Da “Lutte de classe” n° 201 - Luglio-agosto 2019
Dal 3 giugno in Sudan, la repressione ha colpito gli oppositori che continuavano a manifestare in maniera massiccia. Cominciato sei mesi prima per protestare contro la triplicazione del prezzo del pane, il movimento aveva rapidamente assunto un carattere politico e infine ottenuto in aprile l’esclusione del dittatore Omar al-Bashir. Da allora il movimento aveva chiesto la sostituzione della giunta militare, che gli era succeduta, da un governo civile, ma non era affatto preparato ad uno scontro con l'esercito e le forze repressive, sebbene tale scontro fosse prevedibile.
Il Sudan, grande come cinque volte l'Italia, è uno dei paesi più poveri del mondo. Un tempo parte dell'impero coloniale britannico, non offriva altro interesse per quest'ultimo se non quello strategico, al confine tra le colonie francesi dell'Ubanghi-Shari, oggi Repubblica Centrafricana, e il Ciad. Ma se al momento dell'indipendenza, nel 1956, i colonizzatori non lasciarono quasi nessuna infrastruttura, lasciarono invece al nuovo stato un'eredità avvelenata: il conflitto tra il nord e il sud del paese. Come ovunque, i colonizzatori britannici si erano appoggiati sulle caste dominanti di una parte del paese, vale a dire il nord arabo e musulmano, per aiutarle a opprimere il resto della popolazione e in particolare le popolazioni nere e non musulmane del sud.
Guerre, dittature e rivolte
Questa situazione è stata perpetuata dai regimi sorti dall'indipendenza e ha portato a una lunga guerra civile nel Darfur, ad ovest, e poi nel sud. Questo conflitto ha causato centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati e ha trasformato queste aree in un vasto deserto umano, fino a quando l'indipendenza del Sudan meridionale nel 2011 ha dato spazio ad una nuova guerra, questa volta tra i dirigenti del nuovo Stato. In questa guerra senza fine, i paesi imperialisti e in particolare gli Stati Uniti hanno avuto il loro ruolo, soprattutto dopo la scoperta di giacimenti di petrolio in quella regione.
Conoscendo solo la guerra, il Sudan è vissuto quasi esclusivamente sotto dittature militari. Meno di due anni dopo l'indipendenza, il generale Abbud prese il potere con il sostegno della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Vietò i partiti politici e i sindacati e dichiarò lo stato di emergenza. Fu rovesciato da uno sciopero generale nel 1964, ma il governo civile che fu istituito durò ben poco. Fu rovesciato nel 1969 dal generale Nimeyri. Quest'ultimo, facendo riferimento ai Liberi Ufficiali che avevano portato Nasser al potere in Egitto, fu sostenuto per un certo periodo dal Partito Comunista e dai sindacati.
Il Partito Comunista Sudanese, fondato nel 1946 col sostegno dei comunisti egiziani, era diventato uno dei più potenti del mondo arabo. Il Sudan era allora ufficialmente un condominio anglo-egiziano, una formula ipocrita che significava che l'amministrazione e la polizia erano organizzate e pagate dall'Egitto, un paese indipendente ma ancora di fatto sotto il protettorato britannico, e che gli ufficiali britannici occupavano posti di comando. Fin dall'inizio, i comunisti conquistarono una notevole influenza tra i lavoratori sudanesi. Nel 1950, furono all'origine della creazione del sindacato che accoglieva i mezzadri della Gezira, la zona creata dagli inglesi per coltivarvi il cotone. La città industriale di Port Sudan sul Mar Rosso divenne anche un bastione del PC sudanese. Infine, furono i suoi dirigenti ad organizzare i lavoratori delle ferrovie nella città di Atbara, a nord di Khartoum, dove si trovava la loro sede centrale. Nel 1964, indettero uno sciopero generale che paralizzò il paese per tre giorni.
Tuttavia, tutto il lavoro dei militanti comunisti fu rovinato dalla politica di sostegno a Nimeyri. Il PC sudanese seguì la politica di ispirazione stalinista che chiedeva ai partiti comunisti, e quindi ai lavoratori che li seguivano, di sostenere i regimi che si dichiaravano antimperialisti, anche se erano le peggiori dittature, sulla base degli interessi diplomatici della burocrazia al potere in URSS. Questa politica, che non aveva niente di una politica di classe, riduceva i PC al ruolo di ala sinistra dei leader nazionalisti, senza peraltro disattivare la loro diffidenza nei confronti dei comunisti, o meglio delle classi lavoratrici da loro organizzate. Tale politica ebbe le stesse tragiche conseguenze in Sudan che in altri paesi arabi come l'Egitto e l'Iraq. Nel 1971, dopo aver goduto del loro sostegno, Nimeyri si volse contro i comunisti e scatenò una sanguinosa repressione contro di loro. Il 28 luglio furono giustiziati il segretario generale del PC, Abdel Khalek Mahjub, e il leader della Confederazione generale dei lavoratori sudanesi, Shafi' al-Sheikh. Da quel momento in poi, Nimeyri si rivolse agli Stati Uniti per la politica estera e ai fondamentalisti musulmani per quella interna.
Fu un altro sciopero generale a rovesciare Nimeyri nel 1985. Un altro generale, Dahab, prese il suo posto, poi lo lasciò ad un governo civile nel 1986. Anche quello fu un periodo di breve durata. Il 30 giugno 1989, il generale Omar al-Bashir prese il potere con l'appoggio dei partiti musulmani fondamentalisti, e vi è rimasto fino allo scorso aprile.
Ma mentre il regime è stato per lo più una dittatura militare, la storia del Sudan è stata segnata anche da rivolte popolari. Nel 1964 e poi nel 1985, gli scioperi generali hanno portato al rovesciamento delle dittature esistenti. Questi movimenti, cominciati come proteste contro l’aumento dei prezzi, portarono rapidamente ad esigenze di cambiamento politico. Sotto Omar al-Bashir, l'aumento del prezzo della benzina e dei beni di prima necessità aveva già portato ad una rivolta nel 2013, repressa nel sangue. Questa rivolta è tornata a galla.
Dalla rivolta contro l'aumento dei prezzi al rovesciamento di Omar al-Bashir
La mattina del primo dicembre 2018, il governo di Omar al-Bashir annunciava la sua decisione di triplicare il prezzo del pane. La rivolta si diffuse immediatamente a macchia d'olio e, quella stessa sera, massicce manifestazioni invasero le strade delle grandi città ed esplosero anche in aree remote.
Il movimento prese rapidamente una piega politica, chiedendo la caduta del dittatore. Gli slogan dei manifestanti erano "Libertà, pace e giustizia" o "Vai via e basta". Con gli aumenti previsti la popolazione, già praticamente senza mezzi di sussistenza, era completamente strozzata. Non c'era più benzina nelle stazioni di servizio, non c'erano più soldi nelle banche e il pane stesso scarseggiava nei forni. Negli ultimi mesi i prezzi dei farmaci erano aumentati del 50 per cento, l'inflazione era ufficialmente del 70% annuo, e in realtà ben più elevata.
La crisi dell'intera economia si era aggravata dopo l'indipendenza del Sudan meridionale, che aveva privato il paese delle risorse dell'estrazione del petrolio in quella regione. Tuttavia, questa rendita petrolifera non aveva mai beneficiato alla parte più povera della popolazione. Aveva finanziato principalmente i conti bancari di Omar al-Bashir e del suo clan ed era stata utilizzata per finanziare le spese militari. Solo una piccola parte di essa era ricaduta su una certa piccola borghesia, e niente sulla popolazione. Oltre questa corruzione, anche le ingiunzioni del FMI hanno avuto un ruolo importante in questa discesa agli inferi. Le istituzioni finanziarie internazionali avevano ispirato il piano di austerità di Omar al-Bashir, chiedendo in particolare la fine dei sussidi ai beni di prima necessità con i quali le popolazioni più povere si potevano sfamare un po'.
Nonostante la repressione, la popolazione ha continuato a manifestare. La rivolta del dicembre 2018 era stata spontanea, ma ne fu rapidamente a capo l'Associazione dei Professionisti Sudanesi (APS). Questa associazione non proveniva dai manifestanti stessi, ma era composta da rappresentanti di otto associazioni di categoria della piccola borghesia che si erano riunite dopo i movimenti del 2013: ingegneri, avvocati, medici, docenti universitari. Erano riusciti ad organizzarsi e a sopravvivere nella clandestinità o all'estero, e, grazie ai loro appelli a continuare il movimento, ebbero rapidamente il sostegno massiccio dei manifestanti.
L'APS sembrava essere una garanzia dell'unità del movimento e questo aspetto fu rafforzato quando, il primo gennaio 2019, fu creata l'Alleanza per la libertà e il cambiamento (ALC) con i principali partiti politici del paese. La dichiarazione di fondazione di questa Alleanza richiedeva in primo luogo e soprattutto la partenza di Omar al-Bashir e la sua sostituzione con un governo di transizione per un periodo di quattro anni, prima che si potessero tenere le elezioni. Il programma comprendeva misure progressiste, tra cui "la lotta contro tutte le forme di discriminazione e persecuzione contro le donne sudanesi" in un paese che è stato a lungo governato dalla legge islamica, ma dove le donne erano numerose nelle manifestazioni. Tuttavia, per quanto riguarda l'aspetto economico, di fronte all'aumento infernale dei prezzi e alle penurie che avevano fatto scendere in piazza i primi dimostranti, si parlava solo di "arginare il deterioramento economico e migliorare la vita delle persone in tutti i settori".
Oltre all'APS, i principali firmatari erano il partito Ummah, un partito religioso islamico di cui il leader, Sadek al-Mahdi, aveva guidato l'effimero governo civile del 1986, una coalizione di gruppi armati ostili al regime e il Partito Comunista Sudanese (PCS), i cui attivisti erano usciti dal carcere e contribuivano al movimento con le loro capacità al livello locale. Ma firmando questo testo, il PCS confermava che avrebbe rinunciato a qualsiasi politica indipendente per la classe operaia e rifiutava anche di sottolineare le rivendicazioni essenziali che avevano provocato la rivolta. Questo era anche un tradimento del coraggio dei suoi attivisti, che avrebbero forse potuto proporre un'altra politica e trovare l'ascolto necessario per questo. Purtroppo non si tratta di una novità, poiché l'intera esistenza di questo partito è stata segnata dalla partecipazione a tali fronti uniti, quando non fu, come nel caso di Nimeyri, dalla ricerca all'interno dell'esercito di un alleato a cui aggrapparsi.
Nonostante lo stato di emergenza e la repressione, le manifestazioni continuarono in tutto il paese fino a quando, il 6 aprile, l'ALC chiamò ad un presidio permanente da tenersi giorno e notte presso il quartier generale dello Stato Maggiore a Khartoum. Cinque giorni dopo, incapace di porre fine alle pressioni della piazza, i capi militari intorno ad Omar al-Bashir lo costringevano a dimettersi e presero il suo posto, formando un Consiglio militare di transizione.
Dopo la caduta di Omar al-Bashir
Dopo la caduta di Omar al-Bashir, la politica dell'ALC e dell'APS si è limitata a cercare di fare pressione sul Consiglio militare di transizione. Invitando i manifestanti a rimanere presenti davanti al quartier generale, manteneva l'illusione che così si potesse convincere il Consiglio militare di transizione e costringere i suoi alti ufficiali ad accettare un accordo. L'APS, a cui il movimento faceva capo, non ha mai preso in considerazione di prepararlo ad un confronto che comunque appariva inevitabile, condannando persino qualunque iniziativa che avrebbe potuto andare in questa direzione.
Questa tattica apparve per qualche tempo un po' efficace perché i militari, ansiosi di guadagnare tempo, sembravano fare concessioni. Estromisero infatti il vicepresidente di Omar al-Bashir, il generale Ibn Awf, la cui nomina a capo del Consiglio militare di transizione aveva scatenato la furia della folla intorno al quartier generale. L'inganno era un po' troppo visibile, e il generale al-Burhan che lo sostituì ebbe il vantaggio di essere meno conosciuto, anche se aveva partecipato, come tutti gli alti ufficiali sudanesi, ai massacri compiuti sotto il dittatore rovesciato. Il numero due della giunta rimaneva il generale Hemetti, le cui milizie Janjaweed avevano terrorizzato il Darfur prima di diventare, con il nome di Forze di supporto rapido (RSF), la punta di diamante della repressione sotto Omar al-Bashir e fino alla sua caduta.
Il Consiglio militare di transizione si impegnò anche in lunghi negoziati con l'ALC, concedendo sulla carta la creazione di organi congiunti che avrebbero dovuto unire militari e civili per guidare il paese. Tuttavia, era chiaro che in pratica i militari intendevano mantenere il controllo tramite posizioni maggioritarie e decisive in tali organismi. Nel tentativo di farli cedere l'ALC chiamò ad una manifestazione di massa a Khartoum giovedì 3 maggio, seguita da un'altra i 28 e 29 maggio. Ma a quel punto lo Stato maggiore aveva già deciso che non si trattava più di tergiversare e che il movimento andava fermato.
Venerdì 31 maggio fu organizzata una contromanifestazione in cui migliaia di abitanti delle campagne furono trasportati a Khartoum per gridare slogan come "il potere ai militari" o "il potere all'Islam". Le forze di repressione erano sempre più presenti vicino al presidio intorno al quartier generale e, infine, il 3 giugno, le forze di supporto rapido di Hemetti, i membri dei servizi di sicurezza e gli scagnozzi dei partiti fondamentalisti irruppero contro l’accampamento, compiendo numerose atrocità contro gli oppositori.
Da allora, mentre regna il terrore, i capi dell'opposizione si sono semplicemente rivolti ai leader militari per condannare il massacro, come se questi ultimi non ne fossero stati gli organizzatori, e si sono affidati innanzittutto alle mediazioni internazionali per un'ipotetica ripresa dei negoziati.
La necessità di una politica rivoluzionaria
Così, e come in molti altri casi, la classe operaia e i lavoratori sudanesi pagano col sangue l'assenza di una direzione rivoluzionaria, che avrebbe consentito al movimento di prepararsi al confronto con un apparato militare che poteva progettare solo di subentrare alla precedente dittatura. Invece di questo, l'unica politica proposta ai lavoratori era di cercare un compromesso con i capi dell'apparato repressivo.
Non si poteva certamente contare su gli uomini dell'APS per proporre un'altra politica. Sorti dalla fragile piccola borghesia sudanese, riflettevano le timide aspirazioni di questo strato sociale a partecipare al potere e alla spartizione della ricchezza. In assenza di qualunque altra direzione, erano stati portati alla direzione del movimento a causa della loro resistenza alla repressione sotto Omar al-Bashir e dei loro appelli a continuare le manifestazioni all'inizio della rivolta. Erano però organicamente incapaci di prendere in considerazione il modo di condurre fino alla vittoria la lotta iniziata dalle masse.
Così facendo, e come molti altri dei loro simili nelle rivoluzioni passate, hanno contribuito a legare le mani dei manifestanti in anticipo. Anche dopo l’esplosione della repressione il 3 giugno, un portavoce dell'APS, citato dal quotidiano del Partito comunista francese l'Humanité, ha dichiarato: "Il pacifismo è e rimane la nostra forza e la nostra parola d'ordine. L'APS e i membri dell'Alleanza per la libertà e il cambiamento (ALC) in generale vogliono che il nostro movimento continui in questa direzione. Un tale approccio può disorientare le milizie del vecchio regime, che si sentono disarmate dalla nostra determinazione. Sarebbe nel loro interesse spingerci a prendere le armi per schiacciare la nostra rivoluzione. Quindi sarà con l'insistere su azioni pacifiche e civiche, come lo sciopero generale e i blocchi stradali, che vinceremo la nostra battaglia. Rispondere alla violenza con la violenza è una trappola in cui il popolo sudanese non cadrà". Queste formule riassumono una politica che si è dimostrata suicida e che ovviamente non ha in alcun modo "disorientato" i carnefici determinati a spargere sangue.
Tramite l'APS, la piccola borghesia sudanese ha cercato di giocare la sua carta, sperando di essere ammessa a partecipare ad un governo civile come rappresentante del movimento di protesta. Il suo compito fu di fermarlo, almeno finché le masse mobilitate ebbero l'illusione di un possibile cambiamento. Ciò si è rivelato un vicolo cieco. I capi dello stato maggiore potevano allentare la presa di fronte al movimento, estromettere Omar al-Bashir e negoziare con l'opposizione civile. Invece non potevano immaginare di rinunciare al potere o anche di condividerlo a lungo termine. Un primo motivo ne è ovviamente che vogliono preservare i privilegi e le ricchezze loro conferiti dalla loro posizione a capo dello Stato e che sono pronti a aggrapparcisi fino alla fine, senza esitare ad usare le forze di repressione sotto il loro controllo. Ma il motivo è anche e soprattutto che i soldati che hanno governato il Sudan per decenni, e che lo fanno a nome della borghesia e dell'imperialismo, hanno una lunga esperienza sul modo di opporsi ai movimenti di massa. Sono ben consapevoli che, anche se APS e ALC fossero soddisfatti da un compromesso, un movimento popolare come quello scoppiato alla fine dell'anno scorso non si scioglie così facilmente con qualche discorso. Ebbene, dare soddisfazione alle sue rivendicazioni materiali era fuori discussione per la borghesia e per l'imperialismo. Nella situazione catastrofica del Sudan, era quindi meglio, agli occhi dei militari, dare immediatamente a queste richieste l'unica risposta di cui disponevano: la repressione sanguinosa.
La preoccupazione dei capi militari sudanesi davanti al movimento popolare non è una loro esclusività. Nella drammatica situazione economica in cui si trovano oggi molti paesi poveri, soprattutto in Africa e nel mondo arabo, il loro atteggiamento è chiaramente un monito per tutte le popolazioni che avrebbero voglia di ribellarsi. Dietro i generali di Khartoum ci sono i sostenitori del Sudan nel mondo arabo, in particolare l'Arabia Saudita, l'Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, ma anche i dirigenti della borghesia mondiale e dell'imperialismo.
La risposta definitiva che le classi dirigenti hanno dato alle masse sudanesi in lotta, il ricorso ad una sanguinosa repressione, è quella che le classi dirigenti hanno sempre dato ai movimenti di rivolta delle classi sfruttate, anche quando questo significa compiere un massacro. L'esempio era già stato dato agli inizi del movimento operaio con la repressione della rivolta operaia di Parigi del giugno 1848. All'epoca, la soldatesca, già addestrata alla repressione con la colonizzazione dell'Algeria, ne aveva dato piena misura contro gli operai parigini, proprio come le truppe del generale Hemetti, addestrate alla repressione nel Darfur, hanno poi potuto agire contro i manifestanti di Khartoum. Di fronte alla minaccia di vedere i lavoratori darsi modo di lottare fino in fondo per i propri interessi di classe, la borghesia dominante si protegge conducendo risolutamente la propria lotta di classe, utilizzando i mezzi del potere a sua disposizione, che sono fondamentalmente quelli dell'apparato statale e delle sue bande armate.
Il monito non è nuovo. Nel suo famoso "brindisi di Londra" del 1851, Auguste Blanqui già avvertiva osservando, a proposito delle rivoluzioni del 1848 e della loro repressione: "Ci si inchina davanti alle baionette, si spazzano via le folle disarmate". E dichiarava: "Le armi e l'organizzazione, ecco l'elemento decisivo del progresso, il mezzo serio di finirla con la miseria. Chi ha il ferro, ha il pane". Blanqui affermava già la necessità di una politica rivoluzionaria del proletariato per armarlo contro la borghesia. Tale necessità è ancora più essenziale oggi, in un momento in cui la crisi dell'economia capitalista sta facendo precipitare masse crescenti nella povertà, ponendole di fronte all'assoluta necessità di rovesciare il sistema e le classi dominanti che hanno fatto il loro corso.
27 giugno 2019