dell’imprenditoria locale. Scomparsi alcuni dei principali siti produttivi, il proletariato locale, sempre più frammentato, sottoposto ad un generale processo di indebolimento e di arretramento nelle proprie condizioni di lavoro e di difesa, si è dovuto misurare con tutti i problemi, le incognite e le difficoltà di una fase di marcata deindustrializzazione.

Sotto certi aspetti, il pestaggio dell’immigrato, individuato come valvola di sfogo di un disagio sociale che si incattivisce ai tavolini del bar di una cittadina in fase di declino economico, ci mostra qualcosa di accostabile ad una sorta di canovaccio “americano”: l’odio razziale come manifestazione di un risentimento sociale che non riesce a tradursi in coscienza di classe, come espressione di classi subalterne che, attraverso l’individuazione di un falso nemico, nel nome della difesa di una ingannevole supremazia, rinsaldano la propria subalternità. Offrendo così alle classi dominanti l’inestimabile possibilità di minare, indebolire, deviare le energie che potrebbero concentrarsi invece sulle vere cause, sulle autentiche responsabilità di un sistema capace di piegare, abbattere intere comunità. La storia della lotta di classe negli Stati Uniti, la storia di un razzismo radicato e alimentato tra gli strati economicamente inferiori della popolazione, ci offrono una potente e drammatica dimostrazione di quanto le divisioni etniche, antagonismi e pregiudizi razziali possano danneggiare, ostacolare, ritardare un’azione coerente ed efficace della classe sfruttata. Qualcosa di simile si sta producendo oggi anche in Italia, con la nefasta aggravante, rispetto agli anni della diffusa discriminazione degli immigrati meridionali, che le attuali pulsioni razziste prendono corpo in un capitalismo non più nella fase della crescita industriale, con la fabbrica come luogo di aspra ma reale integrazione di classe, ma in una realtà capitalistica spesso declinante, con un movimento operaio in condizioni di debolezza che non è esagerato definire storicamente inedite. Non deve sorprendere, quindi, che questa situazione offra ampi spazi all’influenza piccolo-borghese, al gretto sciovinismo delle mezze classi prodotte e mantenute dai ritardi, dalle incongruenze del capitalismo italiano, dai mefitici compromessi tra i vari strati borghesi. Alle prese anch’esse con le difficoltà e con le dure leggi del mercato capitalistico, queste componenti borghesi e parassitarie hanno oggi buon gioco nell’influenzare il proletariato, nell’arruolarlo dietro un sordido nazionalismo bottegaio, nell’utilizzarlo intruppandolo e scagliandolo contro falsi, ma comodi, bersagli. Quando la nostra classe, il proletariato, l’unica classe storicamente progressiva, si ritira, cede terreno, questo è il risultato. L’imbarbarimento della società capitalistica può dispiegare impunemente le sue ali. E i patrioti da bar possono esprimere la propria protesta sociale picchiando un proletario, pestando un operaio.

Forse era difficile prevedere qualche decennio fa che questo sistema ormai senza futuro per l’umanità avrebbe lasciato tra i compiti rivoluzionari persino quello di far piazza pulita dei cascami della Storia, dei fetidi rimasugli di epoche passate riesumati e riplasmati dal degrado borghese, come i fenomeni di razzismo e xenofobia ormai entrati nella normalità della cronaca. Casi come quello di Mortara amareggiano ma devono anche spronare sempre più nella lotta contro un sistema che non è più nemmeno in grado di onorare, di mantenere, di garantire le basilari conquiste della borghesia quando fu classe rivoluzionaria e ascendente. “Socialismo o barbarie”, questa celebre parola d’ordine del movimento rivoluzionario mostra ogni giorno di più la sua forza di sintesi teorica. Una sintesi che va capita e affrontata senza pigrizie intellettuali o comodi messianismi catastrofisti: la barbarie non è confinata in un futuro da apocalisse post-nucleare, è già oggi, è nel presente disumanizzante del capitalismo che sopravvive. È nella violenza anti-umana e anti-proletaria che può covare e consumarsi tra l’ennesimo prosecco e il caffè troppo corretto sui tavolini di un “normale” bar di provincia.

Corrispondenza Pavia