Il 2015 avrebbe dovuto essere, almeno nelle intenzioni del Governo, l’anno della ripresa, della crescita economica, dell’incremento dell’occupazione. In questo senso si sono mossi gli apparati di propaganda di fonte governativa, amplificati di norma dai media - giornali, televisioni – salvo rare eccezioni.
A prescindere dalla specifica situazione italiana, le premesse dovute all’economia globale teoricamente non avrebbero dovuto mancare, dati due fattori sulla carta favorevoli: il crollo del prezzo del petrolio e l’indebolimento dell’euro rispetto al dollaro. Del primo fattore abbiamo avuto esperienza diretta ogni volta che nell’ultimo anno abbiamo fatto il pieno di carburante. I prezzi sono decisamente diminuiti, nonostante il 70% di quanto paghiamo i carburanti se ne vada in accise, e ovviamente la stessa cosa è avvenuta anche per i consumi delle imprese, trasformandosi in abbattimento dei costi di produzione. Riguardo al secondo fattore, basti pensare che nel marzo dello scorso anno un euro valeva 1,39 dollari, oggi 1,06 dollari, rasentando quindi la parità: questo significa ovviamente che una qualsiasi merce esportata nei mercati che hanno come riferimento il dollaro oggi costa all’acquirente molto meno di un anno fa. Allo stesso modo, costa meno viaggiare nell’area Euro, fare acquisti, fare investimenti etc., il che dovrebbe favorire l’industria del turismo, le esportazioni, gli eventuali investimenti stranieri.
Nonostante queste condizioni favorevoli, la ripresa annunciata e strombazzata in mille occasioni si è rivelata decisamente inconsistente e di sicuro inferiore al previsto. A fine anno la crescita dell’economia prevista di un già scarso 0,9% si era già ridotta allo 0,6%, facendo ritenere che i già pallidi segnali di crescita si siano già esauriti.
La “ripresa” non arriva per tutti
Per quanto sia stata scarsa, la ripresa non arriva comunque per tutti. Infatti, sebbene sia leggermente aumentato il reddito disponibile, crescono allo stesso tempo, come avevamo già notato anche negli anni scorsi, le disuguaglianze nella distribuzione. Secondo i dati ISTAT, la percentuale di reddito del 20% della popolazione più ricca nei confronti del 20% della popolazione più povera aumenta dal 5,1% al 5,8%. Le situazioni di grave difficoltà economica non si attenuano: il 15% della popolazione maggiore di 16 anni non può sostituire gli abiti consumati, un quinto non può svolgere attività di svago, un terzo non può sostituire i mobili danneggiati. Secondo l’associazione industriale Unimpresa, oltre 9 milioni di italiani sono a rischio povertà, il che metterebbe ovviamente a rischio i consumi.
La concentrazione dei patrimoni in poche famiglie è confermata e risulta costante negli ultimi 20 anni, mentre il 30% delle famiglie più povere detiene solo l’1% della ricchezza complessiva.
Aumenta anche il numero di persone che vivono in famiglie “a bassa intensità lavorativa”, che cioè nel corso dell’anno precedente hanno lavorato per meno del 20% del loro potenziale. Diminuisce invece il numero di famiglie che dichiara di non arrivare a fine mese, ma bisogna distinguere tra il Nord e il Sud del Paese perché il divario è enorme: il 10,4% si dichiara in difficoltà al Nord, il 30,3% al Sud. A quanto pare, secondo l’Istat, le differenze tra Nord e Sud, che per alcuni anni si erano assottigliate, sono tornate a crescere. Anche per quanto riguarda l’occupazione questo dato è confermato, evidenziando differenze sempre notevoli tra Nord e Sud: per esempio, nei due trimestri centrali del 2015 l’occupazione è aumentata al Nord e al Centro, ma è diminuita al Sud.
La disoccupazione a un anno dal Jobs act
Per quanto riguarda occupazione e disoccupazione, comunque, il dato più evidente dell’ultimo anno è stato il continuo balletto di cifre, che ha opposto dati trionfalistici (spesso puramente inventati) a cifre molto più modestamente realistiche. Su questo dato della disoccupazione ha influito infatti la necessità di veicolare il messaggio propagandistico sull’effetto salvifico della distruzione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori sul mercato del lavoro. Tutto il provvedimento cosiddetto “Jobs Act” costituisce uno degli attacchi più violenti sferrati alla classe operaia nel nostro Paese, dopo le leggi che nei primi anni ’90 hanno eliminato la scala mobile, introdotto il precariato e il lavoro interinale, e dopo i ripetuti assalti al sistema pensionistico, culminati nella cosiddetta legge Fornero, che ha soppresso le pensioni di anzianità.
Ma per dimostrare l’indimostrabile, cioè che il Jobs Act sarebbe stato il responsabile della creazione di una miriade di nuovi posti di lavoro a tempo – si fa per dire – “indeterminato”, si è passati con disinvoltura dal raddoppiare il numero dei contratti effettivamente avvenuti al manipolare comunque in vario modo i dati statistici. Quindi, per fare chiarezza, i dati ISTAT di fine anno riferiscono che, rispetto al 2014, il tasso di occupazione è cresciuto soprattutto tra i 50-64enni -presumibilmente per effetto dei mancati pensionamenti - mentre il tasso di disoccupazione medio è diminuito dal 12,7% all’11,9%. Il tasso di inattività è sceso, e i posti pseudo “fissi” aggiuntivi sarebbero 135.000.
Il Governo naturalmente attribuisce questo risultato agli effetti del Jobs Act. In realtà, a un anno dall’approvazione della legge, il Bilancio per i lavoratori è soltanto in negativo. Le conseguenze della Legge ormai le conosciamo bene, ma si possono riassumere sinteticamente: praticamente nessuna riduzione dei contratti precari, da 46 passano a 45, eliminando solo le collaborazioni coordinate e continuative; cancellazione sostanziale dell’art. 18 per tutti in nuovi assunti a partire dall’approvazione dei decreti attuativi il 7 marzo 2015, con possibilità di licenziamento, senza giusta causa e per motivi economici, con un semplice risarcimento pari a 2 mensilità per ogni anno lavorato; la possibilità di demansionamento, cioè di spostamento di un lavoratore ad altre mansioni, anche inferiori; il controllo a distanza del lavoratore anche tramite telecamere o altre tecnologie, prevedendone l’uso a fini disciplinari; l’abolizione della cassa integrazione nel caso di chiusura dell’azienda, e la sostanziale riduzione della durata degli ammortizzatori sociali.
Quanto agli ipotetici posti di lavoro in più, se nel corso dell’anno le voci che avevano preso posizione per contestare i dati del Governo provenivano da fonti per lo più critiche nei confronti del Governo stesso – per esempio la ricercatrice Marta Fana dell’Istituto di Scienze politiche ed economiche di Parigi - a metà febbraio è intervenuto anche uno studio di Bankitalia per affermare quello che era già più che evidente, bastava soltanto fare un po’ di conti. Bankitalia li ha fatti e ne ha semplicemente dedotto che – se di ripresa dell’occupazione si può parlare – questa dipende dagli incentivi alle imprese e non dal Jobs Act. L’effetto positivo di quest’ultimo avrebbe contribuito a creare non più dell’1% dei nuovi posti di lavoro. Sempre secondo lo stesso studio, il combinato disposto delle due misure – Jobs Act e incentivi – avrebbe contribuito a creare 45.000 nuovi posti di lavoro.
Per finire, fin da febbraio 2016, con l’allentamento degli incentivi, il numero dei nuovi contratti a tempo virtualmente indeterminato ha subito un drastico crollo del 70%.
Regali alle imprese
Infatti, mentre con una mano approvava una riforma strutturale come il Jobs Act, che taglia di fatto in maniera stabile una serie di diritti conquistati con le lotte dei lavoratori negli anni sessanta – settanta, con l’altra mano il Governo stabiliva per il 2015 un piano di incentivi fiscali che permettono alle imprese di non pagare, fino a una certa soglia, i contributi dei neoassunti per tre anni. Altri incentivi sono previsti per l’anno in corso, anche se abbattuti fino al 40% e per la durata di due anni. Doppio regalo alle imprese, quindi: sia normativo, che economico, e infine con risultati decisamente scarsi. Se ai lavoratori viene richiesto un aumento di produttività per gli aumenti di salario, non è richiesta pari prestazione alle imprese: gli incentivi sono stati concessi generosamente “a pioggia”, e si sono estesi anche alla sanatoria per tutti gli “illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all’erronea qualificazione del rapporto di lavoro” (art. 54 D.lgs. 81/2015). Per il 2015 gli sgravi fiscali alle imprese sono costati all’Erario circa 2 miliardi di euro, ma gli effetti perdureranno per altri due anni; e gli sgravi del 2016 perdureranno fino al 2018. Alla fine il conto ammonterà a diversi miliardi di euro, e chissà quanto sarà costato un singolo posto di lavoro cosiddetto a tempo indeterminato, che a tempo indeterminato non sarà più.
L’esplosione dei Voucher
Che il lavoro stabile non sia la modalità centrale del lavoro nel nostro Paese lo testimonia un fenomeno sempre più evidente, che dimostra da un lato il processo inverso a quello maggiormente propagandato (la trasformazione di posti di lavoro a tempo determinato in posti a tempo indeterminato), dall’altra il paradosso dell’agevolazione del lavoro nero da parte di uno strumento che teoricamente dovrebbe contrastarlo, cioè l’uso dei voucher. Originariamente pensati per lavori occasionali o saltuari in ambiti particolari (come l’agricoltura o la collaborazione domestica), il loro uso si è esteso praticamente a tutti gli ambiti lavorativi e ha registrato un boom fuori da ogni controllo: nel 2015 sono stati emessi 115 milioni di tagliandi. Chi aveva un contratto di lavoro a tempo determinato, con relative tutele in caso di malattia, contributi e assegno di disoccupazione, si vede consegnare qualche voucher; chi sperava di ovviare a un lavoro al nero, riceve magari un paio di voucher per una giornata di lavoro a tempo pieno. Un voucher evita problemi in caso di controlli, si può dare o non dare, nessuno controllerà. E’ un mezzo di sfruttamento elastico e molto versatile: come dice il presidente dell’INPS Boeri, “la nuova frontiera del precariato”.
Giovani Neet primi in Europa
Gli stessi giovani che hanno sperimentato infinite forme di precariato sono anche gli stessi che finiscono o non concludono gli studi e poi non trovano lavoro. Sono i cosiddetti NEET, giovani che non lavorano e non studiano, e sono tantissimi. Secondo uno studio dell’Università Cattolica di Milano, sono 2,4 milioni, sono enormemente aumentati dai già tanti 1,8 milioni del 2008, e sono il numero più alto in Europa. Anche per questo circa il 66% dei giovani adulti vive ancora a casa con i genitori, il 20% in più della media UE.
D’altra parte, anche chi tra i giovani lavora è svantaggiato. La condizione di basso reddito cresce al diminuire dell’età: l’incidenza tra gli individui tra 19 e 34 anni è più del doppio di quella nella fascia di età dei più anziani, rispettivamente abbiamo il 28% a fronte dell’11% (Dati Confcommercio). I giovani non sono mai stati così poveri, e lo sono anche più dei pensionati. A meno di 30 anni, i giovani italiani detengono il record dei meno pagati del mondo occidentale, secondo dati pubblicati dal quotidiano inglese “The Guardian”.
Una città scomparsa
Il 2015 segna anche un altro dato molto interessante, che probabilmente avrà delle spiegazioni più compiute e potrebbe rivelare delle tendenze soltanto nei prossimi anni, ed è il dato che riguarda un vero e proprio collasso demografico nel 2015 nel nostro Paese. Secondo uno studio dell’Università Bicocca di Milano, il saldo demografico del 2015 ammonta a meno 150.00 individui, un po’ come se fosse scomparsa una intera città come Livorno dalla popolazione italiana. Ma non è dovuto solo al calo delle nascite, in atto già da anni e che nel 2015 ha fatto registrare il record negativo della peggior natalità dal 1861, anno dell’Unità d’Italia.
Anche i decessi hanno subito un’impressionante impennata, tale da realizzare un altro record: quello della più alta crescita del numero di morti in un anno senza eventi bellici. Nei primi otto mesi del 2015 il totale dei decessi in Italia è aumentato di 45.000 unità rispetto al 2014, pari all’11,35 in più. Per trovare simili livelli di incremento della mortalità si deve risalire al 1943, anno di guerra, e all’intervallo 1915-1918, altrettanti anni di guerra.
Sicuramente non vanno in controtendenza i tagli allo stato sociale e alla sanità, fino agli ultimi provvedimenti contenuti nel decreto 9.12.15 sulle condizioni di assistenza erogabili nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale. In pratica si limitano le prescrizioni di controlli diagnostici e di medicinali che non abbiano una motivazione precisa, cioè non siano specifici per una determinata patologia. Di fatto si abolisce la prevenzione, e si pone a carico del medico curante la prescrizione che esuli da limiti precostituiti.
Renzi diceva di voler “cambiare verso” alla politica e alla società italiana. In realtà il verso è sempre lo stesso, solo che lo stiamo percorrendo molto più velocemente.
Aemme