Un giorno sembra che ci si avvicini alla pace in Ucraina e il giorno dopo si dimenticano i toni concilianti e si riparte con le dichiarazioni bellicose, per un attimo sembra che ci si avvicini a un cessate il fuoco per Gaza, ma poi le agenzie rilanciano le smentite ufficiali dei dirigenti israeliani e di quelli di Hamas che si attribuiscono vicendevolmente il rifiuto di ogni trattativa. Però, indipendentemente dalla “doccia scozzese”, provocata dall’alternarsi di dichiarazioni di segno opposto, da parte dei vari dirigenti, americani, russi, europei e asiatici, il mondo si muove verso l’orizzonte di una guerra generalizzata. I governi lo stanno dimostrando con i fatti, cioè con lo straordinario impulso dato al riarmo, con i miliardi spesi e quelli di cui hanno programmato la spesa, per riempirsi di tutti gli strumenti più moderni per le carneficine di massa. È così: la guerra, ben oltre i confini mediorientali e quelli ucraini, rappresenta lo scenario plausibile e concreto delle relazioni internazionali in un futuro per niente lontano.
Una quota sempre maggiore di quello che viene prodotto dal lavoro umano è rappresentato da armi, munizioni e tutto quello che serve per condurre una guerra. Le cifre parlano da sole: 2700 miliardi di dollari è il livello record raggiunto dalle spese militari mondiali nel 2024. In questi giorni, con un certo compiacimento, i mezzi d’informazione ci hanno comunicato che tutti i paesi della Nato hanno “finalmente” raggiunto il 2% del Pil nelle spese militari, che era il vecchio obiettivo nel lontano 2006. Ma ora bisogna marciare spediti verso il 5%, secondo i nuovi accordi.
Lo scorso 29 agosto, La Stampa titolava a tutta pagina: “Europa, corsa alle armi”. Un titolo impensabile fino a pochi anni fa.
Il macello della popolazione di Gaza ad opera del governo israeliano, con l’avallo sostanziale di tutte le potenze occidentali, grandi e piccole, Italia per prima, è la prova più evidente che alla violenza e alla ferocia delle classi dirigenti non ci sono limiti. Allo stesso modo, è evidente che l’esistenza di istituzioni democratiche, di un parlamento, di una stampa più o meno libera in un determinato paese, non impedisce al governo di questo paese di agire in modo completamente inumano contro una determinata popolazione.
Tutti i governi, tutti gli Stati sono espressione delle classi proprietarie, cioè della grande borghesia, padrona delle grandi industrie, delle banche, del denaro in tutte le sue incarnazioni. Quello che ci appare come conseguenza di scelte politiche scellerate, senza alcun ancoraggio alla struttura economica e sociale dello Stato in guerra è in realtà la conseguenza di un sistema mondiale basato sulla ricerca del massimo profitto a beneficio di questa classe. Certo, questo collegamento non è sempre chiaro, ma le classi dominanti di ogni paese lo vedono bene. Per loro il potere politico è soprattutto lo strumento per tutelare, promuovere e difendere il proprio privilegio. Allo stesso modo, la “patria” è per loro soprattutto l’indispensabile base logistica per difendere i propri interessi nei confronti delle altre borghesie.
Tutte le forme di protesta popolare contro la guerra sono un segno di vitalità; sono la testimonianza che nella società esiste almeno una corrente numerosa di persone che non ci stanno ad essere complici o spettatori indifferenti di genocidi come quello che si consuma a Gaza. Ma se la guerra è figlia del capitalismo, quello che manca è proprio uno strumento di lotta cosciente contro il capitalismo, un partito che abbia nell’abbattimento della società capitalistica e nella costruzione di una società di liberi ed eguali il pilastro del suo programma politico.
La principale forza sociale che, in tutti i paesi, potrebbe mandare a gambe all’aria questo sistema, che oggi costituisce la più grave minaccia per la sopravvivenza della specie umana è la classe lavoratrice. La lotta contro le infamie e le guerre che insanguinano il pianeta è destinata a fare poca strada se non diventa lotta per costruire, in primo luogo tra i lavoratori un partito rivoluzionario. Usando un’espressione cara a Gramsci, si tratta di una lotta di lunga lena, cioè che ha bisogno di tempo e di impegno costante. Ma si tratta di un passo indispensabile per forgiare lo strumento più efficace nella lotta contro la prospettiva di guerra che ci sta preparando il capitalismo.
1° settembre 2025
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