Vegetarianismo, veganismo ed «antispecismo»: Sulla sensibilità umana alla sofferenza animale

Lutte de classe n°181 – Febbraio 2017

Dalla pubblicazione di video shock sulle con­dizioni di macellazione degli animali alla rimessa in discussione di abitudini alimentari o di vestiario e alla denuncia dell'industria agroalimentare, i diritti degli animali sono diventati un argomento d'attualità.

Una delle associazioni emblematiche di questa corrente, la L214 Etica e Animali, di cui i video e fotografie di animali maltrattati sono stati ampiamente diffusi, esiste soltanto dal 2008. Un suo responsabile, in occasione di una manifestazione contro la macellazione delle mucche in fase di gestazione che rag­gruppava parecchie centinaia di persone ed era ritrasmessa dai media, ha dichiarato che «dieci anni fa, per un'azione come quella saremmo stati in dieci, presi in giro per tutto il pomeriggio».

Numerosi scrittori, personalità del mondo dello spettacolo e dei mass media, sull’onda di questa sensibilizzazione di una parte della popolazione, alcuni mesi fa hanno pubblicato sulla stampa un manifesto a favore del vega­nismo. Vi difendevano l'idea di un'alimen­tazione esclusivamente vegetale ed il rifiuto di consumare prodotti derivati dallo sfrutta­mento degli animali, come ad esempio i maglioni di lana, le scarpe di cuoio oppure il miele degli api.

Così, in vari paesi ricchi, si è sviluppata una corrente che attrae principalmente una parte della piccola borghesia e con un riscontro anche fra i giovani.

Prendere in considerazione la sofferenza animale

Le idee sui legami tra esseri umani e animali non hanno mai smesso di evolvere, sia dal punto di vista delle concezioni filosofiche e scientifiche sia da quello della percezione della maggior parte delle persone. In Europa, fino al Settecento, anche i pensatori più avanzati consideravano che, rispetto al mondo animale, ciò che caratterizzava la specificità umana era l’avere un'anima. I primi materialisti settecenteschi ebbero l'au­dacia di immaginare che dalla sola materia e dalla sua organizzazione potevano emergere non solo la vita ma pure il pensiero, ristabi­lendo così un legame tra l'umanità e tutte le specie viventi. Darwin, in seguito, con la scoperta dell'evoluzione delle specie, diede basi scientifiche precise a questa visione unificata degli esseri viventi. A partire dall'Ot­tocento, nelle città dei paesi più industria­lizzati, a cominciare dalla Gran Bretagna, dove la prima legge sulla protezione degli animali è del 1825, emersero progressiva­mente differenti visioni nei riguardi degli ani­mali. Contemporaneamente aumentava l'in­teresse scientifico per lo studio del comporta­mento degli animali.

Le scoperte scientifiche ci permettono oggi di comprendere la sensibilità delle varie specie animali grazie alla conoscenza del loro siste­ma nervoso. Sappiamo che alcune specie hanno un linguaggio che può anche essere molto elaborato e che alcune più evolute, come le grandi scimmie, sono in grado di avere una coscienza di sé, con tutto quello che ciò significa in quanto alla coscienza degli altri e alla sensibilità alla sofferenza altrui. Il primatologo Franz de Waal ha riferito di aver osservato una femmina bonobo, specie molto vicina agli scimpanzé, che aiu­tava un uccello ferito a scappare dal recinto dello zoo dove essa stessa era rinchiusa. Tra tutte le specie animali, però, la specie umana è quella che ha potuto produrre il pensiero astratto più elaborato, base di tutto il nostro sviluppo sociale. La nostra sensibilità alla sofferenza altrui, anche a quella delle altre specie animali, il rispetto dell'altro e della vita in generale, sono innanzitutto l'espressione della capacità, in virtù del pensiero astratto, di metterci al posto degli altri.

È anche questa capacità ad essere alla base della sete di comprensione della specie umana e quindi del progresso scientifico che, di rimando, ha sempre allargato l'orizzonte della nostra comprensione del mondo. L'umanità ha preso così coscienza della ne­cessità di essere responsabile del suo ambiente e delle conseguenze delle sue azioni. La presa in considerazione della sof­ferenza animale fa parte di queste preoccu­pazioni e di questa coscienza. È una preoc­cupazione fondamentalmente progressista ed è positivo che questo tipo di questione venga a galla.

I marxisti, a cominciare dallo stesso Marx, anche prima del successo del darwinismo, hanno sempre visto nell'essere umano un prodotto della natura. La filosofia marxista ha sempre difeso l'idea del rispetto di quest’ulti­ma e di tutte le sue forme vitali, non a partire da una concezione mistica, ma dalla coscienza che il nostro destino era legato alla natura medesima. È ciò che Marx riassu­meva nella sua opera Il capitale scrivendo che «La stessa società non è proprietaria della Terra. Ci sono solo usufruttuari che la devono gestire come buoni padri di famiglia per trasmettere alle generazioni future un bene migliorato». (1)

Tuttavia, se l'umanità può avere una co­scienza sempre più spiccata di ciò che do­vrebbe fare, la sua organizzazione sociale la paralizza. L'economia capitalistica, fondata sulla proprietà privata dei mezzi di produ­zione e sulla sacralità della concorrenza, le impedisce di pianificare le sue azioni, quindi di dominarle e di controllarne le conse­guenze. Si ignora l'essenziale se non si è coscienti di questo ostacolo fondamentale al progresso umano e ad una gestione armo­niosa delle azioni umane in relazione con l'ambiente, del quale fa parte il mondo ani­male. Ciò è tanto più vero dal momento che l'organizzazione capitalistica marchia col ferro rovente della ricerca del profitto tutta l'organizzazione economica e tutta la produ­zione. Nulla vi sfugge, né la produzione di prodotti alimentari, né, certamente, le condi­zioni d'allevamento e di macellazione degli animali.

I profitti dell'industria agroalimentare, a scapito degli animali e degli uomini

Nel marzo del 2016, un video girato di nascosto in un mattatoio del paese basco dall'associazione L214 mostrava come alcuni animali venivano dissanguati mentre erano ancora coscienti, cosa che è illegale. All'epo­ca, il governo aveva reagito annunciando ispezioni sistematiche di tutti i mattatoi. Suc­cessivamente, altri video filmati di nascosto dalla stessa associazione hanno reso pubbli­che le condizioni di macellazione dei bovini, delle pecore, dei maiali o dei cavalli.

Questa associazione ha l’obiettivo di denun­ciare la macellazione degli animali. Ciò che però risulta da questi video è anche la realtà del lavoro nei mattatoi: un lavoro alla catena disumanizzante, alla pari di quello esistente in numerose imprese di produzione dei vari settori dell'economia; un lavoro reso forse ancora più duro e più violento proprio dalla sofferenza e dall’abbattimento degli animali. Non è su questo che le associazioni di difesa degli animali, e neanche la stampa, hanno insistito. Nondimeno, una parte considere­vole del problema sta lì. La situazione degli animali negli allevamenti e nei mattatoi, come quella dei lavoratori, è assoggettata alla pressione del profitto capitalistico. Lo è direttamente nei mattatoi privati, indiretta­mente nei mattatoi pubblici per i tagli di bilancio. Come potrebbe essere altrimenti? Si può immaginare una multinazionale dell'industria agroalimentare che accetti di veder ridurre i propri profitti o la sua quota di mercato per la preoccupazione della soffe­renza animale? Si può immaginare un gover­no che non smette di tagliare la spesa pubblica come quella degli ospedali, con tutto quello che ciò ha di criminale, e poi non agisca nello stesso modo per quanto riguar­da i servizi veterinari responsabili del con­trollo dei mattatoi? Non vedere, anche dal semplice punto di vista della sofferenza ani­male, il ruolo fondamentale assunto dalla ricerca del profitto significa ignorare le vere cause dei maltrattamenti denunciati. Così, in­vece di riflettere sul problema ponendosi nell’ottica della totale rimessa in discussione dell'organizzazione economica e sociale at­tuale, alcuni preferiscono orientarsi verso il vegetarianismo o il veganismo.

Vegetarianismo e veganismo: dal gesto individuale alle concezioni maltusiane

Mangiare carne o non mangiarne è una scelta personale che può avere motivazioni estremamente diverse, come ragioni di salute oppure abitudini alimentari. Ci sono anche centinaia di milioni di esseri umani vegetariani di fatto, perché per loro la carne è inaccessibile. Ma c'è anche chi è vegetariano per esprimere la sua opposi­zione a ciò che si pratica nei mattatoi o per denunciare l’uccisione di animali per alimen­tarsi. I vegani, seguaci del veganismo, sono vegetariani che, oltre a non mangiare pro­dotti alimentari di origine animale, rifiutano di consumare qualunque prodotto che risulti dallo sfruttamento degli animali.

Questi gesti individuali possono apparire come atteggiamenti coerenti. In effetti, dallo stretto punto di vista della sofferenza ani­male, lo sono. Tale approccio, tuttavia, se lo si guarda da un punto di vista più obiettivo, è irrilevante, anche come denuncia.

Coloro che rifiutano di mangiare carne devo­no comunque alimentarsi. Ma, qual è la pro­duzione alimentare immune da oppressione e sfruttamento? Non sono la frutta o la verdura a soffrire, certamente, ma coloro che le coltivano e le raccolgono. Anche su questo i video hanno rivelato delle cose scioccanti. Alcuni servizi, ad esempio, hanno mostrato lo sfruttamento selvaggio di lavoratori magre­bini, principalmente donne, in serre del sud della Spagna, e l'ambiente razzista e maschilista che vi regnava. In Italia e in Francia, lo sfruttamento selvaggio nei con­fronti dei braccianti, spesso immigrati, è la norma. E che dire delle condizioni di lavoro nelle fabbriche dell'industria agroalimentare? Non sono migliori di quelle esistenti nei mat­tatoi!

In quanto a chi rifiuta ogni prodotto dello sfruttamento animale, come i vestiti di cuoio o di lana, sembra poco attento allo sfrutta­mento degli esseri umani. Il crollo del palaz­zo Rana Plaza nel Bangladesh, il 24 aprile 2013, che aveva fatto 1 138 morti e più di 2 000 feriti, aveva rivelato all'opinione pubbli­ca mondiale le condizioni di lavoro nel settore del subappalto tessile di molti grandi marchi del pianeta. E si potrebbero fare numerosi esempi poiché tutto ciò che è prodotto in questa società capitalistica è opera di lavoratori, operai, impiegati, piccoli contadini, centinaia di milioni dei quali non hanno altra scelta per sopravvivere che quella di andare a farsi sfruttare in una fab­brica, un porto, un deposito, un campo…, persone la cui vita, agli occhi dei loro sfrutta­tori, a volte non vale molto di più di quella di un animale di compagnia. Alcuni anni fa, anche nei paesi ricchi, esisteva una vera e propria corrente che denunciava lo sfrutta­mento selvaggio nei paesi poveri, a comin­ciare da quello dei bambini. Ma da una causa all'altra, tutto è avvenuto come se, in quest’epoca di arretramenti e di rinunce, dinanzi all'immensità del compito che rappre­senta la lotta contro lo sfruttamento, una certa opinione pubblica abbia preferito ripie­gare verso una cosa più facile da denunciare quale la causa animale.

Questo non toglie che tutta l'economia mon­diale è fondata sullo sfruttamento. Da quello più barbaro, in tutti i sensi del termine, come quello che può esistere in Africa nelle minie­re delle regioni diamantifere, al più moderno e più sofisticato ma che può essere altret­tanto micidiale. Le reti contro i suicidi nelle fabbriche del gigante Foxconn, subappalta­tore della Apple in Cina, ne sono state un esempio lampante che ha anche fatto il giro del mondo. Non bisogna di certo pensare che sia possibile vivere al di fuori di tutto ciò, ed ancor meno rassegnarvisi, bensì combat­tere questo sistema nel suo complesso. Come comunisti rivoluzionari, non condu­ciamo questa battaglia in nome di una gene­ralizzazione della denuncia di questo o quell'aspetto dell'economia capitalistica. La portiamo avanti come battaglia globale contro questa società di sfruttamento, per l'emancipazione degli oppressi e per l'instau­razione di una società comunista capace di organizzare democraticamente la produzione su scala mondiale, di pianificarla, tenendo conto delle necessità di tutti.

Infine, nella corrente che va da quelli colpiti dalle rivelazioni sulle pratiche di macella­zione ai seguaci del veganismo più rigoroso, c'è chi difende la teoria per cui oggi occorre­rebbe cessare ogni produzione di carne o di pesce. Chi lo fa non si preoccupa delle con­seguenze per le centinaia di milioni o miliardi di esseri umani che non hanno cibo a suffi­cienza o che soffrono di carenze alimentari. Qui non si tratta più di un gesto individuale, bensì di una militanza su un terreno decisa­mente reazionario. Tale concezione non fa altro che riciclare le vecchie concezioni del pastore inglese Malthus. All'inizio del l'Otto­cento, mentre la rivoluzione industriale faceva sprofondare nella miseria tanti lavora­tori inglesi, Malthus riteneva che si ci fossero troppi poveri da nutrire e che fosse più natu­rale lasciarli morire. Certamente, tutti i vege­tariani non sono maltusiani. E la maggior parte di quelli che sono sensibili alla soffe­renza animale lo sono anche nei confronti della sofferenza umana… ma non tutti.

L'antispecismo, teoria alla moda ma senza fondamento

Una delle teorie alla moda dai vegani è “l'antispecismo”. Questo termine è stato coniato negli anni ’70 come estrapolazione dell'idea dell'antirazzismo. Secondo i suoi difensori, gli esseri umani sfrutterebbero gli animali in quanto inferiori. Ciò è considerato uno “specismo”, allo stesso modo che il razzismo è il disprezzo di una razza verso un'altra.

Tale analogia con il razzismo non aiuta affat­to a veder chiaro. Per prima cosa, occorre ricordare che le ricerche scientifiche hanno dimostrato che non ci sono razze tra gli esseri umani. L'umanità è biologicamente una e indivisibile. Ci sono invece classi sociali, oppressori ed oppressi. Il razzismo non è il prodotto di una contrapposizione tra razze ma quello della lotta tra classi sociali. È un'ideologia al servizio degli oppressori per dividere gli oppressi secondo la loro origine geografica, il colore della loro pelle, la loro religione, o qualunque altro pretesto. Tra le specie animali, non c’è lotta di classe, né lotta tra specie, c'è l'evoluzione. Se dunque si vuole riflettere sulle relazioni tra gli esseri umani e le specie animali, è dal lato dell'evoluzione biologica e sociale della razza umana che bisogna guardare.

L’umanità, per gran parte della sua storia, si è comportata nei confronti del mondo ani­male esattamente come gli altri animali tra loro. Gli antenati degli esseri umani sono stati dapprima avvoltoi che si nutrivano di ca­daveri di animali, poi l'evoluzione biologica ha trasformato la specie umana. Gli esseri umani, utilizzando le armi e gli attrezzi che sono stati capaci di fabbricare, sono diventati cacciatori, cioè predatori come molti altri ani­mali. Infine, poiché l'evoluzione sociale è subentrata all'evoluzione biologica, l'umanità ha cominciato a maturare le sue prime abilità e le sue prime conoscenze.

Una decina di migliaia di anni fa, alcuni esseri umani, in varie zone del pianeta e indi­pendentemente gli uni dagli altri, sono stati i primi a scoprire la possibilità di addomesti­care gli animali e di far crescere le piante. Da predatori, sono diventati produttori. Questa tappa fondamentale della storia umana si basa sull'addomesticamento degli animali e la comparsa dell'allevamento. Rammaricar­sene non avrebbe alcun senso. Questa tappa fondamentale ha anche comportato la divisione della società in classi, le disugua­glianze sociali, così come lo sviluppo della schiavitù e delle guerre. Questo enorme sconvolgimento, a cui numerosi antropologi hanno voluto dare il nome di rivoluzione neo­litica, è stato però alla base di tutto il pro­gresso della civiltà umana.

Diecimila anni dopo, l'umanità potrebbe fare a meno dell'allevamento? Oggi, tenuto conto che parecchi miliardi di esseri umani non hanno cibo a sufficienza, è evidente che non è così! Cosa accadrà in futuro? Come si nutrirà l'umanità? Quali saranno allora le relazioni tra gli esseri umani e gli animali? Queste domande sono legittime. Occorre nondimeno sperare che l'umanità si sia un giorno sbarazzata delle disuguaglianze sociali e dell'aberrante organizzazione economica capitalistica fondata sulla concorrenza e sulla ricerca del massimo profitto. Cosa potrebbe fare un'umanità capace di utilizzare l'alto livello di sviluppo delle forze produttive nell'ambito di un'economia democraticamente pianificata su scala mondiale? Non lo si può prevedere, poiché si apriranno allora possibilità immense.

La sensibilità alla sofferenza animale è un sentimento profondamente umano, in tutti i sensi del termine. Consiste nell'essere tocca­to dalla sofferenza altrui, nell'essere capace d'empatia verso gli altri, compresi gli animali. Questo genere di sentimento altruista deve portare a voler capire il mondo attuale nella sua globalità. Capire che l'umanità è oggi im­pigliata in contraddizioni perché cui un’infima minoranza di sfruttatori approfitta della sua posizione dominante per soffocare la società, è la chiave di molti problemi.

Questa comprensione può spingere ad agire coscientemente per condurre la battaglia contro il sistema capitalistico attuale, cioè espropriare la classe dominante per mettere l'economia mondiale al servizio di tutti. È il comunismo. Non sarà certamente la solu­zione di tutti i problemi. È però il solo mezzo per mettere finalmente l'umanità nella condi­zione di controllare ciò che in fondo non è altro che la sua società, niente altro che il risultato delle sue azioni. Ed è il solo mezzo per poter finalmente gestire coscientemente tutte le conseguenze dei suoi atti, come, ad esempio, il suo modo di alimentarsi e le sue relazioni con il resto del mondo animale.

12 gennaio 2017

(1) libro III, sezione 6, capitolo 46