80 anni fa: Italia marzo 1943, i lavoratori in lotta nonostante la dittatura

Il 5 marzo 1943, inizia a Torino un movimento di sciopero che presto si diffonde in tutta l'Italia settentrionale. Dopo oltre vent'anni di dittatura fascista e nel bel mezzo di una guerra mondiale, il proletariato d’Italia alzava la testa e assestava un colpo al regime di Mussolini.

Le condizioni di vita dei lavoratori erano sempre più dure. Alla carenza di beni e all'assenza di riscaldamento, si aggiungeva l'aggravarsi dello sfruttamento, con giornate lavorative di 10-12 ore, il ripristino del cottimo. Tutto questo accadeva sotto le bombe che gli eserciti alleati sganciavano sui quartieri popolari, provocando migliaia di morti e feriti e migliaia di famiglie sfollate o costrette a vivere in mezzo alle rovine. Gli operai dovevano accontentarsi di razioni alimentari tra le più basse d'Europa, con 150 grammi di pane al giorno e 100 grammi di carne alla settimana. Allo stesso tempo, la borghesia e gli alti dignitari del regime fascista ostentavano la loro ricchezza.

La dittatura aveva soppresso i sindacati, gli scioperi erano vietati e puniti con l'accusa di alto tradimento, eppure per il regime era sempre più difficile reprimere il malcontento. Già nel 1942, nelle fabbriche del nord del Paese erano scoppiati movimenti sporadici per chiedere razioni alimentari o salari più alti. Nell'ottobre 1942, le operaie, in fila per ore davanti ad un negozio, presero d'assalto un camion di patate, svuotandolo del suo contenuto. Un rapporto dell'OVRA, la polizia politica fascista, affermava: "In alcune fabbriche si verificano interruzioni spontanee del lavoro e rischi di sabotaggio. C'è una diffusa disaffezione dal lavoro".

All'inizio del 1943, mentre l'imperialismo italiano subiva una serie di sconfitte e le potenze dell'Asse di cui faceva parte perdevano terreno a favore degli Alleati, il malcontento della classe operaia si esprimeva sempre più. Così, a febbraio, mentre la razione di grasso non era ancora stata distribuita alla fine del mese, i muri di tutti gli edifici ufficiali del comune di Arona, in provincia di Novara, furono coperti con lo slogan: "Vogliamo il grasso o la testa del podestà" (la denominazione del sindaco sotto il regime fascista).

A Torino il movimento di massa cominciò nella fabbrica Fiat di Mirafiori, con i suoi 21.000 operai, la più grande concentrazione di lavoratori della città. Fu proprio da una delle sue officine che iniziò lo sciopero il 5 marzo. Alcune decine di militanti comunisti erano attivi lì, nonostante la natura clandestina dell’organizzazione.

Lo sciopero si estese dapprima ad altre due fabbriche torinesi, la Rasetti e la Microtecnica. Poi, nel giro di pochi giorni, mentre cessava in alcune fabbriche, lo sciopero iniziava in altre e si estendeva a tutta la provincia, fino alla Valle d'Aosta. Dal 17 marzo in poi, l'agitazione interessò l'area milanese e gli stabilimenti Pirelli, Falck e Breda. Raggiunse poi le fabbriche emiliane, quindi il porto di Marghera in Veneto, per concludersi nelle fabbriche tessili, dove le lavoratrici si misero alla testa degli scioperi che chiusero un mese di mobilitazione l'8 aprile.

Nonostante gli arresti, i tentativi di intimidazione o, al contrario, di accordo, lo sciopero interessò 200 fabbriche e coinvolse quasi 200.000 lavoratori. Assunse varie forme, da uno sciopero di diversi giorni a ripetute interruzioni di linea da 10 minuti a un'ora, intervallate da scioperi a oltranza.

I lavoratori volevano mangiare a sazietà e poter sfamare le proprie famiglie. Il bonus concesso dal governo ai lavoratori sfollati, equivalente a 192 ore di lavoro, era stato richiesto per tutti, così come un bonus per il costo della vita. Un manifesto scritto da militanti comunisti torinesi e firmato "Il Comitato dei Lavoratori", il 15 marzo si esprimeva come segue:

"Lavoratori di Torino. Ci è bastato smettere di lavorare perché ci promettessero il pagamento delle 192 ore e del premio di sussistenza (...) Ora ce li devono pagare. Ne abbiamo abbastanza di promesse, inganni, miseria e guerra. [Vogliamo] il diritto di avere ed eleggere i nostri rappresentanti. Lavoratori, la ragione, la forza e i numeri sono dalla nostra parte. Evviva la pace e la libertà!”

Sotto il governo fascista le rivendicazioni economiche assumevano un'evidente dimensione politica. I rapporti dell'OVRA esprimevano le speranze sentite nelle fabbriche "che lo sciopero accelerasse la fine della guerra e del fascismo". Ma lo sciopero costrinse i padroni a concedere aumenti salariali e il governo fascista a promettere discussioni, a partire da aprile, sull'istituzione di un premio per il carovita. La repressione arrivò solo in seguito, con quasi 2.000 lavoratori arrestati e alcuni di loro portati davanti ai tribunali speciali.

Lungi dall'essere spezzata, la resistenza operaia si sarebbe espressa nuovamente nei mesi successivi. Il regime fascista sarà abbandonato dalla borghesia e dai suoi stessi dignitari, sotto la pressione delle forze alleate e dello sbarco anglo-americano in Sicilia del luglio 1943.

Per i militanti rivoluzionari dell'epoca, il significato di questi eventi era chiaro. In Francia, i compagni all'origine della corrente politica di Lutte ouvrière (Lotta operaia) scrissero nella loro rivista clandestina Lutte de classe, nell'agosto del 1943, un articolo intitolato "Gli operai italiani indicano la via". Vi si leggeva: "Attraverso l'informazione tronca (...) gli avvenimenti in Italia parlano un linguaggio abbastanza chiaro perché non si possa fraintenderne il significato. Sono le masse lavoratrici che, attraverso potenti scioperi nelle città industriali del Nord, in particolare a Milano, sostenuti da tutto il malcontento popolare, hanno fatto precipitare la caduta del fascismo”.

L'imperialismo temeva davvero che la fine della guerra vedesse l'irruzione delle masse lavoratrici sulla scena politica, come era avvenuto durante l'ondata rivoluzionaria del 1917-1920. A luglio, quando Mussolini fu dismesso dal Gran Consiglio del Fascismo, Churchill si preoccupò della possibilità di una guerra civile e di un "bolscevismo strisciante" tra la classe operaia italiana. Fu rassicurato dalla politica della direzione stalinista del Partito Comunista, che divenne il principale artefice di un Fronte Nazionale che metteva la classe operaia a rimorchio degli interessi della borghesia, premessa di una politica controrivoluzionaria che sarebbe stata perseguita in tutta Europa alla fine della guerra.

N. C.