La rivolta di Ancona è uno di quegli episodi che caratterizzano gli anni 1919-1920 come Biennio rosso:un susseguirsi di “fiammate” sociali che mentre testimoniano del clima prerivoluzionario del primo dopoguerra, attestano anche l’impreparazione e l’inettitudine dei dirigenti del Partito socialista, che pure si dicevano rivoluzionari e godevano allora di un’enorme influenza tra i lavoratori. I capi riformisti, da parte loro, che tenevano saldamente nelle mani la Confederazione del lavoro e che convivevano ancora, quasi tutti, nello stesso partito dei “rivoluzionari”, sabotarono e demoralizzarono il movimento operaio ogni qualvolta questo superava i limiti del conflitto puramente economico-sindacale.
La crisi politica e l’insediamento di Giolitti
L’Italia era, quel giugno 1920, in piena crisi politica, oltre che economica. Nel corso della guerra si era imposta di fatto come potenza occupante in Albania, nel quadro di una strategia che avrebbe dovuto garantirgli il controllo dell’Adriatico. Alla fine della guerra, la nuova spartizione che si stava delineando impose all’imperialismo italiano di ritirarsi. Il governo italiano voleva tuttavia preservare un suo protettorato sull’Albania e mantenere una propria presenza armata nel porto di Valona. Ma l’annuncio del parziale ritiro delle truppe italiane alimentò la resistenza armata della popolazione albanese che riuscì ad annientare quasi completamente un reparto di bersaglieri che presidiava il passo di Logorà. Le truppe italiane rimasero asserragliate a Valona, senza ordini, senza rifornimenti, senza nessunsoccorso.
Nel frattempo, in Italia il governo stava passando dalle mani di Nitti a quelle di Giolitti. Quest’ultimo aveva cercato di crearsi una nuova verginità rivendicando la sua posizione neutralista nella Prima guerra mondiale e appariva agli occhi della borghesia la carta migliore che poteva giocarsi in una situazione di crescenti movimenti di sciopero e di proteste sociali di ogni tipo. I socialisti chiedevano a gran voce il ritiro delle forze armate dall’Albania e, in un manifesto sottoscritto anche dalla Confederazione del lavoro, il 15 giugno, invitavano i lavoratori ad opporsi alla nuova spedizione di rinforzo progettata dal governo Nitti e che Giolitti non aveva nessuna intenzione di interrompere.
“Via da Valona!”
A Trieste eranopronti tre piroscafi pieni di truppe per l’Albania. Un gruppo di “arditi”si recò alla redazione del Lavoratore, giornale socialista locale, per chiedere che si facesse qualcosa per impedire la partenza. La richiesta venne accolta e un corteo di migliaia di operai e di donne sfilò per le vie posizionandosi davanti alle caserme. Seguirono scontri e barricate. Soldati in divisa e arditi vi parteciparono dalla parte degli operai.Episodi simili anche se minori si verificarono in Lombardia ed Emilia. La parola d’ordine “Via da Valona!” venne ripetuta in tutte le piazze d’Italia.
Ad Ancona, il 25 giugno, una delegazione di bersaglieri di stanza alla caserma Villarey, si reca alla Camera del lavoro. Chiedono che le forze “sovversive”, come si diceva allora, impediscano la partenza delle navi per Valona. Il segretario del sindacato risponde che la Camera del lavoro si occupa di questione economiche, di salari e di orari di lavoro e non può prendere nessuna iniziativa se non viene una precisa direttiva dal Partito socialista. I locali rappresentanti del Partito socialista allora, si impegnano ad appoggiare una protesta contro la spedizione militare. Si stabilisce un accordo per un intervento il giorno successivo, in occasione della sfilata d’imbarco delle truppe. Il quotidiano socialista, Avanti, lo stesso 25 giugno, pubblica un ambiguo manifesto, firmato dal Partito socialista, dalla Cgl e dal Gruppo parlamentare socialista: “La situazione attuale indica che la crisi si accelera nell’approssimarsi dello scontro formidabile fra borghesia e proletariato. Per la necessità di affrontare la nuova lotta con tutte le nostre energie, gli organismi dirigenti il movimento proletario in Italia devono mettere in guardia i lavoratori da mosse che potrebbero essere dannose e pregiudizievoli al movimento d’insieme. […] La rivoluzione proletaria non può essere opera di un gruppo di uomini, né compiuta in un’ora. Essa è il risultato di una formidabile preparazione compiuta attraverso sforzi immani e una disciplina ferrea”.
Il carattere tipico del massimalismo socialista è tutto in queste frasi. Si rivelerà, nei mesi successivi, la maledizione del movimento operaio italiano e probabilmente il maggiore impedimento alla maturazione di un vero partito rivoluzionario. Frasi roboanti, promesse di futuri formidabili eventi, ma, nel frattempo, l’invito alla “calma” e l’appello a una “disciplina” che si rivelerà sempre di più come un espediente per rinviare qualsiasi decisione e per garantire, di fatto, l’ordine capitalistico.
L’ammutinamento dei bersaglierie l’unità con gli operai
Il 26 giugno, senza ascoltare gli appelli alla “disciplina” dei dirigenti socialisti, I bersaglieri si ammutinano, imprigionando tutti gli ufficiali. Mentre i lavoratori si mobilitano al momento stabilito.
Nel tentativo di isolare i bersaglieri ammutinati dalla popolazione, carabinieri e guardie regie circondano la casermaVillarey. Prendendo atto della situazione di fatto, la Camera del lavoro di Ancona proclama lo sciopero che i portuali e gli operai di diverse aziende avevano già iniziato. La città insorge, si erigono barricate, i bersaglieri escono dalla caserma, si uniscono agli operai, li armano. Altre armi vengono procurate assaltando i negozi degli armaioli. Si combatte tutta la notte del 26. Gli operai e i soldati rivoltosi sono padroni di Ancona.
Le notizie dell’insurrezione si diffusero in tutta Italia. Scioperi e manifestazioni a Roma, a Milano, a Cremona, mentre il movimento da Ancona si irradiò nelle città e nelle province limitrofe. Quasi sempre i dirigenti socialisti furono alla coda degli avvenimenti, spesso li disapprovarono, sempre esortarono alla “calma” e alla “disciplina” in attesa di chissà quale “momento propizio”. Un’importante eccezione fu Jesi, dove la popolazione insorse e, il partito socialista, la locale federazione anarchica e la sezione repubblicana, insieme alla Camera del lavoro, svolsero un ruolo propulsivo. Si formò un comitato rivoluzionario che procedette al sequestro dei mezzi di trasporto e delle armi e tentò perfino un arruolamento di ex-combattenti in una costituenda “Guardia rossa”.
I ferrovieri in sciopero riuscirono almeno in parte a impedire l’invio di rinforzi di carabinieri e guardie regie. Un treno riuscì tuttavia ad avvicinarsi ad Ancona ma venne fermato a fucilate dagli insorti. A quel punto, Giolitti decise di fare il gioco pesante e ordinò di bombardare la città con i cacciatorpediniere. L’operazione venne giustificata in un primo momento dalla necessità di “salvare Ancona dagli anarchici” e, successivamente, da emissari “slavi” che avrebbero alimentato i moti insurrezionali.
Schiacciata l’insurrezione, il 28 giugno, si scatenò la caccia all’uomo con centinaia di arresti (cinquecento solo ad Ancona). Ma la situazione rimaneva ancora incandescente e il movimento operaio doveva ancora dare del filo da torcere alla borghesia e al suo stato.
Insegnamenti dell’insurrezione
In una relazione del questore di Ancona al procuratore del Re si riflettono le preoccupazioni delle classi dominanti in quel periodo: “la notizia dell’ammutinamento della caserma Villarey fu a mio credere, l’incentivo e il pretesto per tentare un colpo rivoluzionario in Ancona…Infatti il mattino del 26 giugno l’episodio di Villarey induceva i facchini del porto, gli operai metallurgici del Cantiere, i tranvieri, i muratori ed altre categorie di operai ad abbandonare il lavoro appena iniziato ed a recarsi in massa alla Camera del Lavoro e in quel momento si inizia una serie di fatti che rappresentano appunto il prodotto di una lunga preparazione rivoluzionaria”.
Il vero problema, invece, era che non ci fu nessuna “lunga preparazione rivoluzionaria”. I fatti di Ancona, come decine di altri episodi di sommovimenti operai, contadini, popolari nel Biennio rosso sorpresero per primi i dirigenti socialisti. Un segno evidente che questi non avevano il polso della situazione. La predisposizione rivoluzionaria di larga parte delle masse operaie e contadine, scaturiva da quanto queste masse avevano subito e stavano subendo: l’immane numero di morti e mutilati per una guerra che certamente il proletariato non condivideva, la disoccupazione, il caro-vita, la miseria. Questo stato d’animo durò per almeno due anni e pose direttamente nelle mani dei dirigenti delle organizzazioni operaie la responsabilità di “organizzare la rivoluzione”. Ancona fu, in scala ridotta, la rappresentazione di tutti i problemi che un partito operaio rivoluzionario avrebbe dovuto porsi, affrontare e risolvere.
La ricca storia della nostra classe è fatta di brevi momenti in cui ci si avvicina alla rottura rivoluzionaria e di lunghi periodi di sconfitta, di demoralizzazione e di stagnazione dei movimenti di sciopero e delle proteste di massa. In questi lunghi periodi i rivoluzionari devono tenere vivo il ricordo delle esperienze passate e soprattutto studiarle con attenzione, perché i problemi non risolti un secolo fa si ripresenteranno immancabilmente nel futuro.
R.Corsini