E’ il vecchio gioco della concorrenza tra lavoratori e dell’auto-sfruttamento: sembrava smorzato dalla consapevolezza e dalle lotte del movimento operaio, ma è tornato da tempo in varie forme e con diverse giustificazioni. E spesso, nelle forme più spinte di sfruttamento, con aspetti particolarmente insidiosi
Tra i vari arnesi ideologici utilizzati negli ultimi anni per intensificare lo sfruttamento, l’aspetto del “merito” e della “produttività individuale” è fra quelli più difficili da maneggiare per i lavoratori, e frequentemente si trasforma in un’arma che si ritorce contro. Ciascun padrone ha buon gioco nel sostenere che “chi lavora di più deve guadagnare di più”, e a prima vista questa frase può sembrare, soprattutto a chi si è affacciato da poco tempo nel mondo del lavoro, una frase innocua, e perfino portatrice di significati equi.
Con il pretesto di una presunta equità, si sono andate moltiplicando nei contratti di lavoro, sia pubblici che privati, le forme di retribuzione collegate con il rendimento, e hanno cominciato a rifare la loro comparsa forme stringenti di controllo del lavoro operaio, con episodi neppure tanto isolati o sporadici; così ad esempio l’introduzione dell’uso di telecamere negli ambienti di lavoro (previsto dallo stesso Jobs Act) o addirittura dispositivi come microchips, da applicare agli indumenti da lavoro, per tenere sotto stretto controllo “le fasi della lavorazione” - dicono i padroni - più verosimilmente le persone, si potrebbe aggiungere.
Alla vasta gamma di significati che si attribuiscono al concetto di “merito” si dà in genere un valore esclusivamente positivo, quando in fin dei conti “meritare di più” significa molto spesso accettare di farsi sfruttare in modo più intensivo, spesso per una ricompensa irrisoria, ma sempre con i maggiori vantaggi per il padrone. Senza contare che i comportamenti “virtuosi” costituiscono il nuovo parametro dello sfruttamento, e molto presto diventano il nuovo punto di partenza, da cui far ripartire il “merito”, in una spirale che potenzialmente non avrebbe limiti. Un esempio di questo sfruttamento “no-limit” è l’episodio avvenuto, non in Cina o in India, ma alla Sevel Spa di Atessa (Chieti) che produce i furgoni Ducato; il Corriere della Sera del 25 settembre u.s. ha documentato il caso, e la successiva causa (peraltro vinta) che un operaio ha dovuto promuovere contro l’azienda, con l’aiuto del sindacato USB. Alla Sevel si utilizzano metodi molto precisi di controllo, con i tempi per ogni movimento nella catena di montaggio rigorosamente cronometrati, e una procedura molto precisa per le pause fisiologiche. “Nei casi di bisogno fisiologico - riferisce il Corriere - è previsto che il cosiddetto team leader sostituisca il lavoratore, ma nessuno è intervenuto. Allora il dipendente ha suonato i dispositivi di chiamata d’emergenza, anche qui senza risultato. Alla fine non ha potuto evitare di farsi la pipì addosso […] Nonostante ciò riprendeva immediatamente il suo lavoro; chiedeva di potersi cambiare in infermeria, ma tale permesso gli veniva negato, tanto che il lavoratore è riuscito a cambiarsi solo durante la pausa, alle 18, al cospetto di tutti i lavoratori vicini, donne comprese”. Il lavoratore in questo caso ha ottenuto - due anni dopo - un risarcimento di cinquemila euro per l’umiliazione subita. Ma se questo genere di abusi sono la prassi in un posto di lavoro, viene da pensare che sarebbe stata molto più efficace e utile per il futuro la ribellione collettiva di tutta la catena di montaggio, e poi di tutta la fabbrica.
A questo fra l’altro sono servite, nella storia del movimento operaio, le organizzazioni dei lavoratori: dare una risposta collettiva; evitare che nella concorrenza reciproca fra lavoratori i padroni potessero incunearsi, per contenere i salari ed aumentare lo sfruttamento; evitare che un lavoratore - per guadagnarsi la sopravvivenza - fosse disposto a sfinire se stesso. Sarebbe utile non dimenticarlo mai, nemmeno in condizioni difficili come quelle attuali, che contano anche figure di lavoratori prima sconosciute. E’ il caso dei “rider”, i fattorini che recapitano a casa i pasti pronti, e lavorano per grandi aziende multinazionali, come Just Eat e Deliveroo. Ormai tutti sanno come funziona: si lavora scaricando un’applicazione sul cellulare, e ci si mette al servizio di piattaforme online. Queste forniscono unicamente la notifica delle consegne da effettuare e i recipienti termici per trasportare i cibi; tutto il resto è a carico del lavoratore, mezzi e rischi connessi compresi. Negli ultimi tempi anche questa categoria di lavoratori ha cominciato a organizzarsi per chiedere le tutele minime, come la fine del cottimo, un salario fisso, l’assicurazione contro i rischi. Ma evidentemente le sirene dell’autosfruttamento gridano forte: il decreto “salva imprese” del 6 agosto scorso, non ancora convertito in legge, contiene un modesto tentativo di legiferare in proposito, ma non è stato gradito da una frangia di rider che, invitando il ministero a “farsi gli affari propri” chiede di poter continuare a lavorare alle condizioni attuali (Il Fatto Quotidiano, 3.10.19). Il cottimo, secondo loro? “La forma più meritocratica che ci sia […] E’ motivazionale, perché chi dà di più riceve di più. Da quando faccio il rider sento che il mio lavoro è valorizzato”. E quanto si deve lavorare per uno stipendio lordo sui duemila euro? “Oltre 50-60 ore la settimana”.
Ma c’è anche chi vede più lontano, come i collettivi di fattorini che hanno cercato di unire le loro lotte per combattere lo sfruttamento. Cosa ne pensano loro? Vedono i rischi. Di colleghi manovrati dalle aziende, drogati dal miraggio di guadagnare di più, che “arrivano ad annullare se stessi e gli altri per poco più di 8 euro l’ora, rinunciando a ogni tutela”. E’ ovvio, siamo d’accordo con loro.