2014: sotto il peso della disoccupazione

La recessione in Italia si conferma un evento tutt’altro che passeggero: in barba alle intenzioni e ai continui annunci di imminente “uscita dal tunnel”, il tunnel non sembra farsene una ragione. Anche nel 2014 l’Italia segna una recessione media dello 0,4%, in parziale rallentamento nell’ultimo quadrimestre dell’anno, quando si è registrato un sostanziale stallo. E’ il quattordicesimo trimestre consecutivo di mancata crescita, nonostante gli economisti della Commissione UE prevedano un debole rialzo dello 0,6% del PIL italiano nel 2015; ipotesi peraltro poco influenti sulla realtà, dal momento che più di una volta le previsioni, anche parzialmente ottimistiche, sono state puntualmente smentite dai fatti. Il rapporto deficit/PIL dell’Italia si è attestato al 3%, e anche qui sarebbe previsto in discesa al 2,6% nel 2015, e al 2% nel 2016. Comunque, che il PIL salga o no, che i conti pubblici migliorino o no, ben difficilmente un risultato positivo avrebbe la possibilità di riflettersi positivamente sulla condizione operaia: anzi gli eventuali risultati positivi saranno raggiunti a scapito delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia

DISOCCUPATI IL 43% DEI GIOVANI

Intanto la disoccupazione è ancora in aumento, e ha raggiunto nell’ottobre scorso il massimo storico registrato dalle serie Istat, censite a partire dal 1977. I senza lavoro sono arrivati al 13% - 3.410.000 - in aumento di un punto percentuale rispetto al 2013. Una lieve flessione dello 0,3% a quanto pare si è registrata a fine 2014, subito accolta dai media con giubilo decisamente eccessivo. Particolarmente disastrosa la situazione nei giovani, dato che la disoccupazione tra i 15 e i 24 anni ha superato nell’ottobre scorso il 43%. Il dato è drammatico, perché significa che concretamente 3.410.000 persone sopravvivono, da sole o con la famiglia, in condizioni di precarietà, spesso utilizzando i risparmi familiari o la pensione dei genitori, quando non si trovano nell’indigenza assoluta. Lo è ancora di più se prendiamo per buone le rilevazioni precedenti al 1977, e le fonti ancora precedenti sulla disoccupazione in Italia, comprese le rilevazioni nei censimenti dall’Unità a oggi, che analizza il quotidiano La Stampa il 30.11.14: in base a queste, la disoccupazione in Italia non sarebbe mai stata così alta, nemmeno nel dopoguerra, nemmeno durante il fascismo, nemmeno dopo la crisi del ’29. Se ai numeri della disoccupazione si aggiungono poi quelli degli italiani che non cercano nemmeno lavoro, quelli giornalisticamente definiti “gli scoraggiati”, si parla di altre 3.600.000 persone che non lavorano, né hanno fiducia nella possibilità di trovarlo, né sono occupate in attività di studio o di formazione, una cifra che è circa il triplo della media nell’Unione Europea. Esistono anche notevoli divari tra Nord e Sud, dove il Sud è senz’altro svantaggiato, ma il dato resta comunque abbastanza omogeneo. Si allungano anche i periodi di disoccupazione e aumenta la quota dei disoccupati da oltre un anno, che passano dal 56,9 al 62,3%. Non a caso in Italia due giovani su tre, tra i 18 e i 35 anni, continuano a vivere con la famiglia di origine.

UN QUARTO DEGLI OCCUPATI HA UN REDDITO SOTTO I DIECIMILA EURO

Sono 9 milioni e mezzo – secondo la Cgil - i lavoratori in difficoltà per la mancanza o la precarietà del lavoro, ma chi lavora non se la cava molto meglio. A parte la differenza di reddito tra il Nord e il Sud Italia, il 25% dei redditi da lavoro dipendente rimane sotto i 10.000 euro l’anno, mentre meno di 3 su 100 superano i 70.000 e oltre la metà si colloca tra i 10.000 e i 30.000 euro l’anno. Il lavoratore percepisce come retribuzione netta poco più della metà dello stipendio, il resto va in tasse e contributi, il che – rispetto agli altri Paesi della zona euro – colloca l’Italia agli ultimi posti come consistenza del salario, e nel complesso la media italiana di 1.560 netti euro al mese è al nono posto su quindici Paesi in area euro. Anche la media è la classica media del pollo, ci sono differenze abissali tra lo stipendio di un manager e quello di un operaio o anche di un dirigente: un manager arriva a guadagnare più di undici volte la paga di un operaio, un dirigente oltre quattro volte. Anche in fatto di retribuzioni medie, il 2014 segna un minimo storico negli incrementi a partire dal 1982, anno in cui l’ISTAT ha iniziato a registrare questa serie. L’incremento nel settore privato è stato dell’1,3%, nel settore pubblico – come ormai da anni - è stato nullo. Questi sono i dati ufficiali; resta da calcolare a quanto ammonterebbero realmente i salari tenendo conto del lavoro nero, del lavoro parzialmente assicurato, delle ore lavorate e non pagate. E non è una consolazione per i lavoratori il fatto che l’aumento dei prezzi sia sostanzialmente stabile, a gennaio 2015 addirittura in deflazione; in realtà i prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona, hanno subito un aumento, anche se piuttosto contenuto. L’unico segno meno consistente per le tasche dei lavoratori è costituito dai costi di trasporto, dato il calo dei prezzi dei carburanti. La sostanza però non cambia: l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità incide in massima parte sul reddito dei lavoratori dipendenti.

ASSUNZIONI PRECARIE PER TUTTI

A partire dal 1 marzo 2015, l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori è definitivamente estinto. La resistenza opposta a suo tempo con la manifestazione del 2002 in sua difesa avrebbe potuto diventare un’occasione per il rilancio delle lotte, in pratica è stata soltanto il punto più alto. Ci voleva un Governo con a capo il partito discendente dal sedicente partito dei lavoratori, l’ex PCI, per realizzare la riforma più aggressiva dopo l’abolizione della scala mobile e la riforma delle pensioni targata Fornero del Governo tecnico di Monti. Confindustria ne ha dettato i termini e ha plaudito alla sua realizzazione, insieme ai vari organismi europei e ai rappresentanti delle Banche e del potere finanziario.

UNA LEGISLAZIONE SUL LAVORO A ...”TUTELE CALANTI”

La parabola discendente che ha accompagnato la legislazione sul lavoro dal 1992 è impressionante, e scandalosa la propaganda che ha accompagnato tutti i provvedimenti. A quanto pare, nella società odierna tutto può essere accettabile, tranne un livello di vita decoroso per la classe che con il suo lavoro rende possibile la sopravvivenza della società stessa. Quando l’accordo tra Sindacati e l’allora primo ministro Amato portò all’abolizione della scala mobile, che adeguava (anche se in modo parziale e imperfetto) i salari all’aumento del costo della vita, si accusava questo meccanismo di provocare l’inflazione; anche grazie alla sua abolizione, gran parte della porzione di ricchezza prodotta, che andava ai salari, si è trasferita progressivamente ai profitti e alle rendite. In occasione delle innumerevoli riforme del sistema pensionistico che si sono susseguite a partire dal 1995, per finire con l’ultima del Governo Monti, si è affermato invariabilmente che il sistema pubblico era insostenibile. Il risultato – peraltro non definitivo, perché suscettibile di adeguamenti periodici all’aspettativa di vita e all’andamento generale dell’economia – prevede fin da oggi che i giovani attualmente tra i 18 e i 34 anni, con un reddito mensile intorno ai 1000 euro e con forti buchi retributivi, quindi con meno di 40 anni di contributi, una volta in pensione si ritroveranno un reddito di 408 euro netti al mese, quasi cento in meno del minimo attuale (Corriere della Sera, 9.2.15). E non sarà prevista – come oggi – l’integrazione per raggiungere il minimo. L’unica soluzione, sentenzia Il Fatto Quotidiano del 13 febbraio scorso, “è lavorare fino ad età avanzata, fino allo sfinimento”.

SENZA LAVORO A TRENT’ANNI, SENZA PENSIONE A SETTANTA

Sempre che sia possibile lavorare in età avanzata, naturalmente. Il Corriere della Sera, nel suo supplemento Economia del 9 febbraio, spiega che il caso di lavoratori con redditi limitati e una forte discontinuità nel versamento dei contributi “è un fenomeno destinato a crescere, anche a causa della maggior flessibilità nel mercato del lavoro che sarà prodotta dal Job Act varato dal Governo”. Il contratto “a tutele crescenti”, un termine che è un autentico stravolgimento della realtà, consente al padronato di liberarsi a piacere dei dipendenti sia individualmente che collettivamente, con qualsiasi pretesto e con una modica cifra…con queste premesse, è difficile immaginare una vita lavorativa in età avanzata, potendo disporre le imprese di tutti gli strumenti atti a licenziare lavoratori ultra-sessantenni ormai spremuti a sufficienza, per rimpiazzarli con forza lavoro più giovane ed efficiente. Tra le conseguenze della riforma del mercato del lavoro c’è quindi anche questa pesantissima ipoteca sul futuro.

RENDITE DI POSIZIONE?

Per tali promettenti successi esulta il premier Matteo Renzi, con l’ignobile “tweet” del 20 febbraio: “Oggi è il giorno atteso da anni. Il Job Act rottama i cococo cocopro vari e scrosta le rendite di posizione dei soliti noti”. E’ un giorno che di sicuro i padroni si auguravano da tempo, quanto alle rendite di posizione evidentemente per Renzi i diritti dei lavoratori prima del suo intervento non erano che inaccettabili rendite di posizione da “scrostare”, a differenza delle rendite vere e proprie, quelle tutte mantenute e (ovviamente) da mantenere. Quanto ai “soliti noti”, la definizione fa parte dell’ormai trito armamentario ideologico che va per la maggiore, secondo il quale la vecchia generazione degli “ipertutelati” sarebbe titolare di privilegi indebiti a scapito delle nuove generazioni. Renzi sorvola sul fatto che, dopo avere “scrostato” quel che rimaneva dell’art. 18, le nuove generazioni non otterranno per questo di più, ma anzi molto meno.

UN POTENZIALE DI LOTTA INUTILIZZATO

La reazione della classe operaia è rimasta molto debole. Una grande responsabilità per questo disastroso risultato è a carico delle organizzazioni storiche del sindacato, in particolare della Cgil. Contro il Job Act tutto si è esaurito nella manifestazione del 25 ottobre, con minaccia di sciopero generale, e finalmente nello sciopero generale stesso, lungamente ponderato e infine realizzato il 12 dicembre. La disponibilità alla lotta, tutto sommato non scontata ma espressa con evidenza dai lavoratori in entrambe le occasioni, non ha suggerito al sindacato nient’altro che un vuoto totale di iniziativa, mollando di fatto qualsiasi lotta successiva. Analogamente alla grande manifestazione del marzo 2002, anche lo sciopero di dicembre non ha rappresentato l’inizio, ma la fine della mobilitazione, e gli effetti si sono visti.

In compenso, la Cgil si è occupata di organizzare qualche inutile seminario per spiegare come i lavoratori siano stati truffati ancora una volta. E’ l’ultima frontiera del sindacato: ricorrere ai giuristi per tappare le falle che non riesce ad arginare. Senza molto successo, in realtà… i giuristi non possono fare altro che confermare ciò che già sapevamo: che la legge è “scritta apposta per i datori di lavoro” (Seminario di studio Cgil a Perugia, Rassegna.it 12.2.15), che nel caso di licenziamento disciplinare “l’onere della prova della violazione che è causa del licenziamento sembrerebbe spostato dal datore di lavoro al lavoratore, che dovrebbe dimostrarne direttamente in giudizio l’insussistenza”, che è impossibile per il giudice “valutare la proporzionalità della sanzione rispetto alla violazione contestata, con evidente lesione del principio costituzionale di ragionevolezza”, e che – come ha ribadito pragmatica una esponente della segreteria Cgil, Serena Sorrentino - “il diritto del lavoro non è più indirizzato a sostegno del soggetto più debole, ma al servizio di quello più forte […] Le associazioni datoriali oggi siedono al tavolo della contrattazione sventolando il testo del Jobs act, e dicendoci che con quello hanno già ottenuto tutto ciò di cui avevano bisogno”.

Con questo tipo di rapporti di forza, e senza essere stati capaci di organizzare una difesa, il direttivo nazionale Cgil riunito, compreso il segretario Fiom Landini, ha votato un inconsistente documento comune, dove si vaneggia la consultazione dei lavoratori per chiedere loro se vogliono il referendum abrogativo del Job act. E, dopo essersi fatti scippare sotto il naso lo Statuto dei Lavoratori del 1970 insieme alle sue garanzie, l’ultima proposta della segretaria Camusso consiste nell’ennesima raccolta di firme per un nuovo Statuto dei lavoratori…dato che non siamo stati capaci di difendere quello vecchio.