Aperto il percorso verso il 18° Congresso Cgil, in programma a gennaio 2019. Si parte non con un documento vero e proprio, ma con una “traccia” di discussione, che nella testa dei dirigenti Cgil dovrebbe essere discussa e implementata dalle “Assemblee generali”, struttura varata nell’ultima Conferenza di Organizzazione, e composta al 50% più uno dei componenti da delegati dei luoghi di lavoro
L’intenzione dichiarata dei vertici Cgil, tuttora il sindacato con più iscritti nel nostro Paese, sarebbe quella di portare all’approvazione del Congresso un documento meno ponderoso del solito, in modo da evitare nelle assemblee la presentazione della solita sintesi, riassunta nella speranza che qualcuno si rassegni a leggere almeno quella. In effetti raramente la lettura dei documenti congressuali è stata intrapresa dagli iscritti con interesse ed entusiasmo, soprattutto da quando i documenti stessi si sono trasformati in lunghi e ampollosi giri di parole indigesti e autoreferenziali, dove abbondano i periodi preceduti dal termine “occorre”, senza che si arrivi mai a definire concretamente con quali strumenti si intenda realizzare quello che occorre. Da ciò il tentativo di un documento più smilzo e più leggibile.
Disgraziatamente però nemmeno la “traccia” di quest’anno sembra destinata a un destino più favorevole, e non è tanto per la lunghezza del documento, per quanto quattordici pagine non siano pochissime: il problema sono i contenuti.
Nelle intenzioni della Cgil ci sarebbero infatti – citiamo a caso in ordine sparso – il “rafforzamento della legittimità democratica delle istituzioni europee”; la “riforma delle istituzioni economiche, a partire dalla Banca Centrale europea”; “un quadro comune dei diritti del lavoro (Carta europea dei diritti”; “il lavoro indeterminato quale forma comune di rapporto di lavoro”; “estensione delle tutele alle lavoratrici e lavoratori autonomi e para subordinati”; “reddito di garanzia e continuità”;”accesso alla pensione a partire da 62 anni, limite massimo di 41 anni”; “finanziamento al Fondo sanitario nazionale” per “ ripristinare la garanzia del diritto universale alla salute”; “cura del territorio”, “responsabilità sociale delle imprese”; “riduzione generalizzata degli orari e del tempo di lavoro” (ma il salario?); “prevenzione efficace partecipata e diffusa” degli infortuni; “la difesa e valorizzazione del CCNL”; e per finire un “progetto generale di trasformazione della società e di restituire dignità e libertà al lavoro”.
Qualunque lavoratore, che si ritrovi ogni giorno a sperimentare le dure realtà dei posti di lavoro e della società che lo circonda, farebbe fatica a estrarre, dal cumulo di frasi ridondanti e per lo più vuote di sostanza, qualcosa che gli serva concretamente nelle lotte e nelle difficoltà quotidiane; o peggio, sempre ammesso che riesca ad arrivare in fondo alla lettura, correrebbe il rischio di illudersi che a parole si riesca a contenere la gigantesca frana della sua condizione. Comunque è probabile che si chiederebbe in quale mondo viva questa Cgil, posto che la maggior parte dei traguardi che si prefigge sono esattamente quelli che è riuscita a perdere negli anni precedenti, e su altri (la Riforma della Banca Centrale europea!) non ha la minima possibilità di influire; soprattutto, per tanti lodevoli obiettivi non indica né la strada né i mezzi per ottenerli, il che sembrerebbe fondamentale.
Esiste una riflessione critica sulle scelte fatte, per esempio le tre ore di sciopero senza manifestazioni contro la Riforma Fornero, o l’unico sciopero in ritardo contro il Jobs Act, quando ormai i giochi erano fatti? In tutto il documento non se ne trova traccia. Come intenderebbe quindi la Cgil “riportare il lavoro indeterminato quale forma comune di rapporto di lavoro”, visto che non è stata in grado di conservarlo? O impedire il progressivo aumento dell’età pensionabile, visto che quest’ultimo dispositivo è stato introdotto con un accordo in cui la Cgil era coinvolta? Come pensa di ottenere una “maggiore responsabilità del sistema delle imprese”, quando chiusure e licenziamenti in imprese che fanno utili sono all’ordine del giorno? E come ritiene di imporre questa grande azione di “prevenzione efficace partecipata e diffusa” per ridurre gli infortuni in aumento, dato che ormai le aziende non si fanno nemmeno più scrupolo di licenziare i delegati dei lavoratori per la sicurezza, che osino denunciare le condizioni di sicurezza non rispettate? E in che cosa consisterebbe questo misterioso “progetto generale di trasformazione della società e di restituire dignità e libertà al lavoro”? Ma gli organismi Cgil sanno di cosa parlano?
Un commento della minoranza di opposizione in Cgil “Il Sindacato è un’altra cosa” osserva che nella traccia “non compare mai, nemmeno una volta, la parola sciopero”: come del resto non ci sono nemmeno le parole lotta, rivendicazioni, o quanto altro si rifà al conflitto sociale. Che esiste già, c’è già, si voglia o no: solo che l’attacco avviene da una parte sola, e usando i toni, le parole e le strategie (o meglio l’assenza di strategie) della Cgil si consegna semplicemente già sconfitto lo sfruttato di fronte allo sfruttatore.
Si sente spesso lamentare scarsa adesione agli scioperi. In conseguenza di ciò, i funzionari sindacali tendono a motivare la loro mancata proclamazione con lo scarso seguito che lo sciopero avrebbe tra i lavoratori. Certo, presentandosi così ai propri iscritti e in generale a tutto il mondo del lavoro, come può sperare un sindacato di essere credibile quando imposta delle azioni concrete? E che strumenti ha un lavoratore per riconoscere il peso della propria forza, se non l’ha mai sperimentata, o magari l’ha sprecata in uno di quegli scioperi rarefatti, a intervalli di anni, la cui inconcludenza abbiamo – purtroppo – sperimentato?