Abbiamo vissuto sopra i nostri mezzi?

Con l’artificio retorico del “bene comune”, con trucchi e colpi di mano da consumati illusionisti, Monti e soci preparano un futuro di miseria per la classe operaia, senza distinzione di generazioni. Giovani disoccupati o sottopagati che diventeranno anziani disoccupati, sottopagati o con pensioni da fame.


A partire da agosto 2011, il proletariato italiano ha dovuto fare i conti con un neologismo prima sconosciuto, e poi sempre più in voga sulla stampa e sulla bocca dei politici di qualsiasi tendenza: la parola spread, cioè la differenza tra il tasso di rendimento dei titoli pubblici italiani e quelli tedeschi. Un martellamento quotidiano ci ha assaliti: lo spread aumenta, lo spread è ai massimi storici, la febbre dello spread è altissima, è indispensabile diminuire lo spread, etc.etc. Con la magica parola spread e la pressione mediatica quotidiana che l’ha accompagnata, si sono predisposte (e si stanno ancora mettendo a punto) quelle che tutti presentano come salutari “riforme” per salvare il Paese, le future generazioni, etc.

A partire dall’impennata della crisi finanziaria di giugno-luglio 2011 si è trattato di un crescendo evidente, che ha effettivamente preparato un urto poderoso sulla classe operaia, senza che questa - nonostante si siano verificati molti esempi di lotte isolate – riuscisse a organizzare una resistenza sufficiente. Per ottenere questo risultato, la borghesia italiana ha sacrificato senza rimpianti il governo Berlusconi, ormai inutilizzabile, sostituendolo appunto con i cosiddetti “tecnici”. Usando il trucco illusionista di un governo neutrale, ha fatto passare senza colpo ferire la distruzione del sistema pensionistico e sta ultimando la riforma del mercato del lavoro, con la demolizione dell’art. 18, operazione che dieci anni fa non riuscì al governo Berlusconi.

Eppure, come rileva il rapporto Eurispes sull’Italia 2012, il 53,1% degli italiani riterrebbe utili i sacrifici richiesti, anche se per il 74,8% la situazione economica del Paese è peggiorata. Apparentemente si ha la sensazione di assistere a un massacro sotto l’effetto di un potente anestetico. La sensazione di ipnosi è accresciuta dal tono surreale delle dichiarazioni degli esponenti governativi, che riescono a far passare per giudizi ragionevoli delle enormità evidentemente assurde. In occasione delle celebrazioni per il 25 aprile, ad esempio, “Monti invoca per il Paese lo spirito della Resistenza: UNITI PER RIGORE ED EQUITA’” (così titola con toni patetici Il Corriere della Sera del 26 aprile). E nella stessa occasione, proprio mentre l’ennesimo rapporto statistico (rapporto OCSE, l’organizzazione che raggruppa 34 economie avanzate di tutto il mondo) rende noto che i salari italiani scivolano dal 22° al 23° posto nella graduatoria dei salari medi, proclama solenni sciocchezze come “Non esistono facili vie d’uscita, né scorciatoie per superare questa dura fase di crisi, frutto amaro del fatto che per un lungo periodo il sistema politico ha alimentato in noi italiani l’illusione di poter vivere al di sopra dei nostri mezzi.”

Chi ha vissuto al di sopra dei propri mezzi? “Noi italiani”….noi italiani chi?

RISCHIO POVERTA’

La situazione della classe operaia ha subito un arretramento drammatico, anche rispetto agli anni precedenti. Secondo il rapporto Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, se a livello di Unione Europea un abitante su quattro è a rischio povertà (e otto su cento vivono già nella miseria), gli italiani sono nella media, anzi sono leggermente sopra, con un 24,5% su una media europea del 23,4. L’Italia è al terzo posto per il rischio di povertà, dopo la Grecia e il Portogallo. Questi dati, usciti a febbraio, si riferiscono al 2010, e quindi probabilmente sono più ottimistici rispetto alla realtà attuale. L’ISTAT, che ha dati più aggiornati, conferma questa tendenza, affermando inoltre che ben 8,3 milioni di individui in Italia si trovano in condizioni di povertà, cioè il 13,8% della popolazione residente.

Anche il rapporto della Banca d’Italia - riferito sempre al 2010 – conferma questa tendenza. Il 27,7% delle famiglie italiane ha debiti, e il 29,8% reputa le proprie entrate insufficienti a coprire le spese. Rispetto alle rilevazioni degli anni precedenti – rileva Bankitalia – “emerge una tendenza all’aumento dei giudizi di difficoltà”. Dati analoghi sono ribaditi dall’ufficio studi della CGIA di Mestre, che è un po’ più aggiornato, e secondo il quale dal settembre 2008 allo stesso mese del 2011 l’indebitamento medio delle famiglie è aumentato del 36,4% in termini assoluti, mentre l’importo medio per ciascun nucleo è intorno ai 20.000 euro. Molto spesso si apre un debito per pagarne uno pregresso, entrando in un circolo senza soluzione. Secondo Eurispes, quasi la metà delle famiglie italiane è costretta a intaccare i risparmi per arrivare a fine mese, mentre oltre il 70% riferisce di non riuscire a risparmiare, un quarto ha difficoltà a pagare la rata del mutuo, quasi un quinto a pagare l’affitto, l’8,9% si è trovato in arretrato con il pagamento delle bollette.

Il bollettino della Banca d’Italia avverte che negli ultimi quattro anni la spesa delle famiglie è crollata del 5%.

DIVARIO SOCIALE

Il 10% delle famiglie più ricche si appropria del 45,9% dell’intera ricchezza netta del paese, in crescita – manco a dirlo - rispetto al 44,3% del 2008. Aumenta lo “spread”, per così dire, tra i redditi più bassi e i redditi più elevati. Nel 1980 l’1% più ricco degli italiani guadagnava il 7% del totale, già nel 2008 la sua quota era passata al 10%: inutile aggiungere che la tendenza va in questa direzione anche negli anni successivi. Così come non è difficile immaginare, e le rilevazioni confermano, anche un dato già noto: negli ultimi trent’anni la quota dei redditi da lavoro autonomo sul totale della ricchezza è aumentata del 10%; di pari passo è diminuita quella da lavoro dipendente. Il rapporto ISTAT conferma il dato anche in termini assoluti. A dicembre la paga oraria ha avuto un incremento dell’1,4% su base annua, mentre i prezzi sono saliti del 3,3%: il divario più alto da agosto 1995. Solo che nell’agosto del ’95 la prospettiva era quella di una graduale ripresa, oggi l’Italia è considerata ufficialmente in recessione.

BASSI SALARI, ALTA TASSAZIONE

A dicembre 2011 risultavano in attesa di rinnovo 30 contratti di lavoro, di cui 16 appartenenti alla Pubblica Amministrazione, che prevede il blocco fino al 2014: in pratica, il 31,4% dei lavoratori era – ed è - in attesa dei rinnovi contrattuali. Evidentemente dopo l’abolizione della scala mobile, ormai vent’anni fa, i lavoratori non recuperano più nemmeno l’inflazione. Infatti, nella classifica aggiornata dell’Ocse sui 34 Paesi più industrializzati, l’Italia peggiora il dato degli anni precedenti, collocandosi al 23° posto su 34 nella classifica dei salari netti, e aggiudicandosi però ben il 6° posto per il livello di tassazione. Prendendo a riferimento un lavoratore singolo senza figli, il fisco si mangia il 47,6% del suo salario. Nel caso abbia un salario elevato, e nel caso del reddito di una coppia con due figli, ciò che pagano di tasse si colloca al 3° posto dell’area OCSE, rispettivamente con il 53% e tra il 38,6 e il 44,5% di tassazione. Tra il 2010 e il 2011 le tasse sono cresciute per tutti i lavoratori, come del resto per tutto il decennio 2000-2010, e sempre ampiamente al di sopra della media OCSE.

PENSIONI

Cresce l’età del pensionamento e cala il numero delle nuove pensioni. E come potrebbe essere diversamente? Ancora non è possibile misurare l’entità della cura da cavallo targata Fornero, ma con quelle precedenti, Damiano e Sacconi, nei primi tre mesi di quest’anno l’età di pensionamento è aumentata di un anno, mentre il numero delle pensioni pagate è dimezzato nel privato e diminuito del 32% nel pubblico impiego. Stampa e telegiornali si sono profusi, al solito, in commenti compiaciuti, sottolineando soddisfatti che l’Italia si avvia a diventare tra i Paesi più “virtuosi” d’Europa in fatto di pensioni.

CASSA INTEGRAZIONE

Per il terzo anno di fila, la cassa integrazione è a livelli record. Dati Cgil parlano di 1 miliardo di ore e quasi 10.000 aziende interessate. Ma mettono anche l’accento sulla stagnazione dell’occupazione nelle grandi imprese a partire da settembre, accompagnata in ogni caso da una contestuale diminuzione della cassa integrazione. Questo conferma che una parte dei lavoratori, quando finisce la cassa integrazione, non rientra in fabbrica e rimane senza lavoro.

DISOCCUPAZIONE

A dicembre, secondo l’indagine ISTAT, il numero dei disoccupati in Italia ha toccato 2.243.000 unità, in aumento dello 0,9% su novembre, e del 10,9% rispetto a dicembre 2010. E’ il dato peggiore da quando, nel 2004, si sono rilevate le serie storiche mensili. Se si considera il numero totale di chi è senza lavoro, compresi gli inattivi e la sottocategoria degli scoraggiati, quelli che il lavoro non lo cercano nemmeno più, i numeri sono ancora più drammatici: cinque milioni di italiani sono senza lavoro, di cui quasi tre milioni gli inattivi. Secondo la Cgil, la disoccupazione reale in Italia è ormai al 13%, in aumento di due punti sul 2011, di quattro sul 2009. Ma è il tasso di disoccupazione giovanile quello che galoppa di più: a dicembre era al 31%, in aumento di 3 punti rispetto a un anno prima; a marzo è salito al 35,9%. Se si confronta il dato con il 2007, quando oscillava tra il 19 e il 21%, si ha un’idea molto chiara del tributo che le nuove generazioni pagano alla crisi del capitalismo. Se poi si guarda al genere di lavoro riservato ai giovani, si ha un’idea chiara sul futuro che il capitalismo stesso intenderebbe riservare a tutti quanti: i lavoratori precari nella fascia tra i 15 e i 24 anni sono il 46,7% del totale, praticamente la metà. Tanto per avere un’idea, nella fascia tra i 35 e i 54 anni i precari sono l’8,3%, in quella oltre i 55 sono il 6,3%. La stampa borghese si strappa i capelli sulla “maledizione” dei giovani, ossia sulle condizioni di lavoro che i giovani si trovano ad affrontare. In realtà, non si tratta di condizioni riservate esclusivamente a loro, ma semplicemente delle forme di lavoro (flessibile!) che vengono offerte a chiunque negli ultimi anni si sia affacciato sul mercato del lavoro: è questo il nuovo lavoro, così si vorrebbe il lavoro dipendente. Quello a tempo indeterminato e con qualche garanzia sarebbe residuale, in attesa di essere spazzato via: dalle cosiddette riforme o dalla prassi, poco importa. Già da oggi può perdere i pezzi, sotto l’urto della concorrenza spietata di chi è costretto a lavorare a condizioni peggiori. E naturalmente, per aumentare l’occupazione, l’unica ricetta dei partiti borghesi è aumentare quella che chiamano “flessibilità”, in entrata e in uscita….cioè licenziare e assumere a piacimento dei padroni.

FUTURE GENERAZIONI

Sarebbe questa la classe lavoratrice che ha vissuto al di sopra dei propri mezzi, e per la quale Monti può pontificare: “Come l’Italia riuscì a liberarsi dall’occupazione nazifascista, ora deve imparare a liberarsi di alcuni modi di pensare e di vivere che le hanno finora impedito di riflettere sul futuro dei più giovani” (Corriere della Sera, 26.4.12).

Con questa sentenza, vorrebbe farci credere che non abbiamo alternative alla rassegnazione, che dobbiamo accettare tutto senza reagire. Ma in effetti sarebbe l’ora di adottare l’invito di Monti: la classe operaia deve smettere di pensare con la logica di chi la sfrutta, smettere di accettare una vita al di sotto di un tenore dignitoso, e riflettere sull’urgenza di lottare, per assicurare un futuro alle generazioni che verranno.

Aemme