Può anche darsi che, come si dice da più parti, manchi una seria politica industriale. Quello che però è sicuro è che manca una politica operaia. Ed questa mancanza, più che ogni altra, che rischia di assestare colpi decisivi e definitivi alla sorte dei lavoratori della Magona, della Lucchini e dei tanti stabilimenti e categorie minacciati da licenziamenti e ristrutturazioni.
Con l’aggravarsi della crisi e con quella che ormai molti economisti chiamano Grande recessione, abbiamo assistito a una serie infinita di chiusure di attività industriali e di servizi. In ogni singolo caso, da parte degli apparati sindacali, ci si è preoccupati più di trovare l’aspetto particolare di quella azienda o di quel settore che di evidenziarne i tratti comuni con gli altri. Uno sciopero come quello di oggi è già un passo avanti perché almeno mette l’accento su una comunità di interessi di tutto il mondo del lavoro.
Ed è questo il punto da cui partire. Bisogna che si sviluppi una vera e propria politica dei lavoratori. Cioè una vasta iniziativa basata sui luoghi di lavoro che abbia come asse portante gli interessi collettivi di tutta la classe lavoratrice. Perché tutta la classe lavoratrice è minacciata nei suoi interessi fondamentali: nel suo reddito e nel suo posto di lavoro.
Non ha alcun senso riporre tutte le speranze nel “salvataggio” della Lucchini o della Magona o di qualunque altra azienda, da parte di banche o investitori italiani o stranieri. Queste cose, se anche avverranno, saranno completamente al di fuori del nostro controllo. Bisogna invece cercare di fare fronte comune con tutti i lavoratori minacciati da ristrutturazioni e licenziamenti! Sono loro i nostri alleati, non i vari “pool” di banche o di gruppi finanziari che in genere si fanno vivi – quando va bene- solo per ottenere denaro pubblico prima e “ridimensionare” gli organici poi.
Magona e Acciaierie prima delle ristrutturazioni degli anni ’90 davano lavoro a 14.000 persone. Oggi, contando l’indotto, siamo a cinquemila. Un cronista del Sole 24 Ore, il quotidiano della Confindustria, ha scritto che questa ramazzata “non è servita a dare stabilità”. E cosa altro dovrebbero fare gli operai di Piombino? Quali altri sacrifici?
Qual è la parola d’ordine giusta in questa drammatica situazione? Si vuole “salvare la siderurgia”, si vuole “salvare l’economia della Val di Cornia”? Cominciamo allora col salvare i redditi dei siderurgici, dei metalmeccanici, di tutti i lavoratori colpiti dalle ristrutturazioni.
Esigiamo un “piano” di garanzie che comporti la salvaguardia dei salari dei lavoratori interessati. Le esigenze primarie dei lavoratori e delle loro famiglie non possono aspettare.
Che la loro “politica industriale” si realizzi o meno, bisogna mettere in campo una politica operaia. “salvare l’economia” è una frase priva di senso se non si salvano in primo luogo i lavoratori che di questa economia sono il motore. A Piombino e non solo a Piombino, bisogna che il lavoro imponga le proprie ragioni al capitale. Per farlo non c’è altro mezzo che la lotta. E la lotta deve avere obiettivi chiari e che riguardano gli interessi di tutta la classe lavoratrice.
Circolo Operaio Comunista “L’Internazionale”
Luglio 2012