Uno dei primi provvedimenti presi dal potere dei Soviet, nella Russia rivoluzionaria del 1917 fu la pubblicazione dei trattati segreti che aveva firmato il regime dello zar Nicola. Tutto il mondo poté vedere quanto poco morali e patriottiche erano le ragioni della guerra mondiale in corso. Tra i trattati resi pubblici c’era anche il Patto di Londra, firmato il 26 aprile 1915, tra il governo italiano, ancora formalmente alleato della Germania e dell’Austria, e la Triplice intesa (Francia, Inghilterra e Russia). I termini del patto erano la garanzia italiana dell’intervento, entro un mese, contro gli Imperi centrali (cioè i suoi ex alleati Austria e Germania) e la concessione all’Italia, oltre che del Trentino Alto Adige, di una buona fetta di territori sloveni , croati, montenegrini e albanesi affacciati sull’Adriatico per garantire il predominio italiano su quel mare. La favoletta della guerra come conclusione del Risorgimento veniva completamente smascherata. Ed era stato un governo proletario a buttare giù la maschera all’imperialismo italiano.
Tra il 1908 e il 1913 le potenze europee aumentano le spese militari del 50%. Tutti i governi sostengono di riarmarsi per “difendere la pace”.
Nel marzo 1914, in Italia, sale alla presidenza del consiglio Antonio Salandra. Quando, l’estate dello stesso anno, le potenze dell’Intesa entrano in guerra “per difendere la Serbia” dall’Austria, il governo italiano decide la neutralità. Il Parlamento è quasi totalmente con Salandra in questa decisione. Nell’immediato, la sola corrente favorevole alla guerra è quella dei nazionalisti, che a quel momento vorrebbe però che il regno d’Italia intervenisse a fianco della Triplice alleanza.
Col passare dei giorni, però, cresce in sempre più vasti settori della borghesia, la convinzione che la parte destinata a vincere è quella della Triplice intesa. Così, il governo impone a uno stupefatto Cadorna, capo di stato maggiore generale, di cambiare i piani di guerra e, a partire dal 9 agosto, batterie da montagna e reparti alpini si trasferiscono verso i confini orientali, “dopo che era stato dato il contrordine all’ammassamento delle truppe ai confini con la Francia” (John Whittam, “Storia dell’esercito italiano”).
Mutamento di clima
Tra il 5 e il 12 settembre 1914 i tedeschi subiscono una prima grande sconfitta nella battaglia della Marna. L’idea tedesca di una guerra-lampo con la quale conquistare d’impeto Parigi, si scontra con la realtà delle difficoltà logistiche, della mancanza di coordinamento, delle gelosie tra generali, ecc. sul terreno rimangono circa 200mila morti. I tedeschi si ritirano e da quel momento la guerra diventa guerra di posizione. La propaganda dell’Intesa esagera il significato di questa prima sconfitta della Germania e in Italia c’è chi le presta orecchio, convinto che la potenza militare teutonica abbia ricevuto un colpo decisivo.
Negli ambienti governativi si consolida quindi la convinzione che se si deve di entrare in guerra è meglio farlo dalla parte dell’Intesa. Ma ancora i gruppi dirigenti dei vecchi partiti parlamentari restavano su posizioni neutraliste. A questi si aggiungevano sia i socialisti che i cattolici.
Si rendeva necessario forzare le tappe nell’opinione pubblica e nella sfera politica. Così cominciarono a far sentire la propria voce quelli che furono chiamati gli interventisti.
I primi interventisti venivano dalle file della sinistra. Come ha scritto Carlo Morandi nel 1945, nel suo breve saggio sulla storia dei partiti politici italiani: “I primi a muoversi per l’intervento furono i repubblicani, i democratici, i radicali, cioè i custodi della tradizione mazziniana e garibaldina del Risorgimento”. Poi, sempre dalla sinistra, si aggiunsero i socialisti riformisti come Bissolati e Bonomi e l’ex sindacalista rivoluzionario Filippo Corridoni. Prosegue Morandi: “Il primo interventismo fu dunque di sinistra: erano i figli spirituali dell’antico partito d’azione del Risorgimento che spronavano la Destra ancora paga d’una cauta e vigile condotta neutrale. Un ideale, espresso in nobile forma da Bissolati, illuminava questo interventismo e ne costituiva l’intima ragione: un’esigenza di solidarietà tra i popoli ancora oppressi, di lotta comune contro il militarismo e l’autoritarismo degli imperi centrali. La guerra si configurava un po’ come una crociata romantica, come l’ultima fase di liberazione delle nazionalità”. In parole più crude ma anche più realiste, mentre il governo e la borghesia dell’alta finanza e dell’industria pesante stavano calcolando come e quanto si poteva guadagnare con la guerra, gli intellettuali “democratici”, intossicati dalla loro stessa retorica, provvedevano a fornire tutti gli orpelli ideologici necessari a mascherare, agli occhi dell’opinione pubblica, il contenuto imperialista della guerra stessa.
Mussolini, traditore e transfuga del movimento socialista, fu un caso, per certi versi, diverso. Il futuro “Duce” mise al servizio del fronte interventista la sua lunga esperienza e la sua conoscenza degli ambienti del movimento operaio organizzato con l’idea di servirsene per ingraziarsi i favori dei vertici militari e assicurarsi un ruolo politico appena finita la guerra. Gli aspetti ideali, i princìpi, che per il resto degli interventisti di sinistra erano determinanti, per Mussolini erano uno strumento che si poteva adattare o cambiare del tutto a seconda delle circostanze.
Verso le giornate di maggio
Il calcolo di Salandra è quello di condurre una “piccola guerra”, contando sul fatto che le potenze dell’Intesa avrebbero prima assestato una serie di colpi decisivi agli Imperi centrali. Il ragionamento del governo italiano è così sintetizzato dal suo ministro degli Esteri in una lettera a Salandra: “L’Italia non doveva rompere con l’Austria e con la Germania se non era più che certa della vittoria. Questa è un’opinione poco eroica ma certamente saggia e patriottica”.
Nei mesi precedenti l’entrata in guerra, la scena politica è occupata dalle manifestazioni, dalle gazzarre, dalle violenze del fronte interventista, che nel mese di maggio raggiungono l’apice. In seguito si parlerà delle “radiose giornate di maggio”.
Una specie di prolungata rappresentazione teatrale a cielo aperto, animata da studenti universitari, intellettuali, rappresentanti della piccola borghesia, che anticipano nelle loro gesta e nelle loro parole il fascismo della prima ora. Tra i demagoghi che agitano queste folle si distingue Gabriele D’Annunzio che esorta, con la sua retorica fiammeggiante, a incendiare, colpire, impiccare. I nemici additati dal “Vate” sono prima di tutto i neutralisti, come Giolitti, e poi chiunque, a torto o a ragione, possa essere considerato vicino ai tedeschi. Questa specie di clima “rivoluzionario” è foraggiato dai gruppi dell’industria pesante e ampiamente tollerato dal governo Salandra e dal re. Ivanoe Bonomi, socialista riformista, ha scritto: “L’Italia entrò in guerra il 24 maggio 1915, quasi dieci mesi dopo l’inizio della grande conflagrazione. Vi entrò fra l’entusiasmo delle sue classi colte e dei suoi ceti medi...gli umili ceti rurali, per difetto di cultura repugnanti ad ogni guerra, vennero trascinati dall’accesa propaganda degli intellettuali”.
Tutta la lunga sceneggiata delle manifestazioni “di massa” a favore dell’intervento sarà poi utilizzata per raccontare la storia di una politica sonnacchiosa e imbelle, arroccata in parlamento, che fu scossa dalla “rivolta” patriottica della gioventù interventista e nazionalista, storia fatta poi propria dalla monarchia. Ma la massa del proletariato, di città e di campagna, era, per usare il vocabolario di Bonomi, “repugnante” alla guerra. Infatti, anche se è una storia che si racconta poco, i giovanotti borghesi del movimento interventista trovarono spesso sul loro cammino dei cortei di operai socialisti e anarchici. In un caso, a Torino, il 19 maggio, giornata nazionale di mobilitazione antibellicista, proclamata dal Partito socialista, ci fu uno sciopero generale, con cortei e scontri nelle piazze. L’esercito fu utilizzato per assaltare e saccheggiare la Camera del lavoro.
Il giorno prima della dichiarazione di guerra da parte del regno d’Italia, l’Avanti!, pubblicava un articolo scritto a nome dei giovani socialisti. Negando ogni forma di solidarietà “patriottica” al governo in caso di guerra, vi si sosteneva: “La lotta di classe borghese contro il proletariato non solo non si sospende, ma si intensifica al parossismo, poiché lo sfruttamento economico continua e culmina nel sacrificio di sangue che si chiede ai lavoratori in nome della patria, a cui però i capitalisti non sacrificano il frutto delle proprie speculazioni”.
Giusto e attualissimo.
R. Corsini