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Affamare e sterminare un popolo non è “combattere il terrorismo”

Nei prossimi mesi, forse già nei prossimi giorni, vedremo se la giornata di orrore del 7 ottobre, scatenata da Hamas, segna l’inizio un rimescolamento negli equilibri regionali del Medio Oriente. Molte sono le partite in gioco, nelle quali si intrecciano, come al solito, gli interessi delle varie borghesie locali, gli obiettivi politici dei loro regimi e i calcoli delle grandi potenze.

Una cosa certa sono i morti. Morti israeliani e morti palestinesi. Vecchi e bambini israeliani e vecchi e bambini palestinesi. Non ancora chiuse le bare delle vittime della ferocia di Hamas, si sono contate le prime centinaia di bambini straziati dai missili e dalle bombe israeliani. “Inammissibile colpire la popolazione civile e specialmente i bambini” è stato il grido ipocrita di tutti i governi del mondo dopo l’incursione dei guerriglieri di Hamas. Tanto “inammissibile” che, per tutta risposta, si compie ora lo stesso scempio ma su scala industriale. Non solo: in quella prigione a cielo aperto che è la striscia di Gaza, completamente dipendente da Israele per l’acqua, l’elettricità, il cibo e la benzina, il ministro della difesa israeliano, Yoav Gallant, ha pensato di chiudere ogni rifornimento, applicando una forma di assedio medievale che punta evidentemente a far morire di fame, di sete e di malattie tutta una popolazione di più di due milioni di abitanti. Per lui sono “animali umani” e vanno trattati di conseguenza.

Si devono trarre delle lezioni dagli avvenimenti in corso. La prima riguarda il rapporto tra Stato di Israele e palestinesi. Questo è stato, fin dalle origini, un rapporto coloniale. I palestinesi, nel corso di alcuni decenni, sono stati cacciati dalle terre nelle quali avevano vissuto per secoli e hanno subìto una serie infinita di soprusi e provocazioni. La grandissima parte delle vittime di questo stato di cose sono gli strati più poveri della società. Nel corso del tempo, un conflitto permanente che spesso è esploso in forme aperte, ha permesso ai gruppi islamisti di influenzare larghi settori della società palestinese. L’originaria impostazione laica della prima resistenza palestinese si è quasi del tutto persa. Sul lato opposto è avvenuto un processo analogo: l’influenza della destra confessionale si è rafforzata. Il governo Netanyahu ne è stato un’espressione. Ma, discreditato e contestato nei giorni precedenti al 7 ottobre da enormi manifestazioni di massa in Israele, rafforza ora il proprio prestigio, chiamando all’unità nazionale contro il nemico esterno e organizzando una rappresaglia su larga scala nella striscia di Gaza che colpisce soprattutto una popolazione del tutto incolpevole.

Le grandi potenze hanno sempre giocato un ruolo primario nell’alimentare l’odio reciproco tra israeliani e palestinesi. Sistemare un proprio gendarme in una regione cruciale, non fosse che per l’approvvigionamento energetico, è stata l’ambizione della politica inglese prima e di quella americana poi, portandosi dietro gli imperialisti di taglia più ridotta, come la Francia o l’Italia. Col tempo, a complicare la partita, si sono aggiunte le potenze regionali, come l’Iran o l’Arabia Saudita, per le quali il riferimento all’Islam e alla causa della liberazione palestinese sono state sempre solo un pretesto da utilizzare o da abbandonare secondo i propri comodi, assieme al popolo a cui si riferiscono.

L’altra lezione da trarre è che la guerra diventa sempre di più un elemento centrale nelle relazioni internazionali. Da parte delle autorità nazionali coinvolte, i soldati e le popolazioni civili sono bersagliati da una propaganda sempre più raffinata per nobilitare la guerra, chiamando a morire per “la terra degli avi biblici”, per un futuro Stato palestinese, per Allah, per la difesa della “democrazia”, per i “valori occidentali”, ecc. Ma un’esperienza che parte almeno dalla Prima guerra mondiale ha mostrato che dietro a tutte le fesserie e gli inganni propagati da uomini politici, mezzi d’informazione e “professori”, si nasconde l’interesse di grandi gruppi capitalistici che fanno tutelare i propri interessi dai vari governi e dalle varie correnti politiche. Il nazionalismo, magari intriso di fanatismo religioso e di riferimenti ai “Libri sacri”, serve a trasformare i popoli in strumenti docili di una politica criminale.

La pace in Medio Oriente potrà essere raggiunta se il lavoro, la tecnica e l’ingegno di palestinesi, israeliani, arabi o giordani, saranno messi in comune a beneficio di tutti. Una società del genere può trovare in sé le risorse morali e culturali per eliminare dalla scena politica ogni nazionalismo e ogni fanatismo religioso. Ma né il capitalismo, sul piano economico, né le classi che ne traggono profitto e ne presidiano l’ordine, da una parte o dall’altra di qualsiasi frontiera nazionale, potranno o vorranno mai arrivare a questo tipo di società. L’unica classe sociale che ha interesse a costruire questo tipo di società è quella dei lavoratori, ebrei o palestinesi che siano.

Proprio nel momento in cui i gruppi dirigenti israeliani e palestinesi rendono più profondo il solco di odio e di sangue che divide i due popoli, il grido di battaglia del comunismo internazionalista, “proletari di tutto il mondo unitevi” indica la via, accidentata e difficile, per la fine di tutte le guerre e tutti i tipi di oppressione.

14 ottobre 2023

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