Da quasi trent'anni nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) imperversa una guerra, praticamente nel silenzio dei media. Tra 6,5 e i 10 milioni di persone sono state uccise e più di 7 milioni sfollate. C'è voluto il gesto dei giocatori della nazionale della RDC alla Coppa d'Africa del 2024, che hanno messo una mano a mo'di revolver alla tempia e l'altra davanti alla bocca, perché questo caos sanguinoso e il silenzio delle grandi potenze venissero in qualche modo denunciati.
A 3.000 chilometri dalla capitale Kinshasa, l'est della RDC è devastato da quasi 200 bande armate. Alcune sono guidate da signori della guerra congolesi, altre sono legate ai vicini Ruanda, Uganda e Burundi. Queste milizie vivono estorcendo denaro ai piccoli agricoltori che tagliano legno pregiato o producono cacao e sfruttando centinaia di migliaia di “scavatori di minerali”. Due delle province principali, il Nord e il Sud Kivu, posseggono le più grandi riserve al mondo di coltan, minerale di tantalio, oltre a depositi di stagno e tungsteno. Si tratta di metalli essenziali per l'industria elettronica, degli armamenti, per quella automobilistica e aerospaziale. Anche il Kivu e l'Ituri, più a nord, abbondano di oro.
Queste guerre in corso, con la loro scia di atrocità, stupri e mutilazioni sessuali usate come armi da guerra, hanno cause, una storia e dei responsabili. Chiaramente questi sono i dirigenti delle grandi potenze imperialiste. Parlano del “male congolese” o della “maledizione africana” e osano dichiarare, come Macron nel marzo 2023 a Kinshasa: “Non siete stati in grado di ripristinare la sovranità, né militare né quella di sicurezza. Non occorre cercare i colpevoli fuori dal Paese”. Queste dichiarazioni ciniche e fuorvianti mirano a nascondere la responsabilità delle grandi potenze per guerre che sono il prodotto di decenni dei loro saccheggi e rivalità.
Le bombe a orologeria della politica coloniale
Queste rivalità risalgono alla spartizione coloniale del 1885 a Berlino. Il Congo Leopoldville, la futura RDC, è una regione vasta quanto l'Europa occidentale, situata nel bacino del fiume Congo., Inizialmente era una colonia, proprietà personale del re belga Leopoldo secondo, fondata senza alcun rispetto per le popolazioni, le lingue e i costumi. La Gran Bretagna mise le mani sull'Uganda; la Germania colonizzò il Ruanda e il Burundi, che furono ripresi al Belgio nel 1918. Dividendo per imperare, le potenze coloniali fissarono i limiti dei gruppi umani che chiamarono etnie. In Ruanda, i colonizzatori favorirono le élite tutsi. Nel vicino Congo, invece, destituirono i capi tutsi tradizionali di origine ruandese che consideravano ribelli. Inoltre, dislocarono le persone in base ai bisogni di manodopera. Nel 1937, l'amministrazione coloniale belga creò la Missione di Immigrazione dei Banyaruanda, che deportò i Tutsi dal Ruanda verso regioni congolesi. Anche gli hutu ruandesi furono trasferiti a lavorare nelle miniere d'oro del Kivu e in quelle di rame del Katanga. Utilizzando le divisioni etniche, i colonizzatori belgi, come gli inglesi e i francesi nei loro rispettivi imperi, hanno innescato le bombe a orologeria che stanno esplodendo ancora oggi.
Nel 1960, quando il Belgio concesse l'indipendenza al Congo, l'unità del Paese era estremamente fragile. Nulla nel passato coloniale aveva creato legami solidi tra le diverse regioni di questo immenso Paese. L'economia era stata costruita interamente per i bisogni della metropoli. Non esisteva una solida borghesia nazionale e nemmeno una classe dirigente unificata. Appena indipendente, lo Stato congolese fu soggetto a forti pressioni separatiste. Ogni clan politico, legato a una provincia, difendeva il proprio accesso alle ricchezze del Paese e dietro ognuno di essi c'era una grande potenza. Dal 1960 al 1963, i belgi e i francesi sostennero la secessione del Katanga, una regione ricca di rame e cobalto. Ma gli Stati Uniti non approvavano la disgregazione del Paese, che non solo avrebbe potuto avvantaggiare i suoi concorrenti meno potenti, ma anche destabilizzare l'intera regione e favorire l'influenza sovietica. Nel 1963, con copertura dell’ONU, gli Stati Uniti intervennero militarmente per portare al potere il colonnello Mobutu Sese Seko, contro la secessione katanghese ma anche contro i movimenti di ribellione e guerriglia che stavano scuotendo il Congo. I leader che, agli occhi della popolazione, incarnavano una politica anti-imperialista furono sistematicamente combattuti e persino assassinati, come Patrice Lumumba, il principale dirigente congolese, che fu ucciso il 17 gennaio 1961 da mercenari katanghesi, francesi e belgi, con il beneplacito della CIA., Patrice Lumumba è ricordato fino ai giorni nostri come un simbolo della lotta contro l'imperialismo, in Congo e non solo in questo paese, fino ai giorni nostri.
Nel Congo indipendente nacquero guerriglie più o meno marxiste, come quella di Laurent-Désiré Kabila, che si sarebbe affermato trent'anni dopo. Kabila accolse nel suo maquis Che Guevara, che arrivò con 150 istruttori cubani. Questo periodo vide anche il risveglio politico degli operai, come i minatori descritti ne L'oro del Maniéma di Jean Ziegler, politicizzati in questo romanzo da militanti profughi dal Portogallo. Ma la combattività di questi lavoratori fu inquadrata e sviata da questi guerriglieri, che si dichiaravano marxisti per ottenere l'appoggio dell'URSS, ma che, in realtà, difendevano il loro apparato e i loro capi, in rivalità con il potere centrale sostenuto dall'imperialismo.
Per 32 anni, il regime dittatoriale di Mobutu ha compiuto un ampio saccheggio delle ricchezze del Paese, provocando il deterioramento di tutte le infrastrutture, dai pochi servizi pubblici alle imprese industriali e minerarie. Questo saccheggio poteva permanere solo con il costante sostegno militare, finanziario e politico delle grandi potenze, per le quali Mobutu era il leader più fedele della regione. A partire dagli anni '80, con il crollo del prezzo delle materie prime, la situazione economica divenne catastrofica. I piani di aggiustamento strutturale imposti dal FMI e dalla Banca Mondiale causarono la fine delle poche scuole, degli ospedali e delle cliniche rimaste.
Il caos nella RDC, prodotto delle rivalità imperialiste
Negli anni 1990, il regime di Mobutu era ormai esausto. La crisi economica stava accentuando le divisioni e le forze centrifughe. L'esercito nazionale non aveva i mezzi per fornirsi e per pagare i soldati. Nell'est del Paese, i politici si servivano delle rivalità etniche per rafforzare il loro potere locale e arricchirsi organizzando le proprie truppe. Già nel 1993, nel Nord Kivu, la demagogia dei politici portò a pogrom anti-tutsi, causando 7.000 morti e 250.000 sfollati. Ma a far piombare la regione nella guerra fu il genocidio in Ruanda nel 1994, organizzato dal regime hutu e sostenuto dalla Francia. Gli eserciti genocidari, sconfitti da quello di Paul Kagamé appoggiato dagli Stati Uniti, fuggirono sotto la protezione dell'esercito francese, che aveva sequestrato le loro armi che, poi, furono restituite. Per questa ragione la Francia è direttamente responsabile del caos nella parte orientale della RDC. Lo scorso aprile, in occasione dell'anniversario del genocidio dei Tutsi in Ruanda, Macron ha dichiarato che la Francia “avrebbe potuto fermare il genocidio con i suoi alleati occidentali e africani, ma non ha avuto la volontà di farlo”. Questa è pura ipocrisia, perché la Francia ha volontariamente armato e protetto le milizie genocidarie. Queste si sono rifugiate poi nel Congo orientale, utilizzando 1,5 milioni di rifugiati hutu come massa di manovra e creando il Fronte democratico di liberazione del Ruanda (FDLR), una forza di 100.000 uomini che osteggiava la popolazione tutsi congolese. In risposta agli abusi delle FDLR, si formarono milizie a maggioranza tutsi. L'attuale M23, che con il sostegno del Ruanda è diventato un vero e proprio esercito, ha origini lontane da queste milizie.
Quindi il caos sanguinoso in Ruanda si è esteso al Congo. Questa conflagrazione coincideva con l'agonia del regime di Mobutu. Anche il settore minerario era in caduta libera, mentre l'enorme sviluppo dell'elettronica acuiva le rivalità per il controllo dei minerali. Così, nel 1997, gli Stati Uniti abbandonarono Mobutu e si affidarono al suo vecchio rivale Laurent-Désiré Kabila. Dalla sua roccaforte a est e con il sostegno degli eserciti ruandese e ugandese e degli Stati Uniti, Kabila rovesciò Mobutu, il cui esercito era al collasso. Durante questa prima guerra congolese, i capitalisti legati all'imperialismo anglo-americano firmarono contratti minerari dai quali trassero solidi profitti Kabila e gli uomini d'affari che lo circondavano. In questa lotta, i gruppi francesi furono messi fuori gioco poiché la Francia aveva sostenuto Mobutu fino alla fine.
Ma gli appetiti stuzzicati dalle ricchezze minerarie congolese si inasprirono. Kabila si ribellò contro i suoi ex alleati ruandesi e ugandesi. Dal 1998 al 2003, una nuova guerra per il controllo di diamanti, rame e cobalto devastò la maggior parte del Paese. La zona orientale fu occupata dalle truppe ruandesi e ugandesi. Fino a dodici Paesi africani furono coinvolti in questa “guerra mondiale africana”. Ma non tutti gli attori di questa guerra totale avevano lo stesso grado di responsabilità: i piccoli signori della guerra, e prima di loro le truppe congolesi e straniere, erano effettivamente responsabili di atrocità e violenze senza fine. Ma, soprattutto le grandi potenze erano le vere colpevoli di questo disastro. Per tutelare gli interessi dei loro industriali per l'accesso alle risorse, per difendere la loro influenza dai rivali, gli imperialisti sostenevano questo o quel gruppo armato. Producevano e facevano consegnare a mercenari e trafficanti l'equipaggiamento militare che devastava la regione. No, la barbarie non è un difetto congenito della RDC e dell'Africa: è un prodotto delle esportazioni imperialiste, proprio come i fucili d'assalto e i lanciarazzi.
Scontri senza fine, prodotti di un'economia predatoria
Nel 2003 ci furono i cosiddetti accordi di pace, ma nella parte orientale della RDC la guerra non è mai cessata. Oggi la popolazione è ancora stretta tra una moltitudine di bande armate. Alcune sono piccole e controllano una miniera artigianale o un villaggio e i suoi terreni agricoli. Possono essere nate da gruppi di autodifesa come i wazalendo (“patrioti” in lingua kiswahili), che l'attuale presidente congolese, Félix Tshisekedi, ha recentemente integrato nelle forze armate della RDC (FARDC). Altre sono più nutrite, come l'M23, che è sostenuto dal Ruanda e comprende soldati ruandesi, o le Forze Democratiche Alleate (ADF), un gruppo di guerriglieri che si oppone al regime ugandese e ora è affiliato all’organizzazione Stato Islamico. Il Kivu e l'Ituri, nel nord-est della RDC, fungono da rifugi sicuri per i gruppi armati che si oppongono ai regimi dei Paesi della regione. Tutti sostengono di difendere la libertà, la democrazia e il popolo, ma non sono altro che apparati militari che aspirano a prendere il potere e a instaurare le proprie dittature.
Alleanze e contro alleanze tra queste milizie ed eserciti regionali cambiano continuamente mentre saccheggiano i minerali che alimentano l'economia capitalista. Non c'è unità nell'est del Paese, dove lo Stato centrale è impotente, e non c'è un interesse comune duraturo tra questi signori della guerra, congolesi o stranieri. Tutti vogliono solo la loro parte di bottino, con alleanze mutevoli e scontri senza fine. Ma in conclusione, tutti si sottomettono all'imperialismo perché il loro potere è fragile, frutto di un'economia di predazione.
Lo stesso potere del presidente Tshisekedi, rieletto lo scorso dicembre, rimane un castello di carte, tenuto insieme solo dal favore delle grandi potenze. Nell'aprile 2024 è stato ricevuto a Parigi da Macron e Joe Biden ha inviato un rappresentante speciale alla sua investitura a Kinshasa. Nel caos delle alleanze instabili, Tshisekedi non fa eccezione. Fino al novembre 2021, era un alleato del presidente ruandese e i due Stati avevano firmato un accordo per la lavorazione del minerale della Società aurifera del Kivu et del Maniéma da parte di una raffineria ruandese. Kagamé e Tshisekedi avevano dichiarato di essere “fratelli”. La compania Rwandair volava a Kinshasa e in altre grandi città della RDC. Ma questa luna di miele è stata interrotta dalle rivalità tra Ruanda e Uganda. Nel novembre 2021, la RDC firmò un accordo militare con l'Uganda e contratti per infrastrutture, tra cui una strada tra Goma, la capitale del Nord Kivu, e Béni, una città di un milione di abitanti nel nord della provincia. L'accordo prevedeva che i lavori fossero protetti dall'esercito ugandese: una sfida al ruolo del Ruanda nella regione, dove il controllo delle strade è fondamentale. È attraverso questa rete che gli uomini d'affari importano beni di consumo e armi ed esportano cacao e minerali. Poco dopo questo accordo, il conflitto nel Nord Kivu subì una brusca accelerazione con l'offensiva dell'M23, sostenuta dal Ruanda. Le tensioni con la RDC diventarono esplosive e si inasprirono quando ciascuna delle due parti puntò sul nazionalismo per ottenere il sostegno della popolazione. Nel dicembre 2023, durante le elezioni presidenziali nella RDC, Félix Tshisekedi paragonò Kagamé a Hitler, accusandolo di voler mettere le mani sull'est della RDC. Kagamé negò qualsiasi coinvolgimento, anche se i soldati ruandesi combattono nell'M23.
Ma non è l'unica milizia, tutt'altro. Ci sono anche molte “compagnie militari private”, un eufemismo per indicare bande di mercenari. Wagner non è presente nella RDC, ma ci sono agenti legati alla Francia. A Goma, la capitale del Nord Kivu, ex membri della Legione straniera francese operano a fianco di loschi uomini d'affari, come un certo Olivier Bazin, alias “Colonnello Mario”, mercante di attrezzature militari. La sua società militare privata, Agemira, ha firmato un contratto con l'esercito congolese per la manutenzione dei suoi aerei ed elicotteri, effettuata da una quarantina di ex soldati bielorussi e georgiani. Come molti Stati post-indipendenza, lo Stato congolese sta collassando, cedendo il potere a gruppi di mercenari che si vendono al miglior offerente per proteggere il saccheggio delle risorse naturali della RDC.
Il saccheggio dei minerali
In tutto questo caos, l'estrazione di minerali non si è mai interrotta e alimenta direttamente i combattimenti e lo sfollamento mortale delle popolazioni. Il principale minerale è il coltan, da cui si estrae il tantalio, un metallo essenziale per molti prodotti moderni, tra cui impianti e strumenti chirurgici, condensatori e apparecchiature elettroniche e leghe speciali utilizzate nell'aeronautica civile e militare. Si stima che la RDC possieda dal 60% all'80% delle riserve mondiali di coltan, con il 44% della produzione globale nel 2019, cioè circa 2.000 tonnellate. La maggior parte di queste miniere sono considerate artigianali, come quella di Rubaya nel Nord Kivu, che produce il 15% del coltan mondiale.
Per sfruttare le miniere, il Ministero delle Miniere congolese vende concessioni alle compagnie. A differenza dell'estrazione di rame e cobalto nel Katanga, dominata dalla svizzera Glencore, dal gruppo belga-congolese Georges Forrest e da grandi aziende statali cinesi, le società coinvolte nell'estrazione del coltan sono più piccole. Il capitale richiesto è limitato, poiché l'estrazione viene effettuata con mezzi irrisori, utilizzando solo la forza muscolare dei minatori, che scavano come galeotti con una vanga e un piede di porco. Le società che gestiscono le concessioni cambiano spesso e sono molto poco trasparenti, così come quelle che poi esportano il minerale attraverso Ruanda, Burundi o Uganda. Attualmente due società dominano l'esportazione del coltan estratto dalla RDC, tra cui la CDMC, presieduta da un industriale britannico di nome John Crowley, in affari con un broker svizzero, Chris Huber. I minerali vengono inviati in Ruanda o in Uganda via terra, in piroga attraverso i laghi della regione o in aereo. Le strade percorribili sono poche, ma ci sono molti piccoli campi d'aviazione privati. Poi i minerali vengono spediti ai principali porti della costa orientale dell'Africa, come Dar-es-Salam in Tanzania, e alle fonderie in Thailandia, Malesia e Cina. Infine, i metalli raggiungono i giganti dell'industria elettronica, aeronautica e degli armamenti in Nord America, Europa e Giappone, nelle linee di produzione di Apple, Intel, Samsung, Motorola, Thales, Dassault, ecc. Sono loro che succhiano le ricchezze estratte dai minatori della RDC, con i loro miseri mezzi, per alimentare produzioni ad alta tecnologia.
La barbarie sotto le etichette di garanzia
Ufficialmente, i metalli estratti nelle regioni devastate dalla guerra in RDC sono soggetti a un divieto di esportazione. I rappresentanti delle grandi aziende occidentali affermano di avere la garanzia che il tantalio o lo stagno che utilizzano non provengono da “minerali di sangue”. Ma come possiamo crederci? Basandoci su belle etichette di garanzia che presumibilmente attestano che i minerali non provengono da aree controllate da bande armate? Ma la certificazione viene effettuata dagli stessi esportatori, questo spiega una battuta ricorrente nel settore minerario: “I lupi fanno la guardia all'ovile”. I capitalisti dello stagno e del coltan distribuiscono tangenti ai funzionari del Ministero delle Miniere congolese per ottenere il giusto timbro di approvazione. Questi dipendenti pubblici spesso non hanno scelta, sono pagati 1 dollaro al giorno, devono mantenere le loro famiglie, e chi si oppone subisce gli abusi della banda armata che lavora per l'azienda titolare della concessione.
Le condizioni di lavoro dei 240.000 minatori che estraggono coltan, stagno e tungsteno sono disumane. I reportage, spesso commoventi, mostrano la vita di questi minatori, che scavano con ciotole le gallerie nelle pareti delle montagne del Kivu, e delle donne e dei bambini che entrano nelle cavità per estrarre blocchi di coltan sotto la costante minaccia di una frana. L'estrazione mineraria è feroce. Le società concessionarie cercano di abbassare il prezzo del minerale pagato ai minatori e a volte scoppia la rabbia. Così nel 2019 e nel 2020, i minatori di Masisi, nel Nord Kivu, si sono scontrati con la polizia mineraria, impiegata dalle società concessionarie che non pagavano mai in tempo.
Dal 2012, anche la produzione di oro nella parte orientale della RDC è in aumento. La maggior parte delle miniere sono su artigianali, controllate da bande armate. Ma ci sono anche miniere industriali, come quella di Kibali, nella provincia settentrionale dell'Ituri. Si tratta di una delle più grandi miniere d'oro del mondo, controllata dalla società sudafricana AngloGold e dalla canadese BarrickGold, il cui funzionamento è subappaltato a una filiale del gruppo francese Bouygues. Questi lavoratori sono in una situazione un po' migliore, ma appartengono alla stessa classe operaia dei minatori delle cosiddette miniere artigianali. Spesso sono gli stessi lavoratori che passano da una regione all'altra, da una miniera all'altra, controllate talvolta da un signore della guerra, a volte da capitalisti occidentali, a seconda degli scontri e del lavoro disponibile. Ma gli scoppi di rabbia nei siti minerari, industriali e artigianali dimostrano che, come ovunque, i lavoratori del Congo non si sentono solo vittime inermi dello sfruttamento. Grazie al loro lavoro e al loro ruolo indispensabile, possono anche trovare la forza di difendersi.
Una classe operaia di cui dipende il futuro
Di fronte all'orrore della situazione, commentatori e ONG propendono per una migliore certificazione dei minerali esportati. Sarà assolutamente falso, finché saranno le autorità e le aziende private a effettuare questo cosiddetto controllo, e non i lavoratori stessi. Altri spiegano che si dovrebbero boicottare i prodotti contenenti coltan o altri metalli rari. Ma il tantalio è essenziale per le apparecchiature mediche e per le installazioni elettroniche vitali. Infine, i leader delle grandi potenze hanno sostenuto che l'intervento delle Nazioni Unite avrebbe stabilizzato la situazione. Ma non è così e oggi la Missione delle Nazioni Unite in Congo (MONUSCO) sta per ritirarsi. Ancora più grave è che alcuni dei suoi ufficiali sono stati coinvolti nel traffico di armi.
Nella RDC, come in tutti i Paesi dominati dall'imperialismo, nulla di buono può derivare dall’ONU né dalle grandi potenze, che sono le prime responsabili. Niente di positivo può provenire dai politici del Paese, che sono soprattutto interessati alla posizione che dà accesso alle briciole del bottino lasciate loro dai capitalisti occidentali. Gli Stati post-indipendenza sono in fase di collasso, dimostrando che sotto il capitalismo non c'è speranza di sviluppo, nemmeno in un Paese vasto e ricco di risorse naturali come la RDC. È stato il capitalismo a trasformare la RDC orientale in un pantano sanguinoso che alimenta le fortune dei miliardari americani ed europei. Questo caos non è un problema congolese, ma la dimostrazione che il capitalismo odierno non ha altro da offrire che sottosviluppo e violenza diffusa ai Paesi dominati dall'imperialismo.
Ma, come in ogni altro luogo del pianeta, anche nella RDC vive una classe operaia senza la quale la società non esisterebbe, e l'economia non funzionerebbe. La speranza può venire solo da questa popolazione lavoratrice. È costituita dai lavoratori delle miniere, dai tantissimi piccoli trasportatori che con camion o semplici biciclette distribuiscono i beni di prima necessità alla popolazione, dai piccoli agricoltori che producono cacao, dai boscaioli sfruttati dai signori della guerra, dai piccoli venditori ambulanti, dagli scavatori.
Dall'altra parte del confine, in Uganda o in Burundi, la vita non è affatto più facile per i lavoratori, che devono fare i conti con l'alto costo della vita e la violenza delle autorità e della loro polizia. Le atrocità commesse da milizie come l'M23 e la retorica nazionalista dei politici alimentano le tensioni etniche. Anche questo è un modo per mettere l'uno contro l'altro i poveri, una demagogia che spiana la strada a nuovi massacri.
Non c'è alcuna inevitabilità. Se la rivolta dovesse scoppiare, potrebbe diffondersi per contagio, perché ci sono legami tra tutti questi lavoratori. In Africa orientale, in Uganda, Tanzania, Kenya e fino a Mayotte, ci sono molti rifugiati provenienti dall'est della RDC. Una piccola minoranza riesce a raggiungere i paesi ricchi dell'Europa e degli Stati Uniti, dove va a ingrossare le file della classe operaia. Attraverso le catene di approvvigionamento dell'industria capitalista, tutti sono legati dallo sfruttamento. Solo i lavoratori possono rimettere la società in piedi, perché sono quelli che producono ovunque sul pianeta, dalle miniere di coltan alle fabbriche di elettronica high-tech dei Paesi ricchi, passando per le fonderie del Sud-Est asiatico. Il caos che si sta diffondendo nel continente africano e in altre parti del pianeta ha le sue radici nel dominio delle grandi potenze. La prossima rivoluzione operaia potrà anche cominciare in una miniera della RDC, ma vincerà solo se si diffonderà ovunque e rovescerà l'intero ordine imperialista. Unicamente la classe operaia può condurre questa lotta fino in fondo, nei Paesi dominati dall'imperialismo come nelle sue roccaforti.
18 giugno 2024 - Da "Lutte de Classe" n°241 – Luglio-Agosto 2024