A settant'anni dalla sconfitta militare dell'imperialismo italiano
Nella tarda primavera del 1943 l'imperialismo italiano si stava ormai avviando verso la catastrofe. All'inizio di quell'anno le divisioni italiane schierate sul fronte russo erano state annientate dall'Armata Rossa, proprio i giorni in cui cadeva Stalingrado. I soldati italiani scampati alla morte e alla prigionia si erano ridotti a un branco di sbandati che non erano più in grado di combattere.
Pochi mesi dopo, all'inizio di maggio, i resti dell'armata italo-tedesca che aveva combattuto in Nord Africa era costretta alla resa in Tunisia. Nel giro di pochi mesi le uniche armate italiane che combattevano in prima linea erano state messe fuori gioco. Per il regime fascista anche sul fronte interno le cose non andavano bene, bombardamenti sempre più massicci uccidevano migliaia di civili e fiaccavano il morale della popolazione, mentre nel mese di marzo centinaia di migliaia di operai delle grandi fabbriche del nord scioperavano contro il carovita e i turni di lavoro massacranti.
La crisi militare si rifletteva chiaramente anche sul sistema politico. Già nel mese di febbraio Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, era stato destituito come ministro degli esteri e mandato a fare l'ambasciatore in Vaticano: con lui erano rimossi dirigenti politici e capi militari. Nonostante questa sorta di epurazione la grave situazione di crisi in cui si trovava lo Stato italiano non cambiò per nulla.
Dopo la vittoria in Africa era sempre più chiaro che gli alleati avrebbero invaso l'Europa Meridionale, il confine più debole della "fortezza continentale" di Hitler. Il 10 luglio iniziò lo sbarco in Sicilia, ove solo le truppe tedesche e qualche reparto italiano opposero una seria resistenza, mentre il resto delle truppe italiane si arrese o si ritirò senza combattere. È in questo contesto che maturò la congiura di palazzo del 25 luglio, che vide la messa in minoranza di Mussolini all'interno dell'organo supremo del suo stesso partito e il suo susseguente arresto avvenuto per ordine del re.
Il nuovo governo, presieduto dal generale Badoglio, represse senza tentennamenti le manifestazioni che inneggiavano alla caduta del fascismo: in molti casi i soldati spararono sulla folla e ci furono morti e feriti: prese quindi contatto con gli anglo-americani per concordare un armistizio ed ottenere una pace separata. L'armistizio fu alla fine firmato a Cassibile, in Sicilia. Il governo italiano, incapace di gestire una situazione così delicata, cercò di prendere tempo implorando gli anglo-americani di non rendere noto che l'Italia aveva chiesto la pace. Per alcuni giorni il gioco andò avanti, poi la sera dell'8 settembre la radio alleata di Algeri rese noto il fatto: poco dopo anche un comunicato di Badoglio alla radio italiana annunciò al paese che l'Italia aveva chiesto un armistizio agli alleati.
Immediatamente scattarono le contromisure tedesche: il paese fu in breve occupato e controllato dalle truppe germaniche, i soldati italiani costretti ad arrendersi, quasi sempre senza colpo ferire, furono fatti prigionieri e inviati in Germania nei campi di concentramento. Il re, Badoglio e il suo governo, lasciando il paese a sé stesso, si misero in salvo a Brindisi sotto la protezione delle truppe alleate.
Nel giro di poche ore lo Stato italiano si era praticamente sfaldato. Non molto dopo Mussolini, liberato dai tedeschi, si mise a capo, nel centro-nord ancora saldamente in mano tedesca, della Repubblica Sociale Italiana, uno Stato in realtà controllato dall'esercito tedesco. Nel sud Italia, il governo Badoglio doveva fare i conti, anche per le più limitate decisioni, con gli alleati che stavano lentamente risalendo la penisola.
In tutti gli avvenimenti di questo anno cruciale, il ruolo del proletariato fu subordinato alle lotte fra gli imperialismi e fra le frazioni politiche della borghesia italiana, quella fascista e quella badogliana.
Certo come abbiamo ricordato già all'inizio di marzo c'erano stati importanti scioperi nelle grandi fabbriche del nord, ma questi di fatto rimasero limitati a richieste economiche e solo implicitamente veniva auspicato il crollo del regime e la fine della guerra.
Le settimane seguenti all'8 settembre videro la nascita del movimento della Resistenza, cui presero parte tutte le formazioni antifasciste, dai monarchici fino agli stalinisti del partito comunista: e fu proprio quest’ultimo partito ad avere uno dei ruoli centrali nella Resistenza.
Per i partiti riformisti, cioè il partito comunista stalinizzato e il partito socialista, l'obbiettivo della Resistenza era quello di liberare il paese dagli occupanti tedeschi, non certo quello di rovesciare il capitalismo. La lotta di classe veniva rimandata a data da destinarsi in nome dell'unità nazionale, e la guerra mondiale ridotta ad uno scontro fra "democrazie e dittature", nascondendo in questo modo il carattere imperialista della guerra. Per i partiti riformisti, i lavoratori dovevano sostenere i banchieri e gli industriali americani, l'impero inglese, la dittatura staliniana, contro il nazismo tedesco e il militarismo giapponese.
In un anno così di svolta non mancarono tentativi più o meno coscienti di portare avanti una politica di classe indipendente. Gruppi antistalinisti (spesso con idee confuse, a volte ingenue) cercarono di svolgere un loro ruolo, come pure i militanti provenienti dalla vecchia frazione di sinistra del Partito Comunista d'Italia che si rifacevano alle posizioni di Bordiga, e anche la CGL del sud Italia che rinasceva spontaneamente, senza il controllo degli stalinisti, e che fu l'unica fra queste formazioni ad avere un certo peso di massa. Comunque queste formazioni, piccole, divise, con posizioni diverse e spesso oscillanti, non potevano sostituire un partito rivoluzionario d'avanguardia che non esisteva.
Più che la guerra procedeva, più che lo stalinismo consolidava la sua egemonia sulla classe operaia inquadrandola nel nuovo "stato democratico" in formazione, più che venivano emarginati (con le buone o con le cattive) gli oppositori di sinistra al partito di Togliatti.
Indipendentemente dalle condizioni obbiettive che avrebbero reso realmente difficile per "trasformare la guerra imperialista in guerra di classe" (parafrasando Lenin), non esisteva tanto in Italia come nel resto d'Europa una formazione politica, degna di tale nome, che puntasse a questo obbiettivo. E questa fu una tragedia aggiuntiva alla grande tragedia della seconda guerra mondiale.
Il prezzo pagato dall’umanità per non aver superato la barbarie capitalista fu altissimo. Già alla fine anni '70 del secolo scorso, la "pace" raggiunta dagli imperialisti con la sconfitta di Germania e Giappone era costellata da centinai di conflitti locali, ricordiamo la guerra di Corea, le guerre fra India e Pakistan, le guerre arabo-israeliane, la guerra in Algeria, la guerra d’Indocina e poi quella del Vietnam, che avevano causato ben più morti di dell'intero secondo conflitto mondiale.
Mauro Faroldi