(Da “Lutte de Classe” n° 154 - Settembre-Ottobre 2013)
IÈ inutile perdersi nelle ipotesi sulla realtà di una svolta della situazione economica o dell'inizio di una ripresa. Affermazioni in questo senso si moltiplicano da parecchie settimane nelle dichiarazioni dei politici al potere. Non solo questi hanno ben poca influenza sul funzionamento dell'economia, ma per di più i loro discorsi ubbidiscono a motivi ben diversi dalla necessità di descrivere la realtà delle situazioni; e ciò che è vero per tutti i governi lo è ancora di più per un governo socialista. L'unico argomento che gli dà una certa credibilità nei confronti della borghesia, che serve con la stessa fedeltà della destra, è di essere più atto a far passare provvedimenti antioperai con la complicità dei dirigenti sindacali.
Gli elementi citati per illustrare la realtà di una svolta, la ripresa degli affari negli Stati Uniti, in particolare nell'immobiliare, la fine del rallentamento della crescita in Cina, ecc., ben poco incidono nei confronti dell'inesorabile ascesa della disoccupazione, della stagnazione della produzione industriale, del regresso del commercio internazionale. I commentatori dall'entusiasmo più sfrenato sono costretti a riconoscere che i numeri avanzati per giustificare lo scenario dell'inizio di una ripresa sono deboli e aleatori. E soprattutto, a pesare sempre più sull'economia sono la finanza e gli spostamenti di capitali speculativi, i cui movimenti erratici minacciano la vita economica mondiale di nuovi crolli.
La minaccia finanziaria
Durante gli ultimi vent’anni, l'economia capitalistica ha conosciuto un succedersi di scosse finanziarie più o meno generalizzate e più o meno gravi. La più recente, scatenata dal caso dei subprimes nel 2007-2008, era andata vicino al crac bancario generalizzato, che avrebbe avuto conseguenze incontrollabili per la vita economica. Ma questo crollo generale non si è prodotto: grazie agli interventi massicci degli Stati e alle loro politiche monetarie, l'economia mondiale ha evitato un crollo del tipo di quello del 1929 con le sue conseguenze.
I mezzi adoperati per ostacolare tale catastrofe hanno ancora amplificato la finanziarizzazione dell'economia, con la conseguenza di aggravare le minacce per il futuro; hanno peggiorato il parassitismo del gran capitale e soprattutto la situazione della classe operaia.
La crisi si è tradotta in un concentrazione crescente dei capitali, rafforzando ancora il controllo dei più potenti sul resto dell'economia. Ha eliminato un certo numero di imprese capitaliste tra le più deboli. Ma il tasso di profitto rimane complessivamente alto, e anche i dividendi distribuiti. Per ora la grande borghesia non ha molti motivi di lamentarsi della crisi. Per quanto i grandi borghesi si preoccupino degli interessi della loro classe e non solo della propria cassaforte, la grande borghesia può ancora cullarsi in un ottimismo relativo, ed aspettare i giorni migliori della ripresa.
Il giornale economico Les Échos del 13 e 14 settembre 2013 annuncia trionfalmente in prima pagina: “Borsa, cinque anni per cancellare la crisi del secolo”. A parte che la ricerca di titoli spettacolari ha la meglio sul redattore e lo porta a trascurare il fatto che questo secolo è arrivato soltanto al tredicesimo anno, rimane la constatazione fatta dal quotidiano: “l'indice Cac 40 della Borsa di Parigi ritrova il suo livello del settembre 2008 al momento del fallimento di Lehman”, dato che “in poco più di un anno è aumentato del 40% per installarsi sopra i 4000 punti”.
Ovviamente questo rimbalzo importante del valore delle azioni dà solo un'immagine molto approssimativa della situazione economica reale. E con la quantità di soldi iniettati in permanenza nell'economia da parte degli Stati, questo specchio è sempre più deformato dalla speculazione.
Questo aumento della Borsa riflette senz'altro l'anticipazione da parte del gran capitale di una ripresa dell'economia. Ma nondimeno essa rimane una scommessa speculativa. Infatti uno dei problemi maggiori dell'economia con la finanziarizzazione crescente sta nel fatto che i profitti della sfera finanziaria derivano in fin dei conti dallo sfruttamento nella sfera produttiva e che, per riprendere la famosa espressione dei borseggiatori, “l'albero non può salire fino al cielo”. Un distacco troppo importante tra l'economia produttiva e le anticipazioni borsistiche non può durare molto a lungo e l'economia produttiva finisce sempre col ricordarsi ai capitalisti.
L'ottimismo preoccupato della borghesia per i suoi profitti
Fatto sta però che questo trionfalismo testimonia l'attuale ottimismo della borghesia e la sua speranza che i profitti delle aziende, che lo sfruttamento accresciuto della classe operaia ha permesso di salvaguardare durante la crisi, continuino a prosperare. E fin tanto che i profitti presenti fanno sperare profitti più alti domani, allora al diavolo il futuro a più lungo termine, anche se lo stesso giornale economico Les Echos, ancora nei numeri del 13 e 14 settembre, afferma che “la grande finanza ha ritrovato grandi profitti. Ma una sana e solida crescita economica ancora non c'è”, oppure “La finanza rimane intrinsecamente un fattore d'instabilità per l'economia mondiale.”
Jean-Claude Trichet, ex presidente della Banca centrale europea (BCE) che si vanta del ruolo dei dirigenti delle banche centrali, tra cui lui stesso, nel salvataggio dell'economia a colpi di centinaia di miliardi nel 2008 e anche dopo, aggiunge però: “siamo ancora in una situazione pericolosa”. E rivolgendosi agli Stati e alle banche perché mettano gli affari in ordine, completa: “se no, il periodo attuale sarà servito solo a preparare la prossima crisi.”
Fin dal suo salvataggio da parte degli Stati nel 2008, il sistema bancario rimane sotto osservazione. 85 miliardi di dollari al mese sono versati dalla sola banca centrale americana per riacquistare buoni del Tesoro, obbligazioni di Stato e crediti ipotecari, cioè per far funzionare la stampa dei biglietti. Ma quest'assistenza non serve neanche a dare sollievo all'economia malata: alimenta quasi direttamente la speculazione. Quella che verte sui tassi di cambio è cresciuta del 35% nel corso di quest'anno.
Nondimeno la grande paura dei dirigenti americani è che l'arresto di questa assistenza, se ci fosse l'inizio di una ripresa, possa provocare proprio il crac finanziario che hanno avuto tante difficoltà ad evitare nel 2008.
I portavoce più lucidi della borghesia, del tipo di Trichet, si guardano bene dall'esprimere un beato ottimismo. Ma i loro avvertimenti sono anche un modo di suggerire che, per le classi popolari, il tempo dei sacrifici non è finito.
“Finché il capitalismo non sarà stato sconfitto da una rivoluzione proletaria, vivrà gli stessi periodi di rialzo e di ribasso, conoscerà gli stessi cicli.(l'alternanza tra) le crisi e i miglioramenti (è propria) del capitalismo dal giorno della sua nascita; lo accompagnerà fino alla morte”, scriveva Trotsky commentando la crisi del 1920-1921.
In altri termini i marxisti, considerando le pulsazioni cicliche dell'economia capitalista, non ne concludono affatto che una crisi porti al crollo definitivo del capitalismo, e che da questo crollo può derivare la prospettiva di una rivoluzione sociale.
Il dominio della borghesia sulla società odierna crollerà solo sotto l'azione cosciente della classe rivoluzionaria portatrice del futuro, il proletariato.
Per questo, sulla questione della ripresa o meno, i marxisti non hanno più di altri la capacità di prevedere l'evolversi dell'economia. Ma sono gli stessi portavoce della borghesia a notare la fragilità dell'economia e le minacce che derivano dalla finanziarizzazione, e danno in fin dei conti tutti gli argomenti per dubitare che ci sia un minimo inizio di ripresa tranne che nell'ottimismo di mestiere dei dirigenti politici.
Un'ipotetica ripresa non fermerebbe l'offensiva della borghesia contro gli sfruttati
Al di là della discussione oziosa sulla realtà di una prossima ripresa, è importante capire che, se la crisi va avanti - e a maggior ragione se una nuova crisi finanziaria si traduce con un crollo repentino della produzione - questo avrà conseguenze catastrofiche sia per la classe operaia che per tutta la società.
Ma è altrettanto importante avere presente che, anche se la ripresa cominciasse, questo non significherebbe affatto la fine dell'offensiva della borghesia contro la classe operaia.
Il grande capitale ha approfittato della crisi per aumentare a suo favore il rapporto di forze nei confronti della classe operaia.
Questo è evidente dal punto di vista materiale. La condizione operaia non ha smesso di degradarsi durante la crisi. L'aspetto più catastrofico di questo degrado è certamente la disoccupazione, che ha allontanato dall'attività produttiva una parte crescente della classe operaia, privandola di un salario regolare. Il generalizzarsi della precarietà e il degrado delle tutele sociali si aggiungono alla disoccupazione per spingere l'insieme della classe operaia sulla strada del depauperamento.
Il peso della frazione impoverita del proletariato opprime per così dire fisicamente l'insieme della classe operaia. Lo stesso carattere della crisi, che ha preso la forma di un degrado lungo e continuo, fa sì che un gran numero di lavoratori sono trasformati in disoccupati di lunga durata senza speranza di ritrovare un lavoro.
Il cambiamento del rapporto di forze tra borghesia e proletariato si riflette nel fatto che in questi anni di crisi la borghesia ha aumentato in modo considerevole la propria quota sul reddito nazionale a detrimento della classe operaia. Si riflette altrettanto, e anche di più, nel morale e nelle coscienze. Di fronte ad una borghesia trionfante, pur mentre la sua economia è in crisi, la classe operaia è demoralizzata e non crede nell'avvenire.
Questa situazione è un elemento essenziale del rapporto di forze. Di fronte al dominio del capitale sotto la sua forma più parassitaria e più abietta, quella del denaro, la classe operaia si sente disarmata.
Il grande capitale è riuscito a fare della crisi della sua economia un'arma di guerra efficiente contro la classe operaia. Ha ripreso tutto ciò che aveva dovuto concedere in passato, di fronte alle lotte della classe operaia o nel timore di nuove lotte future.
Anche in caso di ripresa economica, la borghesia non ha alcun motivo di tornare indietro su ciò che il rapporto di forze che è riuscita a stabilire le ha consentito di imporre a svantaggio del proletariato. Non ha nessun interesse politico a farlo. Ha un senso precisissimo del rapporto di forze con la classe operaia, perché la permanenza dello sfruttamento e l'ammontare dei suoi profitti ne dipendono, e questo è particolarmente chiaro in questo periodo di crisi. Infatti la finanziarizzazione dell'economia ridistribuisce le carte dal punto di vista della redditività delle varie forme del gran capitale, in primo luogo tra i piazzamenti finanziari più immediatamente redditizi degli investimenti produttivi. Ma la classe capitalista finora è uscita dalla crisi in buone condizioni, riuscendo ad aumentare il plusvalore complessivo estratto dalla classe operaia. In altri termini, se l'è cavata grazie al maggior sfruttamento di quest'ultima, un maggiore sfruttamento che si collega al rapporto di forze.
Coscienza di classe e rapporto di forze
Il rapporto di forze complessivo tra la borghesia e il proletariato è però inseparabile da elementi soggettivi, quali il livello di coscienza del proletariato e lo stato del movimento operaio organizzato che lo incarna. Ed è qui che i danni della crisi attuale dell'economia capitalista e di tutte le sue conseguenze sono i più gravi.
Certamente in questo campo il regresso della coscienza di classe del proletariato è un'evoluzione che viene da lontano; la presente crisi ha soprattutto spinto molto avanti un regresso di lunga durata. Da decenni, il riformismo socialdemocratico, ripreso e peggiorato dallo stalinismo, ha snaturato e trasformato le idee rivoluzionarie di cui il proletariato era portatore, agendo da freno e facendo dimenticare, progressivamente o brutalmente, la stessa idea della lotta di classe proletaria e le sue prospettive storiche.
Nella crisi attuale la borghesia non prova neanche il bisogno di travestire le sue preoccupazioni dietro ai discorsi moralistici e menzogneri di dirigenti che si appellano a parole al socialismo o al comunismo. Questa volta, essa impone apertamente i suoi valori presentandoli come quelli di tutta la società. La stessa espressione di “classe operaia” scompare dal dizionario per essere sostituita da “classe media”.
Uno dei segni visibili di questa evoluzione è ovviamente, in Francia, l'ascesa del Fronte nazionale. Per ora è essenzialmente elettorale. Se questa ascesa negli ambienti piccolo-borghesi costituisce una minaccia grave sia per la classe operaia che per la società, dato che favorisce la mobilitazione della piccola borghesia su una base reazionaria e antioperaia, d’altra parte per ora questa minaccia è solo potenziale, e subordinata all'evolversi della situazione generale e della crisi. Il suo aspetto più preoccupante è l'attrazione esercitata dal Fronte nazionale sulla frazione più demoralizzata e più disorientata della classe operaia.
Al contrario di quanto credono i balordi e gli estremisti di sinistra nel senso proprio del termine, questa influenza elettorale del Fronte nazionale tra i lavoratori non va combattuta con gli slogan, del tipo “il fascismo non passerà”, né facendo a botte con i militanti di estrema destra. Il problema fondamentale è la necessità che la classe operaia si ricolleghi con le sue prospettive di classe e con i valori del movimento operaio.
L'ascesa delle pratiche religiose, dell'influenza di organizzazioni politiche islamiste, il ripiegamento comunitario, esprimono al di là delle loro differenze profonde la stessa evoluzione reazionaria dell'influenza del Fronte nazionale.
Infatti non bisogna dimenticare che una parte importante della classe operaia in Francia, particolarmente nel suo nucleo più sfruttato dell'industria e dell'edilizia, è composta da lavoratori di origine maghrebina e più in generale africana.
La responsabilità degli ex partiti operai e delle burocrazie sindacali
Sta qui la grande responsabilità storica delle correnti riformiste del movimento operaio, diventate da molto tempo partiti di sinistra della borghesia. Svendendo i valori del movimento operaio, snaturandoli e svalutandoli, interrompendo la lotta contro l'ordine borghese, o peggio mettendosi apertamente al suo servizio al livello governativo, hanno assunto - e per quanto riguarda il Partito socialista, assumono oggi - la responsabilità di tutti i suoi danni, in particolare direttamente nel mondo operaio.
La penetrazione dell'influenza del FN, ma anche delle correnti islamiste reazionarie, poggia sull'indebolimento della coscienza di appartenere ad una sola e unica classe sociale, a prescindere dall'origine, dalla corporazione o dalla nazionalità. L'individualismo, il “ciascuno per sé”, hanno preso in gran parte il posto del senso dell'interesse collettivo. L'arrangiarsi individualmente ha preso il posto dell'azione e della solidarietà di classe. Il sottoproletariato e la sua influenza corruttrice sono vecchi quanto il proletariato stesso, e il movimento operaio cosciente ha sempre dovuto combatterli. Ma appunto, l'amore del denaro facile e la legge della giungla capitalista penetrano tanto più facilmente nei quartieri popolari oggi in quanto non si trovano più di fronte un movimento operaio cosciente e solido, fiero dei suoi valori e delle sue battaglie e capace di diffonderli, in particolare fra i giovani.
Questa coscienza, se ha radici obiettive nell'identità degli interessi dei proletari che hanno in comune le condizioni di sfruttamento, derivava da decenni di attività del movimento operaio cosciente. È quest'attività cosciente, volontaristica, che è stata snaturata e poi abbandonata.
Le direzioni dei grandi partiti che avevano legami storici con la classe operaia, così come le direzioni sindacali, hanno accettato e rilanciato le idee, le giustificazioni e le parole stesse della borghesia: competitività, necessità di rimborsare il debito, interesse nazionale... Questi partiti e questi sindacati non sentono più neanche il bisogno di ricorrere ad una certa fraseologia ereditata dal passato e dalla lotta di classe, per ingannare i lavoratori e nascondere il fatto che sono al servizio degli interessi della borghesia.
Per fare solo un esempio, già all'alba del movimento politico operaio, Marx avvertiva i proletari del suo tempo contro il pericolo di lasciar penetrare nella loro logica l’idea della concorrenza, concetto proprio della borghesia.
Oggi senza vergogna i partiti ex operai e i capi sindacali riprendono il concetto di competitività come un dato di fatto oggettivo e indiscutibile.
Nel programma di transizione Trotsky affermava: “l'attuale crisi della civiltà umana è la crisi della direzione del proletariato” per assegnare come compito ai comunisti rivoluzionari della sua epoca di “liberare il proletariato dalla vecchia direzione, il cui conservatorismo si trova in completa contraddizione con la catastrofica situazione del capitalismo al suo declino e costituisce il principale ostacolo al progresso storico”.
Questo programma fu steso nel 1938, in un'epoca in cui la crisi del 1929 e i suoi sviluppi avevano generato grandi convulsioni sociali, in cui si poneva obiettivamente la questione di chi infine avrebbe diretto la società, tra la borghesia e il proletariato. All'epoca la classe operaia era presente sulla scena politica con un gran numero di militanti, inquadrati ed organizzati. L'incapacità delle direzioni di condurre il proletariato fino alla fine della sua battaglia, l’errore di portare la classe operaia nell'impasse con la politica dei Fronti popolari, in Francia e più ancora in Spagna, aveva portato alla Seconda guerra imperialista mondiale.
Le esortazioni di Trotsky nel Programma di transizione non erano solo la constatazione del tradimento delle direzioni staliniste e socialdemocratiche, ma erano anche un modo di affermare la sua convinzione che la classe operaia avrebbe saputo rialzarsi.
Nella crisi attuale, la crisi delle direzioni non si limita ai dirigenti e agli apparati, ma si traduce anche con l'indebolimento dell'ambiente militante che esisteva nella classe operaia.
Ma la storia del movimento operaio ha conosciuto molti periodi più o meno lunghi in cui, tra l'altro dopo una sconfitta, la classe operaia ha saputo collettivamente rialzare la testa. Uno degli aspetti di questa ripresa di fiducia è sempre stata la capacità che ha avuto il proletariato di far riemergere nel proprio seno nuove generazioni di militanti.
Parlando del ruolo di smobilitazione criminale assunto dallo stalinismo in Germania negli anni prima dell'arrivo del nazismo al potere, Trotsky affermava: “La classe operaia tedesca si rialzerà, lo stalinismo mai.”
La classe operaia rialzerà la testa
Se la crisi continuerà, o forse ancora di più se comincerà una ripresa, la classe operaia ritroverà la sua combattività. E’ stato precisamente nel momento della ripresa che le lotte operaie sono ricominciate con vigore. E in questa ripresa di combattività un ruolo essenziale toccherà alle nuove generazioni che non hanno conosciuto le delusioni del passato.
Si vedrà in futuro intorno a quali assi s'impernierà il nuovo slancio della classe operaia, e intorno a quali idee si ritroveranno i suoi migliori elementi militanti.
Gli apparati riformisti ereditati dal passato, anche se sorpassati, partiranno sicuramente con un certo vantaggio, fosse solo a causa della loro presenza di vecchia data nel mondo operaio. Sarebbe normale che il risveglio della classe operaia passasse in un primo momento dal rilancio delle vecchie organizzazioni riformiste, forse di nuovo dipinte di rosso, e forse intorno a nuovi “salvatori supremi” che potrebbero riuscire a far scambiare vecchie idee per novità.
Se queste organizzazioni dovessero rimanere le uniche a proporre una politica per la rinascita operaia, questo porterebbe inevitabilmente a nuovi tradimenti.
Per questo è vitale, e sotto certi aspetti lo è ancor di più in questo periodo di regresso, difendere prospettive comuniste rivoluzionarie.
Per questo non si tratta di aggiungere un po' di rosso al discorso riformista, né di trovare nuovi campi di reclutamento intorno a preoccupazioni che riguardano la piccola borghesia, ma di appellarsi il più chiaramente possibile alla lotta di classe del proletariato e alla sua ultima prospettiva, che è di strappare il potere alla borghesia in modo da cambiare completamente l'organizzazione economica e sociale.
Solo la rinascita delle lotte operaie può ridare a queste idee forza e credibilità. I comunisti rivoluzionari non hanno il potere di suscitare tale rinascita, che risulterà dalla presa di coscienza individuale di centinaia di migliaia, di milioni di proletari. Ma devono cogliere tutte le occasioni politiche, e per quanto riguarda il futuro immediato e/o prevedibile, le prossime scadenze elettorali sono occasioni favorevoli per alzare la bandiera dell'emancipazione sociale.
Affermare idee comuniste rivoluzionarie è, nel periodo attuale, andare controcorrente. Nel contesto del trionfo dei valori della borghesia, della demoralizzazione e del regresso della coscienza nella classe operaia, difendere le idee comuniste rivoluzionarie significa saper affrontare l'ostilità o forse peggio, l'indifferenza.
Ma, c'è bisogno di ricordarlo? la corrente che ha mantenuto la bandiera del comunismo rivoluzionario all'epoca in cui la barbarie nazista e la reazione stalinista affondavano il mondo nella più nera delle reazioni, quando era “mezzanotte nel secolo”, lo ha fatto in condizioni ben più difficili. E il controllo staliniano sul movimento operaio, anche qui in Francia, e la caccia ai comunisti rivoluzionari, si sono prolungate ben oltre la morte di Stalin.
La realtà obiettiva ha molto più peso dell'attività dei comunisti rivoluzionari, almeno finché non c'è una svolta nello stato d'animo della classe operaia. Il regresso delle coscienze favorirà i creatori di miracoli, quelli che pretendono di scoprire nuove strade, mentre non hanno fatto altro che dimenticare quelle vecchie.
Ma questo periodo ha almeno un vantaggio che bisogna cogliere, è la visibilità che può dare anche a piccole organizzazioni. Sullo sfondo dell'apatia e del regresso dell'ambiente militante nella classe operaia, sono molto più visibili quelli che non sono demoralizzati, quelli che conservano le loro capacità militanti, e innanzitutto le loro idee e la loro fiducia nella capacità della classe operaia di trovare la strada della lotta, ma anche di ricollegarsi al suo ruolo storico.
Certamente, all'inizio non saranno seguiti. Ma il giorno in cui la classe operaia comincerà a cercare delle soluzioni, quando i primi uomini e donne, i giovani, ritroveranno la voglia di agire, i militanti che oggi sono isolati potranno essere dei punti di riferimento intorno ai quali si raccoglieranno decine e centinaia di altri.
Nessuno può prevedere quando e come si produrrà una situazione di questo tipo, e come marxisti abbiamo la profonda convinzione che il comunismo rivoluzionario è “l'espressione cosciente di un processo incosciente”. Se il proletariato sarà capace di riprendere autonomamente le idee di lotta di classe e se è l'unico che le possa spingere fino in fondo, cioè fino al rovesciamento del potere della borghesia, è perché queste idee scaturiscono dal movimento stesso della società, dal movimento stesso della storia. Prima o poi trionferanno.
19 settembre 2013