Per porre fine al caos capitalista, rivoluzione per rovesciare la borghesia fallita!

Da "Lutte de Classe" n°236Dicembre 2023 – Gennaio 2024

Questo testo è stato votato dal 53° Congresso di Lutte ouvrière, il 3 dicembre 2023

* * * * * * * *

Quello che sta accadendo ora, non è più, o non solo, una delle crisi economiche che fanno parte delle oscillazioni più o meno naturali dell'economia capitalista, e ne costituiscono addirittura l'unica regolazione interna. È una crisi profonda del capitalismo, testimonianza della sua putrefazione e, quindi, dell’incapacità della classe privilegiata di mantenere il controllo sulla società che domina.

Dopo 18 mesi di conflitto in Ucraina e altri nei territori dal Caucaso all’Africa, la guerra sta divampando di nuovo nel Medio Oriente, dove il fuoco cova sotto la cenere da circa ottant’anni. Terreno di scontro per le potenze imperialiste per le sue risorse petrolifere e per la sua importanza strategica su una delle rotte più importanti del commercio internazionale, la regione è, allo stesso tempo, una vera polveriera sociale. In quei luoghi la ricchezza individuale più inverosimile convive con la povertà della stragrande maggioranza della popolazione. Si concentrano anche tutte le contraddizioni dell’imperialismo e la quintessenza della sua politica: mettere i popoli gli uni contro gli altri, con la complicità delle classi privilegiate locali e dei loro dirigenti nazionalisti.

Il periodo attuale ha molti tratti in comune con quello che ispirò il Programma di Transizione di Trotsky. Affermava: “La borghesia stessa non vede alcuna via d’uscita” e “tutti i partiti tradizionali del capitale si trovano in una situazione di disordine che sconfina, a volte, nella paralisi della volontà”.

Oggi, i più cinici o i più lucidi portavoce della borghesia, in fondo, esprimono lo stesso sgomento. Un uomo di nome Yeo Han-ku, ex ministro del Commercio sudcoreano, dopo aver osservato che “si sta delineando un nuovo ordine economico”, afferma che “questo porterà all’incertezza e all’imprevedibilità”.

Nel suo appello agli investitori di Tesla, Elon Musk di fronte alle incertezze ha proposto la sua soluzione: “La cosa migliore che possiamo fare è avere fabbriche in molte parti del mondo ». A questa constatazione dell’imprevedibilità della situazione mondiale si aggiunge il cinismo stravagante di un ultra-ricco che non si è nemmeno chiesto se la sua soluzione sarebbe attuabile dai suoi colleghi capitalisti un po' meno ricchi di lui...

La borghesia incassa il profitto ricavato dallo sfruttamento ma non ha alcun controllo su nulla, “non vede via d’uscita” e gestisce la società giorno per giorno. Già in tempi normali la società capitalista in età senile è minata da profonde contraddizioni, ma quanto più lunga e profonda è la crisi tanto più queste aumentano, anche tra gli aspetti economici dell’imperialismo e quelli militari. Colpisce vedere fino a che punto le potenze imperialiste, e in particolare gli Stati Uniti, siano profondamente contraddittorie riguardo alle loro relazioni con la Cina. Proprio nel momento in cui le navi da guerra americane costeggiano le coste cinesi e la guerra tra le due maggiori potenze militari del pianeta diventa una possibilità, il ministro del Commercio americano si reca a Pechino per dichiarare che è “estremamente importante” che gli Stati Uniti e la Cina abbiano “relazioni pacifiche”.

Il carattere contraddittorio dello sviluppo capitalistico certamente non è una novità. Così veniva sottolineato un secolo e mezzo fa nel Programma socialista di Kautsky: “Il modo di produzione capitalistico dà origine alle più strane contraddizioni. […] Il commercio ha bisogno della pace, ma la concorrenza crea la guerra. Se in ogni paese i singoli capitalisti e le singole classi si trovano in uno stato permanente di ostilità, lo stesso avviene tra i capitalisti e le classi capitaliste delle diverse nazioni. Ogni popolo si sforza di espandere il mercato dei propri prodotti e di spodestare i propri rivali. Man mano che il commercio internazionale si espande e la pace universale diventa più necessaria, la concorrenza diventa più selvaggia e i pericoli di conflitto tra le nazioni aumentano. Più le relazioni internazionali diventano strette, più fortemente chiediamo l’isolamento. Quanto più forte è il bisogno di pace, tanto maggiore è la minaccia della guerra. Queste contraddizioni, in apparenza assurde, corrispondono perfettamente al carattere del modo di produzione capitalistico. Esse sono già in germe nella produzione di merci semplici. Ma è proprio la produzione capitalistica a conferire loro proporzioni gigantesche e un carattere insopportabile. Trova scuse alle tendenze bellicose e rende indispensabile la pace: questa è solo una delle tante contraddizioni che ne causeranno la fine.”

La fase imperialista dello sviluppo capitalistico ha moltiplicato e amplificato queste contraddizioni a cui la crescente finanziarizzazione dell’economia mondiale ha dato, per diversi decenni, un’instabilità permanente.

In questo contesto di crisi e guerre aggravate, è importante che la nostra organizzazione metta al centro dei suoi interventi l'obiettivo fondamentale della corrente comunista rivoluzionaria del movimento operaio: il rovesciamento dell'organizzazione capitalista della società attraverso la rivoluzione proletaria. Solo in questa prospettiva il Programma di Transizione e le sue diverse rivendicazioni in relazione alla disoccupazione, all’aumento del costo della vita, ma anche riguardo alla guerra imminente, hanno un significato rivoluzionario. Altrimenti sarebbe solo sindacalismo riformista o pacifismo volgare.

Questa è un'attività di propaganda, non di agitazione. Il suo scopo non è quello di sollecitare una lotta imminente, necessaria per cambiare gli equilibri di potere con i padroni e il loro governo. Ancor di più, le nostre non sono ricette tattiche per lotte che sarebbero imminenti. Dobbiamo svolgere costantemente un’attività di propaganda, e questo è necessario in particolare quando la crisi del capitalismo attraversa una fase così acuta e percepibile come quella attuale.

Le lotte massicce ed esplosive non dipenderanno da noi, ma dall’energia, dalla combattività della stessa classe operaia. Dobbiamo essere attenti allo stato d'animo dei lavoratori; i nostri compagni devono essere sufficientemente esperti e collegati alla nostra classe per sapere che una rivoluzione può iniziare anche da cose di poca importanza come i vermi nella carne servita ai marinai della corazzata Potemkin, ma non saranno i nostri discorsi a smuovere le acque! I ragionamenti sulle lotte non devono sostituire la propaganda rivoluzionaria che dipende da noi. Ne derivano tanti compiti: reclutare, convincere chi ci circonda, conquistare sostenitori e altro. In breve: si tratta di costruire il partito comunista rivoluzionario senza il quale restano solo discorsi vuoti.

A che punto è la guerra in Ucraina?

Dopo 20 mesi di scontri, né la Russia né l’Ucraina, nonostante il sostegno della NATO sotto forma di armi, mezzi finanziari, diplomatici, ecc., sembrano essere in grado di avere la meglio nel prossimo periodo. Quando ha deciso di cominciare la guerra in reazione alle pressioni imperialiste, Putin è stato il primo a illudersi scommettendo che Kiev sarebbe caduta molto rapidamente. Ed ecco il risultato!

Poi abbiamo visto che la stampa, la televisione e altri mezzi di comunicazione di tutti i paesi della NATO sono intervenuti parlando della controffensiva ucraina in termini trionfalistici, ma anche questa era pura propaganda! In realtà, dalla fine dell’inverno 2023 la linea del fronte è rimasta bloccata quasi nello stesso punto, e alla notizia di una cittadina conquistata dall’esercito ucraino subentra quella della riconquista della stessa cittadina, o di un’altra, da parte dell’esercito russo…

Dopo diversi mesi, la linea del fronte si è chiaramente stabilizzata in Ucraina, senza che la coalizione imperialista mostri alcuna disponibilità immediata ad utilizzare mezzi atti a trasformare la guerra in corso nel primo atto di un'imminente terza guerra mondiale. Una “soluzione in stile coreano” discussa nei circoli dominanti degli Stati Uniti potrebbe porre fine alla guerra decidendo un armistizio, ma senza firmare un trattato di pace. Avrebbe il vantaggio per la NATO di preservare una fonte di tensioni e di proseguire il “contenimento” della Russia, lasciando che Putin rivendichi la vittoria.

Ovviamente si conosce il peso di coloro che propongono questo tipo di soluzione, ma, nel caso della Corea, essa vige dal 27 luglio 1953, ovvero 70 anni! Va ricordato che la stessa “soluzione” fu la forma giuridica con cui la Germania rimase divisa in due blocchi dall’ottobre 1949 fino al novembre 1989, cioè per 40 anni. Il muro di Berlino, i campi minati che tagliavano in due la Germania ed altre cose eccezionali furono presentate in quel momento come conseguenze della Guerra Fredda. Ma si vede che l’imperialismo non ha bisogno di questa per reinventare le stesse soluzioni...

Il peggioramento della crisi dell'economia capitalista

La guerra stessa e le sanzioni economiche non hanno migliorato la situazione economica generale. Ma bisogna capire che se il caos economico-militare comporta altre perturbazioni ai circuiti economici, per quanto riguarda le classi sociali le cose sono estremamente semplici: da un lato si vede l’impoverimento delle classi sfruttate, differente a secondo della situazione nei vari paesi, in guerra o no, colpiti da carestia o no, in preda all’anarchia istituzionale… Ma dall’altro lato, per la borghesia imperialista tutto va molto bene. Si stanno facendo fortune, e non solo tra i trafficanti di armi.

Anche le statistiche del CEPII (Centro per gli studi prospettici e l’informazione internazionale), tratte da documenti ufficiali del FMI, notano: “Abbiamo assistito a un calo brutale e senza precedenti dei salari reali del 3,2% nell’eurozona tra il 2020 e il 2022, e del 1,4% negli Stati Uniti”. Poi riscontrano che l'improvvisa impennata dell'inflazione non è dovuta ai salari, ma ai dividendi, un’osservazione sottolineata anche da Les Échos.

Mentre le vittime della guerra in Ucraina si contano a centinaia di migliaia e intere città vengono rase al suolo dalle bombe, mentre crescono i flussi di profughi provenienti da paesi poveri e/o dilaniati dalla guerra, il sistema capitalista continua a funzionare “come al solito”.

Nuove fortune si stanno costruendo sotto i nostri occhi, come quella del nuovo riccone ceco Kretinsky, che si è arricchito con le centrali a carbone per lanciarsi nell'acquisizione di catene commerciali, come la Casino, non solo in Francia ma anche in diversi Paesi europei. Ha un patrimonio di 9 miliardi di euro secondo la rivista Forbes, ma anche "un'isola alle Maldive, due yacht, un castello e una sede francese situata di fronte all'Eliseo", secondo Le Canard enchainé.

Concentrazione del capitale

In diversi settori economici si stanno rimescolando le carte tra le grandi aziende. Poiché la cosiddetta crisi di “sovrapproduzione” colpisce soprattutto la produzione manifatturiera, non sorprende che sia proprio nel settore dei servizi logistici che si stanno verificando le concentrazioni più spettacolari. Un oligopolio di tre compagnie di trasporto marittimo, in particolare di container, CMA CGM, MSC, MAERSK, sta per mettere le mani non solo sul trasporto strettamente marittimo (porti, banchine, barche, container), ma, allo stesso tempo, anche sui trasporti terrestri in Africa.

Il trust italo-svizzero MSC, la prima compagnia di navigazione al mondo, ha appena stanziato 5,7 miliardi di euro per l'acquisto delle attività logistiche africane del gruppo Bolloré, liberandosi al tempo stesso di un concorrente ben radicato in Africa.

Nel loro ragionamento i capi e gli azionisti di questo fondo fiduciario sono dovuti partire da questa constatazione descritta da Le Monde (29 agosto 2023): “Nei vistosi centri commerciali di Abidjan o Nairobi, gli ipermercati dagli scaffali impeccabili offrono decine di referenze contrassegnate con origine occidentale o degli Emirati”. L’obiettivo, secondo un rappresentante di uno dei tre trust, è di poter trasportare facilmente un prodotto da Amsterdam fino a Ouagadugù.

Per quanto povera sia la stragrande maggioranza della popolazione africana, con l’aiuto della corruzione e del nepotismo esiste una piccola minoranza che può pagare, e non solo la famiglia Bongo!

Il procedimento che consiste nel passare dalla logistica per mettere le mani su un intero settore economico non è nuovo nella storia delle grandi aziende capitaliste. Fu utilizzato all'inizio dell'era imperialista da un Rockefeller che, per mettere le mani sulla produzione petrolifera, non si era fermato ad acquisire i numerosi pozzi petroliferi che, all'inizio del XX secolo, punteggiavano il Texas e la Pennsylvania. Al contrario, fu attraverso il trasporto tramite vagoni cisterna, poi tramite oleodotti, che costruì il primo e più potente consorzio petrolifero, da cui è emersa in particolare la società Exxon...

Ma la novità in ciò che Le Monde chiama “gli armatori alla conquista dell’Africa” è che l’oligopolio MSC – MAERSK – CMA CGM sta riproducendo nel continente più povero quello che Rockefeller fece all’inizio dell’era imperialista sul suolo americano. Derivano, così, tutta una serie di conseguenze, come quella di mescolare le tecniche più moderne con l'arretratezza delle infrastrutture africane.

Da un lato, ad esempio, la CMA CGM ha acquisito una partecipazione nell'operatore Eutelsat, affinché i satelliti di quest'ultimo possano ottimizzare il viaggio delle 580 navi portacontainer del consorzio da un unico centro a Marsiglia. Dall’altro, per la parte del viaggio tra i porti di Abidjan o San Pedro, entrambi in Costa d’Avorio e controllati da MSC, e Ouagadugù, il trust intende passare tramite miriadi di piccoli autotrasportatori. Questi sono gli unici in grado di guidare sulle strade dissestate e con i cambiamenti di percorso a seconda degli ostacoli e delle condizioni atmosferiche: solchi, pioggia, polvere, ed altro. Ciò aggiunge ancora un’altra contraddizione al funzionamento economico nell’era dell’imperialismo decadente.

Sconvolgimento degli equilibri di potere tra gruppi e nazioni imperialiste

La guerra in Ucraina, le sanzioni americane contro la Russia e le conseguenti interruzioni nei circuiti produttivi hanno esacerbato la concorrenza e le rivalità tra le aziende capitaliste e allo stesso modo tra le nazioni capitaliste.

La Russia, nemica dichiarata della NATO, ha subito le sanzioni di quest'ultima con ripercussioni difficili da misurare poiché la vendita di petrolio e soprattutto di gas, che costituiva la maggior parte dei ricavi delle esportazioni russe, ha trovato altre strade per raggiungere vecchi o nuovi clienti. La stampa economica ha notato come l’India sia diventata un grande esportatore di gas, acquistandolo dalla Russia, a dispetto delle sanzioni occidentali. E, precisa Les Echos, è così che il magnate indiano degli affari Gautam Adani è diventato la terza fortuna del mondo.

Non si sa fino a che punto la Russia abbia recuperato i ricavi delle sue esportazioni di gas e petrolio. D’altronde, sappiamo che la guerra e la politica delle sanzioni hanno fortemente indebolito l’economia tedesca, in questo caso, nella sua rivalità con le altre potenze imperialiste, soprattutto gli Stati Uniti.

Per molto tempo, alla base del successo economico della Germania ci furono tre condizioni favorevoli: beneficiare del gas russo a condizioni vantaggiose; essere ben radicati nel vasto mercato cinese dove i capitalisti tedeschi sono stati in anticipo rispetto ai concorrenti; fare appello alla manodopera proveniente dal tradizionale entroterra dei paesi dell’Est. Questa combinazione vincente è stata smantellata dalla guerra in Ucraina e soprattutto dalle sanzioni americane. Il conseguente cambiamento del rapporto di forza con gli Stati Uniti ha danneggiato la Germania altrettanto quanto la Russia e forse più.

Le Monde del 24 agosto dedicava un'intera pagina a quello che definisce “il grande dubbio economico tedesco”, titolo completato da “Il Paese in probabile recessione nel 2023 scopre, demoralizzato, le fragilità del made in Germany”. Nel corpo dell'articolo cita il collega, il settimanale tedesco Die Zeit (3 agosto) che scriveva: “Il Made in Germany è finito”. E una terza pubblicazione, Die Welt, rincarava pochi giorni dopo: “Il successo dell’America è il declino della Germania”. L'articolo fornisce i dettagli: “La produzione industriale è in declino e l'edilizia è in caduta libera a causa dell'aumento dei tassi di interesse e dell'alto costo delle materie prime. Per quanto riguarda l’industria automobilistica, la concorrenza dei veicoli elettrici è molto più aggressiva del previsto”.

La rivista britannica The Economist si chiede “se la Germania non sia diventata il malato d'Europa”. Il Fondo monetario internazionale la colloca all’ultimo posto nella classifica delle grandi economie, dietro a Stati Uniti, Italia e Francia. Ma fino a poco tempo fa la Germania era la principale potenza imperialista in Europa. È un Paese la cui economia ha fatto avanzare l’Unione Europea e che è servito da modello. Vuol dire che il cambiamento del rapporto di forza tra l’imperialismo americano e quello tedesco comporta, più seriamente, il cambiamento del rapporto di forza tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Tanto più che questa non è veramente unificata, è un conglomerato di 27 stati i cui interessi possono coincidere con quelli dei loro vicini ma anche essere diversi o addirittura completamente opposti. Nei confronti degli Stati Uniti e anche nei confronti della Cina, l’Unione Europea non ha un’unica politica.

L'indebolimento dell'industria tedesca si tradurrà inevitabilmente in maggiori difficoltà per i suoi subappaltatori nell'Europa dell'Est, le ex democrazie popolari. Nel recente passato, la Germania imperialista doveva la sua prosperità in gran parte alla forza lavoro poco cara ma competente che trovava in Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia, ecc., e persino, indirettamente, in Ucraina. Non è stata certamente l’unica potenza imperialista a beneficiare di questo vantaggio, come dimostra il fatto che accanto ad Audi, Volkswagen, BMW, ed altri, troviamo nei paesi dell’Est europeo anche fabbriche che lavorano per Stellantis e Renault. Gli investimenti così interessati delle multinazionali, occidentali o giapponesi, allo stesso tempo, hanno creato anche nuovi posti di lavoro in questi paesi. Anche l’Ucraina, pur non appartenendo all’Unione Europea, ha beneficiato di tali ricadute. Le fabbriche polacche, ad esempio, finanziate dal capitale tedesco, impiegavano lavoratori ucraini che erano ancora meno pagati di quelli polacchi. Bisogna ricordare che l'integrazione dei paesi dell'Est europeo nell'Unione non ha posto fine ai rapporti di subordinazione tra i paesi imperialisti e questi, meno potenti o semisviluppati.

La rivalità tra gli imperialismi non si ferma e non potrà mai fermarsi perché gli equilibri di potere in un dato momento sono costantemente messi in discussione. L’inevitabilità delle guerre deriva, in definitiva, dal fatto che solo esse possono stabilire un nuovo equilibrio di potere al posto di quello vecchio.

Affidarsi alla “sovranità nazionale” per proteggersi dall’imperialismo è, per citare Trotsky, “nel senso pieno del termine, un compito reazionario”. E aggiungeva “un socialismo che predica la difesa nazionale è quello della piccola borghesia reazionaria del paese, al servizio del capitalismo in declino”.

In la Quarta Internazionale e la guerra, scritto nel 1934, Trotsky affermava: “Non vincolarsi in tempo di guerra allo Stato nazionale, seguire la mappa non della guerra ma della lotta di classe è possibile solo per un partito che ha già dichiarato una guerra inespiabile allo Stato nazionale in tempo di pace. Solo se capirà pienamente il ruolo oggettivamente reazionario dello Stato imperialista, l’avanguardia proletaria si immunizzerà contro ogni forma di socialpatriottismo. Ciò significa che una rottura reale con l’ideologia e con la politica di difesa nazionale è possibile solo dal punto di vista della rivoluzione proletaria internazionale.”

La lenta frammentazione

dell’economia globale”

È questo l’inizio della deglobalizzazione? », si chiede l'Organizzazione mondiale del commercio (WTO), per poi constatare che non è così, anche se la quota del commercio nel Pil mondiale è stagnante da circa quindici anni. C’è però un’evoluzione: la quota dell’industria nel Pil mondiale diminuisce mentre quella dei servizi aumenta.

Ci sono soprattutto conseguenze dei conflitti e più in generale della geopolitica per l’economia. Chiaramente, quelle che gli economisti chiamano “le catene del valore” tendono a passare preferibilmente tra paesi politicamente e militarmente collegati, piuttosto che rischiare interruzioni anche momentanee a causa di conflitti.

Le Monde del 14 settembre riassume le forme più recenti di protezionismo che si aggiungono a quelle vecchie: dazi doganali, quote di importazione ed esportazione. Oltre alla definizione di nuovi standard tecnici, esistono diverse misure di ritorsione che rispondono a quelle protezionistiche adottate dalla parte avversa. Ma la forma di protezionismo preferita dalle principali potenze imperialiste o almeno da quelle che ne hanno i mezzi, sono semplicemente i sussidi statali. Gli Stati Uniti ne hanno fornito un esempio recente con l’Inflation Reduction Act (IRA).

L’IRA, vale a dire i miliardi promessi a tutti i gruppi capitalisti, americani e non, che accetteranno di aprire fabbriche sul suolo degli Stati Uniti, ha avuto l’effetto quasi immediato di rilanciare la concorrenza globale tra le potenze imperialiste, convogliando somme di denaro pubblico senza precedenti verso compagnie private. I governi tedesco, francese e britannico si sono uniti alla competizione.

Come è possibile non notare che la maggior parte di questi sussidi vengono concessi a gruppi capitalisti in nome dell’ecologia o delle esigenze della transizione climatica? Nel frattempo la vita quotidiana stessa, il susseguirsi di incendi e inondazioni testimoniano l’aggravarsi della catastrofe ecologica. I pretesti per i sussidi stanno rendendo il mondo verde, anche quando è un’affermazione palesemente cinica. Al punto che (Les Échos dei 16 e 17 giugno): “La Banca mondiale propone di esaminare i sussidi dannosi per l'ambiente concessi dai governi di tutto il mondo ai combustibili fossili, all'agricoltura e alla pesca” e “esorta i governi a reindirizzare [questi aiuti] che sono spesso nocivi per l’ambiente. I sussidi espliciti e impliciti supererebbero i 7 trilioni di dollari all’anno”. del resto il direttore generale lo dice con un acuto senso dell’eufemismo: “Se potessimo riutilizzare i trilioni di dollari spesi in sussidi inutili e usarli per scopi migliori e più verdi, potremmo affrontare molte delle sfide più urgenti per il pianeta”.

Fusione crescente tra Stato e grande capitale a vantaggio di quest'ultimo

Queste molteplici iniziative protezionistiche nei vari paesi imperialisti riflettono,però, un'evoluzione più generale che sembra essere una delle caratteristiche dell'imperialismo del nostro tempo. Nel finanziamento delle imprese dell'economia imperialista, gli Stati svolgono un ruolo sempre più importante, al punto che alcune industrie non potrebbero nemmeno esistere senza una partecipazione dello Stato fin dall’inizio.

In senso stretto non si tratta di un fenomeno nuovo. Nella nascita di molte grandi imprese industriali del passato, lo Stato ha giocato un ruolo importante, se non addirittura predominante. Ma questo statalismo capitalista sta assumendo proporzioni crescenti. In questo modo si verifica, in un certo senso, una fusione tra capitale privato e capitale statale per la realizzazione degli investimenti. Soltanto i profitti che ne derivano e le fortune dei detentori di grandi capitali restano privati.

Nondimeno i portavoce della grande borghesia occidentale o i suoi economisti incolpano la Cina per aver lanciato la corsa ai sussidi e per aver distorto la concorrenza internazionale con significativi interventi statali. Ma in queste critiche c'è una convergenza involontaria con l'osservazione di Marx secondo cui sono le leggi stesse dell'economia capitalista a spingere verso la centralizzazione, l'interdipendenza, la globalizzazione e la necessità di pianificazione. In definitiva, sono le stesse leggi economiche fondamentali del capitalismo a spingerlo verso forme sempre più parassitarie, ma anche verso la necessità di una riorganizzazione socialista dell’economia.

Più di un secolo fa, in L’imperialismo, fase suprema del capitalismo Lenin notava che il prototipo della grande borghesia dell’epoca dell’imperialismo è rappresentato dai rentier, “i tagliatori di coupon”, e non solo dai capitani d’industria della fase d’ascesa del capitalismo. La letteratura marxista ha spesso fatto il paragone con la decadenza del feudalesimo, quando i signori avevano già perso il loro potere politico e militare per essere rinchiusi nel ghetto dorato di Versailles...

La finanziarizzazione dell’economia capitalista globale rende i movimenti di capitali più facili e allo stesso tempo più imprevedibili. Facilita le speculazioni brutali che ciò comporta. I capitali che si muovono lo possono fare in cerca di investimenti più redditizi, ma anche per sfruttare opportunità speculative, come la speculazione immobiliare o quella sui tassi di cambio.

Al di là dei cambiamenti nei rapporti di forza tra le diverse potenze imperialiste, la speculazione minaccia permanentemente il sistema finanziario globale, come durante i crolli e le crisi finanziarie precedenti, che si sono susseguiti quasi ogni anno a partire dal 1971 e dalla fine della convertibilità del dollaro. Basti citare la crisi del debito dei paesi poveri (1982), la bolla speculativa giapponese (1989), la crisi messicana (1994 ), quella asiatica (1997), la crisi argentina (2001), e altre, e soprattutto quella principale del 2008-2009. Come in questi casi, il rimedio utilizzato ad un certo momento è all'origine della malattia successiva. La crisi attuale viene combattuta con l’aiuto di iniezioni di valute, titoli, ecc. nella massa monetaria, che aumenta e apre ancora di più la porta alla speculazione.

Detronizzare il dollaro?

Le Monde Diplomatique dell’ottobre 2023 si apre con il seguente titolo: “Dal vertice dei BRICS a quello del G20. Quando il Sud si afferma” e vede nell'allargamento dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) ad una mezza dozzina di altri Stati “il desiderio dei paesi emergenti di lavorare verso una riorganizzazione del sistema internazionale. Un passo importante nel riequilibrio planetario che ne richiederà molti altri”. Il che fa sorgere quest’altra domanda che torna periodicamente: “Riusciranno i BRICS a creare un altro sistema monetario internazionale in grado di competere con quello basato sul dollaro?”.

Ancora oggi, diverse valute nazionali sono già utilizzate nel commercio internazionale (sterlina, franco svizzero, yen, yuan e altre) e la stessa guerra in Ucraina e le sanzioni imposte dagli Stati Uniti hanno portato all’utilizzo di valute diverse dal dollaro nel commercio internazionale ma la valuta americana conserva la sua preponderanza.

Le Figaro del 6 settembre sottolinea, naturalmente, che i BRICS, passando da quattro e poi cinque per arrivare quest'anno a undici, “rappresentano il 45% della popolazione mondiale e il 30% del PIL del pianeta”. Tuttavia il titolo del suo articolo recita: “Il re dollaro non verrà detronizzato tanto presto”. E se anche il quotidiano constata: “Una cifra sembra confermare la dedollarizzazione: il biglietto verde rappresenta ormai solo il 58% delle riserve delle banche centrali mondiali, rispetto al 70% all'inizio del secolo”, rileva inoltre: “Se la banconota verde ha perso terreno come valuta di riserva, nessun’altra moneta può affermare di sostituirla” perché il suo dominio “si basa sulla profondità del mercato monetario e obbligazionario americano, rifugio senza rivali per il risparmio globale” e “rappresenta ancora il 40% dell’emissione di debiti e del commercio nel mondo”.

Non sarà imminente che il dollaro verrà detronizzato a favore di un’altra valuta internazionale. Infatti sorge spontanea una domanda: chi potrebbe arbitrare tra una dozzina di Stati più o meno sviluppati, con interessi diversi e spesso contraddittori? E soprattutto si sa che nel regno dei ciechi, i guerci sono re.

Certamente il dollaro è nella stessa barca di tutte le altre valute cartacee da quando il 15 agosto 1971, il presidente degli Stati Uniti ha annunciato la fine della sua convertibilità in oro, ponendo fine al sistema monetario di Bretton Woods., Ma fa la differenza il peso economico,della potenza militare e politica dell’imperialismo più forte, che ispira la fiducia necessaria per attrarre i capitali nei periodi di maggiore instabilità del capitalismo. L’unica promessa delle valute che potrebbero fare concorrenza al dollaro è di moltiplicare e amplificare le speculazioni sui tassi di cambio.

I rapporti contraddittori

tra l’imperialismo americano e la Cina

Le maggiori contraddizioni tra gli aspetti economici e militari appaiono nei rapporti tra l’imperialismo americano e la Cina.

L’imperialismo americano ha avuto la Cina nel mirino da quando Mao Zedong è salito al potere nel 1948-1949. Nonostante i molteplici legami stabiliti da diversi anni tra le economie dei due paesi, la tensione sia militare che diplomatica cresce, in particolare intorno a Taiwan, in modo tale che è difficile capire se la maggiore minaccia di guerra generalizzata sia tra gli Stati Uniti e la Russia oppure tra gli Stati Uniti e la Cina. Ma allo stesso tempo la compenetrazione tra l’economia americana e quella cinese è tale che una rottura sarebbe catastrofica.

Un articolo della pubblicazione americana Foreign Affairs di maggio aveva come titolo: “Le relazioni economiche tra gli Stati Uniti e la Cina si stanno evolvendo ma non stanno scomparendo”. Lo scopo era di esprimere la preoccupazione della grande borghesia americana e descrivere gli sforzi dell'amministrazione Biden per dissipare questa preoccupazione. L’articolo cita un consigliere per la sicurezza nazionale statunitense che affermava che gli Stati Uniti sono "a favore della riduzione del rischio, ma non del disaccoppiamento", e insisteva sul fatto che "i controlli sulle esportazioni statunitensi rimarranno strettamente concentrati sulle tecnologie che potrebbero spostare l'ago della bilancia militare”.

La stessa rivista cita la segretaria americana al Tesoro Janet Yellen che, una settimana prima, aveva affermato che gli Stati Uniti non stanno cercando di dissociarsi dalla Cina, un effetto che secondo lei sarebbe “disastroso” e “destabilizzante per il mondo”.

La rivista afferma, con prove a sostegno: “Finora non è avvenuto alcun disaccoppiamento. Pertanto, sebbene gli investimenti diretti in entrambe le direzioni siano diminuiti, lo scorso anno il commercio di merci tra Stati Uniti e Cina ha raggiunto la cifra record di 690 miliardi di dollari”. [...] “La Cina resta il terzo partner commerciale degli Stati Uniti, dopo Canada e Messico”. “La realtà è che, per molte aziende, il mercato cinese è troppo grande e troppo prezioso per essere abbandonato, nonostante i rischi geopolitici. La Cina rappresenta un quinto del PIL mondiale e conta 900 milioni di consumatori. La sua combinazione unica di investimenti in infrastrutture, capitale umano ed ecosistema di fornitori ne ha fatto una potenza manifatturiera”.

Quindi si parla innanzitutto di misure una tantum che riguardano un certo numero di prodotti strategici (alcuni tipi di chip elettronici, per esempio). Ma la rivista americana aggiunge: “Molti analisti dubitano che un approccio mirato alla riduzione del rischio possa avere successo”, per darne un motivo prevedibile: “Il luogo in cui verranno prodotti i chip in futuro dipenderà più dalle richieste dei grandi acquirenti privati che non dalla politica del governo”. È proprio perché sono i capitalisti privati a decidere, che si è determinata la situazione aberrante attuale, cioè che due terzi dei chip di fascia alta nel mondo sono prodotti da un’unica azienda di Taiwan.

Condurre la lotta di classe del proletariato fino alla sua vittoria

Oggi, mentre la minaccia di una generalizzazione della guerra è ormai risentita al di là delle file dei comunisti rivoluzionari, tutti i partiti della borghesia condividono l’idea, implicita o esplicita, che la guerra sospende o ferma la lotta di classe. Dobbiamo fare la nostra propaganda in opposizione a questa idea. Lo stesso principio ci dovrà guidare anche se la guerra dovesse estendersi fino a colpire direttamente paesi dove militanti della nostra corrente sono presenti.

Lasciamo agli anarchici la scelta di teorizzare le reazioni individuali o di raccomandare la diserzione. Se la nostra classe, non essendo riuscita ad impedire la guerra, sarà mobilitata, i nostri militanti vi dovranno rispondere come tutti gli altri lavoratori. Quindi, anche in divisa e nelle file dell’esercito, dovranno non solo continuare a difendere le nostre idee, quelle della lotta di classe, ma cercare di convertire ad esse altri soldati, e farli diventare nostri compagni. Sarà un lavoro individuale e clandestino finché sarà possibile solo questo; oppure riguarderà interi contingenti quando l’impennata rivoluzionaria lo renderà possibile. Dovremo rifiutarci di fuggire dalla guerra con la diserzione. Non ci accontenteremo di chiedere la pace, ma dovremo portare avanti la lotta di classe all’interno dell’esercito. “Trasformare la guerra della borghesia in guerra civile”, fu questo il programma di Lenin e del partito bolscevico col quale la classe operaia conquistò il potere. 

13 ottobre 2023