29 ottobre 2012
L'Unione europea minacciata dalla crisi
L'aggravarsi della crisi dell'economia capitalista, dalla crisi finanziaria della fine del 2008, pesa sulle relazioni internazionali come sulla situazione politica interna dei vari paesi. Le improvvisazioni disordinate dei dirigenti, sia economici che politici, di fronte ai sussulti di una crisi che sono incapaci di controllare, danno alla relazioni internazionali un carattere caotico e contraddittorio.
Sulle scene politiche nazionali si constata quasi dappertutto, anche nei principali paesi del mondo imperialista, un'ascesa delle correnti politiche reazionarie, che propongono il ripiegamento nazionale e fanno del protezionismo e di una xenofobia più o meno virulente l'asse della loro politica. Parallelamente, dall'Italia al Regno Unito e dalla Spagna al Belgio, si esprimono con particolare forza una serie di tendenze micronazionaliste o regionaliste, che caldeggiano l'autonomia del Nord d'Italia, l'indipendenza della Scozia, della Catalogna o dei Paesi Baschi, oppure nel Belgio la separazione tra la regione fiamminga e la regione vallona. La storia cammina a grandi passi, ma all'indietro.
Eppure al tempo stesso non ci sono mai stati tanti incontri tra capi di Stato, a livello mondiale o a livello europeo, tanto è evidente che i problemi dell'economia, come i problemi della finanza, si pongono su scala planetaria.
Allo stadio attuale della crisi, è chiaro che un ritorno repentino alle barriere protezionistiche provocherebbe un rallentamento grave del commercio internazionale, e spingerebbe l'economia mondiale verso il crollo.
La contraddizione tra gli interessi del gran capitale completamente globalizzato, e le forze politiche che si candidano al potere con una demagogia che raccomanda i ripiegamenti nazionali e perfino regionali, dà alle relazioni internazionali un carattere schizofrenico.
Se i dirigenti politici delle varie borghesie europee sono fieri di questo aborto di Stati Uniti d'Europa qual'è l'Unione europea, pomposamente consacrata quest'anno dal Nobel della pace, gli uni e gli altri sono perfettamente coscienti che l'eurozona, epicentro della crisi finanziaria mondiale, può scoppiare da un momento all'altro, e così annichilire cinquant'anni di faticose discussioni.
Le controversie su chi andrà a ritirare il Nobel ad Oslo, per quanto ridicole possano apparire, nondimeno sono significative. Il problema chiaramente non è una questione di preminenza tra alcuni personaggi tanto insignificanti quanto oscuri: il presidente della Commissione europea Barroso, piuttosto che la vicepresidente agli esteri e alla politica di sicurezza della stessa commissione Catherine Ashton, o il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy o il Presidente del Parlamento europeo Schultz.
L'evanescenza di questi personaggi è il segnale che l'Europa non ha un governo politico unico. Si dice che il segretario di Stato americano Kissinger a suo tempo avesse espresso questo problema con la domanda: "l'Europa, quale numero di telefono?". Che il presidente degli Stati Uniti sia un attore di serie B, o un politico qualsiasi passato tramite il filtro della grande borghesia e uscito vincitore dal sorteggio delle elezioni, comunque è il simbolo di un apparato di Stato unificato con tutto ciò che ne consegue. Niente di simile in Europa.
In cinquant'anni di una storia caotica l'Unione europea si è certamente dotata di tutto il decoro di uno Stato, di un Parlamento e di un esecutivo, ma non ha creato un ente statale unico.
Spinte da profonde necessità economiche ad unificare mercati nazionali ridicolmente ristretti, le borghesie nazionali hanno accettato abbandoni più o meno importanti di sovranità dei loro Stati nazionali. Ma nessuna, e sicuramente non la borghesia delle principali potenze imperialiste rivali d'Europa, Germania, Gran Bretagna e Francia in primo luogo, ha accettato di sacrificare il suo apparato di Stato nazionale a vantaggio di uno Stato sovranazionale. Pur associatesi, le borghesie imperialiste d'Europa nondimeno sono rimaste rivali. Lo sono state e lo rimangono sempre, a cominciare dall'interno dello spazio economico comune dove i loro apparati statali nazionali tanto meno tendono a sciogliersi in uno Stato sovranazionale in quanto il loro peso, la loro potenza costituiscono un argomento maggiore nei mercanteggiamenti permanenti dell'Unione europea. Ma non bisogna dimenticare neanche le rivalità tra gli imperialismi europei nel mondo, dove le zone d'influenza degli uni e degli altri, le loro alleanze, i loro interessi possono coincidere in alcuni momenti, ma divergono e qualche volta sono opposti in altri.
Bisogna ricordarsi, in questi giorni in cui l'ipocrisia del Nobel della pace mette all'attivo dell'Unione Europea l'assenza di conflitti sul continente, della feroce guerra che ha accompagnato la divisione della ex Jugoslavia. Questa guerra non solo si è svolta sul suolo europeo, ma è stata acutizzata dalla rivalità tra le grandi potenze, pur aderenti alla stessa Unione Europea. Germania e Francia, tra l'altro, ne portano la responsabilità perché ognuna è intervenuta a favore del suo alleato storico in Jugoslavia, la Croazia per la prima e la Serbia per la seconda. Giocando con il fuoco dei nazionalismi opposti, le grandi potenze imperialiste d'Europa hanno contribuito a infiammare questa disgraziata regione, con il risultato di centinaia di migliaia di vittime, più di 200 000 morti secondo l'ambasciata di Croazia in Francia, e con le “epurazioni etniche”.
Queste divergenze o addirittura queste opposizioni d'interessi sono chiaramente visibili attraverso tutta la storia della cosiddetta costruzione europea. E al di là dei numerosi casi concreti in cui ognuna di queste potenze imperialiste d'Europa fa il suo proprio gioco diplomatico o anche militare, queste rivalità sono il motivo per cui l'Unione non è riuscita, in mezzo secolo di costruzione europea, a darsi una diplomazia e a maggior ragione una forza militare uniche.
Potenza economica e nanismo politico, l'espressione utilizzata un po' di anni fa per la Germania è ancora più vera per l'Unione europea. Ma essendo l'economia e la politica statale molto intrecciate, il nanismo politico, cioè l'incapacità dei paesi europei di darsi un governo unico, ostacola pesantemente l'economia stessa. Una unione di Stati, anche coalizzati, non fa uno Stato unificato e ancora meno una politica finanziaria, fiscale, economica, unica.
Nonostante il suo sviluppo economico, la sua numerosa popolazione, l'Unione Europea nella concorrenza mondiale non ha mai potuto uguagliare gli Stati Uniti.
Se l'assenza di diplomazia comune o di esercito comune costituisce nelle rivalità tra le grandi potenze l’ostacolo maggiore per l'Unione Europea fin dalla sua istituzione, è significativo che ciò che minaccia oggi l'Unione non risulta da questo problema. Costruita sul terreno economico, oggi è minacciata sul terreno finanziario. Dominique Strauss-Kahn, che ritrova oggi la posizione di consulente economico, ha recentemente formulato questa constatazione: "La logica di un'unione monetaria sarebbe che, poiché c'è una sola moneta, ci sia un solo tasso d'interesse. Era tra l'altro una delle condizioni del trattato di Maastricht: i paesi che volevano partecipare all'euro dovevano avere tassi abbastanza convergenti. Oggi i tassi sono in gran parte divergenti. (…) Questa è la causa di una grande instabilità, che fa dire agli osservatori internazionali che a lungo non reggerà".
Le cause profonde della recessione, cioè del regresso della produzione, certamente non derivano dai difetti della costruzione europea. Pur unificati che siano, gli Stati Uniti non evitano la crisi finanziaria. Ma l'instabilità dell'euro è un fattore aggravante. Data la penetrazione reciproca da molto tempo delle economie di un continente peraltro frammentato, rafforzata anche dal mercato comune e dalla moneta unica, la scomparsa dell'euro, il ritorno alle monete nazionali e alle crisi di cambio tra di loro sarebbe un colpo di freno brutale agli scambi tra i paesi europei e un aggravamento della crisi economica. Niente di strano quindi se, accanto ai discorsi sui ripiegamenti nazionali, si accentua allo stesso tempo l’opinione di quelli che raccomandano un'integrazione crescente dell'Europa. Il che significherebbe un abbandono sempre più grande delle prerogative nazionali a vantaggio di un aumento delle prerogative dell'Europa.
Il passo più importante sulla strada dell'unificazione dell'Europa è stato la moneta unica e la creazione dell'eurozona. Segno però della sua fragilità, sin dall'inizio la moneta comune è stata adottata solo da una parte dell'Unione Europea. Oggi su 27 membri dell'Unione solo 17 utilizzano l'euro. Gli altri dieci non lo utilizzano, alcuni – come la Gran Bretagna - perché lo rifiutano, altri perché non sono o non sono ancora accettati nell'eurozona.
È proprio nell'eurozona, cioè dove l'integrazione è stata spinta più avanti, che si trova la contraddizione maggiore tra l'esistenza di una moneta unica e il fatto che non si appoggia ad un'autorità statale. Nel testo sulla crisi dell'economia capitalista torneremo sui meccanismi economici con cui i mercati finanziari hanno approfittato delle debolezze e delle contraddizioni del sistema per farne la materia prima delle loro speculazioni, spingendo il tutto verso l’esplosione.
Diciamo solo che per colmare le crepe i dirigenti politici dell'Unione europea sembrano impegnati in una fuga in avanti per provare a costruire più unità dove manca. Una delle teste pensanti del mondo della speculazione, George Soros, ha formulato nel modo più breve le linee direttrici di questa fuga in avanti: "Oggi non c'è altra scelta se non migliorare la governance dell'eurozona. La questione non è più di sapere se ci vuole o no una moneta unica. L'euro esiste, e se crollasse questo porterebbe ad una crisi bancaria completamente fuori controllo. Il mondo sprofonderebbe allora in una profonda recessione.”
Ma se gli sviluppi imprevedibili della minaccia finanziaria spingono i capi di Stato al panico e all’urgenza, l'Unione europea va avanti come l'asino che tira indietro. L'anno certamente è stato segnato da una serie di decisioni che vanno nella direzione di una maggiore integrazione europea. Ma tutte miravano a rispondere nell'urgenza alle conseguenze dell'inesistenza dello Stato europeo, e non alla causa. C'è stato il “trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance”, la creazione della prima ma irrisoria tassa europea sulle transazioni finanziarie, l'accordo su un controllo integrato delle banche da parte della Banca Centrale Europea. Ogni decisione ha provocato dibattiti tra gli Stati. Crisi politiche più o meno importanti hanno segnato l'anno appena scorso.
Ci sono state crisi tra i 17 aderenti dell'eurozona e i dieci non aderenti sui meccanismi di decisione, perché anche le decisioni che riguardano solo l'eurozona hanno implicazioni per l'insieme dell'Unione europea.
Ci sono state crisi tra Germania e Francia da una parte, i cui governi spingono nel senso di una maggiore integrazione europea sotto la loro direzione, e dall'altra la Gran Bretagna che non la vuole.
Ci sono state crisi sono che hanno visto da un lato le due potenze che dominano l'eurozona, Germania e Francia, e dall'altro gli altri paesi dell'Unione, esclusi in varie misure dalle principali decisioni. Va da sé che in questo quadro i piccoli Stati non imperialisti dell'Unione sono quelli che meno hanno diritto alla parola.
Poi ci sono state altre crisi, tra le due potenze dominanti dell'eurozona, complici per imporre il loro dominio comune sull'insieme dell'eurozona, ma ciascuna in funzione dei propri interessi e della specifica visione della sua borghesia nazionale.
Il più recente di questi conflitti tra Germania e Francia, questa volta chiaramente rivendicato da ambo i lati, si è svolto al vertice europeo del 18 ottobre 2012, e ha opposto Merkel e Hollande sulla questione di decidere se debbano essere le banche europee e il sistema bancario a sottomettersi a un certo controllo da parte della Bce, o se sia l'esecutivo dell'Unione a dover esercitare un controllo sulle finanze degli Stati.
Si deve constatare che, paradossalmente, anche i pochi passi in avanti nel senso dell'integrazione aggiungono fattori di disgregazione a quelli che già esistono.
Durante tutta l'attuale crisi dell'euro, appare sempre più chiaramente che la sola autorità sovranazionale al livello dell'eurozona, se non al livello dell'Unione europea, è la Banca centrale europea (Bce). Questa semplice constatazione solleva proteste da parte dei riformisti di ogni genere, che denunciano la negazione della democrazia, l'abbandono della sovranità popolare e altre stupidaggini. Come se all'interno di ogni Stato e al di là degli Stati, a governare non fossero già le banche o più precisamente il gran capitale!
Nell'Unione europea costruita ad uso dei capitalisti per agevolare la circolazione delle loro merci e dei loro capitali, "il re è nudo". Le istituzioni europee, dal Parlamento fino all'esecutivo, appaiono sempre più chiaramente come istituzioni senza potere, completamente subordinate al capitale finanziario.
I fautori borghesi di una maggiore integrazione europea lamentano lo scarto crescente tra le loro proposte di un'Europa più federale, e la crescente diffidenza delle popolazioni nei confronti dell'Unione Europea e delle sue istituzioni. Una diffidenza che sta per trasformarsi in ostilità, particolarmente nella popolazione degli Stati più poveri e non imperialisti d'Europa.
Non a caso le condizioni draconiane imposte alla popolazione greca rafforzano nel paese i sentimenti antitedeschi. Infatti la storia sembra riprodurre in un altro contesto l'oppressione di cui questi paesi, come tutte le nazioni dell'est europeo, sono stati vittime tra le due guerre mondiali.
L'Unione europea non ha posto fine al dominio dell'Europa imperialista sui paesi semi sviluppati del continente, ha solo fornito un campo diverso.
In reazione ai piani di austerità, durissimo in Grecia e quasi altrettanto in Spagna, si sviluppano in questi paesi movimenti di contestazione di massa. Si sono espressi con manifestazioni numerose, e in particolare in Grecia con parecchie giornate di sciopero generale.
Per la loro semplice esistenza e il loro carattere di massa, queste ascese della protesta sono una speranza per il futuro. Solo con il loro intervento diretto sulla scena politica le masse sfruttate, schiacciate dalla crisi, hanno la possibilità di arrestare i colpi destinati a raggiungerle. Ma questi movimenti di contestazione al tempo stesso evidenziano i propri limiti.
La borghesia è sensibile alle espressioni del malcontento o della collera solo se individua in esse la volontà di minacciare i suoi propri interessi, e a maggior ragione se ha qualche motivo di temere per il suo proprio potere sull'economia e sulla società.
Per ora, in nessuno dei paesi toccati dai movimenti di protesta le masse sono a questo livello di coscienza. I dirigenti politici greci sono certamente costretti ad operare contorsioni per dimostrare agli ambienti finanziari che attuano la politica dettata da questi ultimi, e al tempo stesso per provare ad attenuare la collera della popolazione. Ma i dirigenti dell'Europa imperialista non sembrano provare panico, per ora, davanti all'evolversi della situazione sociale. La crescente collera della popolazione greca non è ancora tale da pesare sui negoziati tra i dirigenti europei.
Sia la Grecia che la Spagna mostrano contemporaneamente come e con quale rapidità le masse sfruttate sono spinte alla mobilitazione. Ma dimostrano anche che, perché questa mobilitazione possa prendere una direzione favorevole agli interessi degli sfruttati e minacciare direttamente la borghesia, ci vorrebbero una corrente e delle organizzazioni per esprimere chiaramente questi interessi, e portare avanti gli obiettivi che ne derivano. Nei periodi di intensificazione delle lotte di classe provocate dalla crisi, comincia ad apparire chiaramente che la vera alternativa posta alla società è: chi le dirige? La finanza capitalista o le classi sfruttate? La borghesia o il proletariato?
È segno di profondo regresso del movimento operaio politico, il fatto che i partiti che affermano di rappresentarlo si oppongono all'Europa dei capitalisti in nome del protezionismo, o dei ripiegamenti nazionali.
Se l'Unione europea non è l’"Europa dei popoli" invocata dai riformisti di ogni genere, il problema in causa non è l'Unione, bensì il dominio del gran capitale su ognuno dei paesi, come sull'insieme più o meno unito che costituiscono. Renderne responsabile l'Unione non solo è un modo per escludere le responsabilità del capitalismo, è anche un approccio politico profondamente reazionario.
I comunisti rivoluzionari devono affermare chiaramente che il rovesciamento del potere della borghesia e la presa di potere da parte del proletariato sono inconcepibili nelle ristrette arene degli enti nazionali odierni, completamente anacronistici anche nell'ambito dell'economia capitalista. Questa prospettiva, quella di una rivoluzione europea anche elemento di una rivoluzione internazionale, oggi sembra utopica - dato il livello di combattività e di coscienza della classe operaia. Ma quando si produrrà, è inimmaginabile che si possa limitare al quadro fissato dalla borghesia all'epoca remota in cui gli Stati nazionali costituivano un'idea progressista, un quadro che si è periodicamente modificato a seconda dei cambiamenti dei rapporti di forze tra le potenze imperialiste. Le grandi ondate rivoluzionarie dal 1848 sono sempre state internazionali. A maggior ragione, solo su scala internazionale il proletariato può immaginare di costruire una nuova organizzazione sociale dell'economia da molto tempo globalizzata.
L'unificazione della stessa Europa potrebbe solo essere una tappa su questa strada. L'unificazione dell'insieme del continente europeo, in collegamento con l'Asia di cui costituisce il prolungamento e con l'Africa a cui è legato, sia dalla sua storia che dalla sua composizione umana, fa parte del programma del proletariato rivoluzionario almeno dalla prima guerra mondiale e dai trattati di Versailles, imposti ai popoli dalle potenze imperialiste vincitrici.
Lo stalinismo ha rimandato ben lontano questo aspetto del programma così come molte altre cose. Tocca alle nuove generazioni rivoluzionarie ritrovarlo, in un contesto in cui è ancora più attuale che ai tempi dell'Internazionale comunista.
Questo programma, così come la prospettiva della rivoluzione proletaria stessa e quindi del comunismo, è portato avanti oggi solo da piccole organizzazioni come la nostra. Solo una nuova crescita della coscienza e della combattività della classe operaia può dare una realtà a questa prospettiva.
Ma è un motivo di più per preservare il programma della rivoluzione proletaria contro tutti coloro che, con le varie forme di riformismo, fanno passare la sovranità nazionale e il protezionismo economico per un programma di sinistra, che di conseguenza potrebbe rispondere agli interessi della classe operaia.
Le nostre posizioni politiche sull'Europa, che ci oppongono al Pcf così come ai fautori di Mélenchon, derivano dalle differenze tra i nostri programmi e le nostre opposte prospettive: la nostra è il rovesciamento del potere della borghesia da parte del proletariato rivoluzionario, e la loro è provare a gestire in un altro modo l'economia capitalista.
No, la crisi non è una conseguenza dell'Unione Europea e dell'opzione politica liberale dei suoi dirigenti, bensì del funzionamento stesso dell'economia capitalista. No, la “sovranità nazionale”, che nella migliore delle ipotesi è un'astrazione vuota, in realtà è l'espressione degli interessi della borghesia nazionale, e non protegge i lavoratori contro la crisi. No, le leggi e i decreti decisi dal Parlamento o dall'esecutivo in Francia non sono più favorevoli alla classe operaia dei trattati che hanno fondato l'Unione europea. No, non è la Germania ad imporre qui in Francia una politica di austerità, è il nostro proprio governo, per quanto “socialista” si proclami. No, le classi operaie di Germania, Gran Bretagna o Spagna, e non più di quella cinese, sono nemiche della classe operaia di questo paese, sono anzi le sue migliori alleate.
Sì, contro i nazionalisti aperti o travestiti, solo l'internazionalismo fa parte dei valori del movimento operaio rivoluzionario, esso solo apre la prospettiva dell'emancipazione sociale.
L'imperialismo americano e i suoi interventi in Iraq, Afghanistan... e contro il suo proprio popolo
Nonostante la cosiddetta ripresa che sarebbe cominciata più di tre anni fa, il paese sprofonda nella crisi. Solo la grande borghesia se la cava bene, con profitti in aumento mentre il tenore di vita della popolazione diminuisce, la miseria si estende e il numero dei poveri supera un altro primato.
In questo paese, il più ricco del mondo, si mostra pienamente il parassitismo della classe capitalista, tanto i danni che provoca sono visibili. L'essenziale delle ricchezze che questa classe trae dallo sfruttamento della classe operaia è distribuito sotto forma di dividendi, e utilizzato dai capitalisti per riacquistare le loro proprie azioni e farne aumentare il prezzo. Una minima parte dei profitti delle imprese quindi è dedicata a ciò che la scienza economica borghese chiama "investimenti", e ben pochi sono davvero investimenti nella produzione.
La disoccupazione non diminuisce, e coinvolge in realtà una cifra intorno al 20% della popolazione attiva. Le cifre al ribasso annunciate poco prima delle elezioni corrispondono solo ad un artificio statistico.
Le ondate di licenziamenti continuano e i padroni, quando devono assumere, fanno ricorso al lavoro interinale, ai contratti temporanei e al tempo parziale.
Il tasso di disoccupazione della popolazione di colore è due volte quello dei bianchi e i giovani senza diploma sono i più colpiti. Così il tasso di disoccupazione raggiunge il 70% nei giovani neri senza diploma. In quando agli anziani, percepiscono dallo Stato federale una pensione che ha perso metà del suo valore in vent'anni, e continua a essere erosa dall'inflazione.
La crisi immobiliare non ha finito di fare vittime, anche se già 4 milioni di famiglie hanno perso la casa. Ancora l'11% dei mutuatari hanno una casa il cui valore è inferiore alla loro ipoteca, e ci si aspetta che centinaia di migliaia tra di loro possano perdere il loro bene nei prossimi mesi.
La povertà si estende, mentre le spese sociali sono ridotte. Un quarto degli adulti non ha copertura medica, ma il governo ha fatto tagli in Medicare (la copertura federale delle persone anziane) e Medicaid (l'assicurazione dei poveri), mentre la sua riforma della previdenza medica prometteva l'estensione di Medicaid ad un più grande numero di persone.
A tutti i livelli - contee, città, distretti scolastici, Stati e Stato federale - la borghesia, in particolare la grande borghesia, assorbe il denaro pubblico. Tutti i bilanci sono in disavanzo, ma dedicano somme allucinanti alle banche prestatrici. Così la città di Detroit dedica più denaro al servizio del debito che non ai crediti per i servizi pubblici. Per soddisfare le banche e il padronato le autorità locali operano tagli drastici nelle file dei loro impiegati, riducono i salari e i vantaggi sociali di quelli che rimangono, e fanno tagli nelle spese sociali e nei servizi utili alla popolazione. Gli attacchi contro i lavoratori del settore pubblico e gli insegnanti sono raddoppiati quest'anno.
Il gran capitale succhia letteralmente il sangue del sistema educativo con l'aiuto dello Stato.
Mentre si chiudono scuole pubbliche a centinaia, si moltiplicano le scuole private, di cui gran parte sono controllate da banche, istituzioni finanziarie, ecc. Intascano il denaro pubblico e fanno pagare sempre più caro alla popolazione un servizio che neanche rendono. È uno spreco mostruoso di cui è vittima la gioventù delle classi popolari.
Nonostante tutto, da qualche mese l’avvicinarsi delle elezioni ha un po' rallentato l'ardore dei due partiti negli attacchi alla popolazione. Ma Democratici e Repubblicani sono già d'accordo per tagli di più di cento miliardi di dollari nelle spese dell'anno prossimo, che sono già previsti dal 2 gennaio. Anche a gennaio circa 3 milioni di disoccupati di lunga durata non avranno più diritto ai sussidi, che saranno molto limitati per tutti i disoccupati. Il 2013 si annuncia quindi come un anno molto difficile per la classe operaia, chiunque sia l'uomo che vincerà le elezioni presidenziali in corso.
Il risultato delle presidenziali non cambierà neanche la politica estera dell'imperialismo americano sui due principali campi delle sue operazioni militari.
Il 18 dicembre 2011, dopo nove anni di guerra, Obama ha ritirato ufficialmente dall'Iraq le ultime truppe dell'esercito americano. Si è congratulato con questa “riuscita notevole” affermando che “lasciamo dietro di noi un Iraq sovrano, stabile e autonomo."
L'intervento americano lascia un paese devastato, ingovernabile, logorato dalla corruzione; una popolazione decimata - ufficialmente 122.000 civili uccisi, ma sarebbero 1,5 milioni secondo alcune stime; 7 milioni di persone sono fuggite e si sono rifugiate in campi di cui due terzi sono all'interno stesso del paese. La politica del "dividere per imperare" ha già prodotto scontri sanguinosi tra milizie rivali e il paese è tutto meno che “stabile”. Numerosi attentati sanguinosi continuano dopo la partenza dell'esercito.
Pur ritirando ufficialmente le sue truppe, l'imperialismo americano ha mantenuto una presenza massiccia in Iraq: la sua ambasciata a Bagdad, la più grande del mondo con non meno di 17.000 impiegati; tre importanti centri strategici nelle principali regioni petrolifere, più 11 centri meno importanti in varie zone del paese. I soldati sono stati sostituiti con 35.000 mercenari.
Sei mesi dopo, questa occupazione del paese è tollerata tanto male che il Pentagono e la Cia hanno deciso di ridurre significativamente la presenza americana. “È evidente che dopo la partenza delle truppe non vogliamo conservare lo stesso numero di persone sul campo che avevamo al momento della guerra": questa dichiarazione di un responsabile è una confessione sulla cosiddetta partenza degli americani nel dicembre 211. Nonostante l'importanza del ritiro sia mantenuta segreta, e si parli di mandare gli impiegati nello Yemen o nel Mali, Baghdad dovrebbe rimanere uno dei principali centri della Cia. Certamente l'imperialismo americano non è partito dall'Iraq. E’ ancora lì, pronto ad intervenire per venire in aiuto alle compagnie petrolifere e difendere i suoi interessi nella regione.
In Afghanistan, dove l'esercito americano è presente, bisogna ricordarlo, alla testa di una coalizione militare di cui fa parte la Francia, l'intensificazione della guerra durante i due anni scorsi non ha migliorato il rapporto di forza a favore degli invasori. Al contrario l'attività degli insorti non è mai stata così intensa e la corruzione così generalizzata, la popolazione più che mai ricattata dalle milizie che pretendono di proteggerla. In 11 anni di guerra, l'esercito americano non ha fatto altro che nutrire e rafforzare la violenza di cui la popolazione è la principale vittima.
Quest'anno la popolazione ha espresso apertamente la sua collera con manifestazioni contro gli occupanti. La situazione è tale che gli attacchi contro i soldati della coalizione da parte di militari afghani si moltiplicano e rappresentano un terzo delle loro perdite.
Il più potente imperialismo del mondo aveva scelto l'Afghanistan come un obiettivo facile per una dimostrazione di forza lampante, in risposta agli attentati del'11 settembre. Al posto di una vittoria lampante, è la guerra più lunga mai fatta dagli Stati Uniti, e la dimostrazione che con la potenza militare non si può tutto. Tra l'altro quando Obama si è lanciato in dichiarazioni minacciose contro l'Iran, i militari non hanno esitato a far sapere pubblicamente che non avevano i mezzi per una nuova guerra.
La dimostrazione di forza che l'imperialismo americano voleva fare in questa regione non è stata convincente. Invece ha dimostrato sia in Iraq che in Afghanistan la sua capacità di nuocere e la sua barbarie.
Il ruolo crescente della Cina nelle relazioni internazionali
Isolata sulla scena internazionale per tre decenni dopo la presa di potere di Mao, sottomessa al blocco dell'imperialismo americano, la Cina è diventata col passar del tempo e della sua reintegrazione economica e politica un attore maggiore nelle relazioni internazionali. La decomposizione dell'Unione sovietica e la fine della bipolarizzazione delle relazioni internazionali tra il blocco sovietico da un lato e la grande maggioranza del mondo - più o meno sotto dominio imperialista - dall'altro hanno accelerato tale evoluzione.
Da qualche anno la Cina viene anche presentata come la seconda grande potenza del pianeta, la sola capace in assenza di un'Europa unificata di fare da contrappeso agli Stati Uniti, o addirittura capace di superare questo paese nei prossimi anni.
Questo ruolo crescente negli affari del mondo che viene attribuito alla Cina poggia sia sulla crescita dell'economia cinese, sulla sua trasformazione progressiva in una “officina del mondo”, ma anche sul suo peso demografico, la sua potenza militare e la sua influenza nell'est asiatico, e sempre di più in altri continenti, come l'Africa.
Abbiamo sottolineato in molte occasioni in passato il ruolo assunto nello sviluppo economico della Cina dallo statalismo e anche dalla sua rottura con le potenze imperialiste, innanzitutto con quella americana, anche se questa rottura era dovuta agli Stati Uniti ben più che al regime cinese stesso. Abbiamo sempre insistito sul fatto che anche ai tempi della Cina di Mao questo sviluppo si svolgeva in una prospettiva capitalista.
La centralizzazione statale ha dato alla borghesia cinese, suo malgrado, i mezzi di una specie di accumulazione primitiva, che non era affatto nelle possibilità della borghesia compradora ai tempi di Ciang Kai Cek. Nonostante il suo tasso di crescita rapido, mantenutosi anche dopo il suo reintegro parziale nel mercato capitalista mondiale, la Cina rimane però un paese semisviluppato.
La sua economia costituisce un'espressione originale dello sviluppo combinato: una miscela di economia statale e di economia privata, uno scarto crescente tra città ultramoderne e campagne sottosviluppate, una dipendenza rispetto ai capitali o alle tecnologie americane, giapponesi, ecc. La contraddizione tra l'affermazione “comunista” dei suoi dirigenti e il capitalismo selvaggio della sua vita economica esprime in qualche modo queste combinazioni esplosive.
La Cina sembra essere riuscita, durante i trent'anni scorsi, ad operare la sua transizione da un'economia statalizzata e chiusa all'esterno ad un'economia relativamente aperta ai capitali e alle potenze imperialiste, molto presente sul mercato mondiale, poiché il regime autorizza e addirittura favorisce l'accumulazione di capitali privati.
Questa evoluzione probabilmente non è ancora finita, tanto lo statalismo e un certo tipo di controllo del commercio estero, tra l'altro tramite la moneta cinese che non è liberamente convertibile, giocano un ruolo importante nell'economia.
Queste trasformazioni si sono svolte finora senza grandi scosse, sotto il controllo di uno stato cinese dal regime dittatoriale dominato da un partito unico, il Partito comunista cinese (Pcc).
Ma molti scricchiolii indicano che questo monolito quale sembra essere lo Stato cinese è minato dall'interno.
In primo luogo è minato dalla corruzione. La crescita economica dei trent'anni scorsi ha fatto emergere una classe privilegiata, che la stampa occidentale chiama volentieri “classe media” e in cui vede la promessa di un'evoluzione democratica. Questa classe privilegiata sembra essere una miscela di varie categorie sociali. In testa quadri ed esponenti dei vertici della burocrazia dello Stato e del partito, arricchitisi grazie alla “transizione economica” e al loro controllo dei vari livelli dell'autorità statale.
La prima generazione di questi quadri, quelli della guerra contro il Giappone e poi della presa di potere intorno a Mao, da molto tempo è scomparsa. La generazione successiva, quella che ha vissuto i vari periodi del regime comunista, dal “grande balzo in avanti” alla “rivoluzione culturale”, alla morte di Mao e all'inizio della trasformazione economica sotto Deng Xiao Ping, arriva alla fine del suo regno.
Sta arrivando alle porte del potere o ai suoi livelli intermedi una terza generazione di cui i più giovani, in generale discendenti di alti dirigenti della generazione precedente, quelli che la popolazione chiama col nome di “principi rossi”, già godono di una vita confortevole, lontana dalla giovinezza rivoluzionaria dei loro nonni, lontani anche dai rigori spartani imposti ai tempi della “rivoluzione culturale”. Molti tra di loro hanno studiato negli Stati Uniti o in Gran Bretagna. E se aspirano a qualcosa, certamente non è al comunismo ma ad una vita all'occidentale.
Accanto a questa categoria, ad essa collegata da tutta una serie di legami affaristici o addirittura matrimoniali, c'è una nuova borghesia che assomiglia sempre più alla vecchia borghesia compradora, compreso il suo ruolo d'intermediario per i capitali occidentali. Ci sono probabilmente anche elementi della vecchia borghesia che il regime di Mao aveva allontanati dal paese ma non distrutti, che tornano in Cina con i loro capitali via Taiwan, Hong-Kong, Singapore ed altri luoghi della vasta diaspora della borghesia cinese.
Per questa classe privilegiata di origine e cultura tanto diversi, probabilmente la corruzione è il più naturale legame sociale. È una corruzione sia individuale che sociale, tra categorie i cui interessi sono profondamente interdipendenti. Dato il peso conservato dallo Stato nella vita economica, le fortune private si possono edificare solo se beneficiano di complicità a vari livelli dello Stato, e quindi anche del partito. Così per esempio, tra i possessori delle maggiori fortune del paese che da qualche anno riescono a figurare in buona posizione nell'elenco stabilito dalla rivista americana Forbes, ci sono quelli che sono riusciti a mettere le mani sulle imprese statali, ma anche quelli che si sono arricchiti nella speculazione immobiliare. Ma mettere le mani sulla proprietà fondiaria comporta avere collegamenti molto stretti se non con il potere centrale, almeno con i poteri regionali.
Questa corsa all'arricchimento privato e alla corruzione corrodono inevitabilmente l'apparato dello Stato e quello del partito.
Il potere apparentemente monolitico del Pcc non ha soppresso le rivalità individuali e le rivalità dei clan. Non fa altro che nasconderle.
D'altra parte, in questo immenso paese, il più popolato del mondo, il potere centrale deve lasciare in pratica un buon margine di autonomia ai poteri locali, cioè ai responsabili del partito nelle varie province, così come a quelli delle grandi megalopoli.
Nonostante il carattere molto frammentato delle informazioni che ci arrivano, alcuni episodi recenti lasciano pensare che intense lotte si svolgano nei cerchi dirigenti del partito comunista cinese e dello Stato. Un esempio è il caso Bo Xi Lai. Questo esponente del regime, ex ministro del Commercio, dirigente del PC a Chongqing, la più grande agglomerazione del paese, membro dell'Ufficio politico centrale, era evidentemente candidato al potere. Mirava alla successione che si stava organizzando in vista del diciottesimo congresso del PC nel novembre 2012 o per più tardi? Comunque la sua caduta è stata folgorante: all'inizio del 2012 il suo primo luogotenente, il capo della polizia di Chongqing, ha chiesto asilo ad un consolato degli Stati Uniti. La moglie di Bo Xilai è accusata di essere coinvolta nell'assassinio di un britannico. Poi lo stesso Bo Xilai è pubblicamente accusato di corruzione "di massa" e di essere ricorso ad intercettazioni telefoniche di alti dirigenti del Partito comunista, di cui è il presidente. È stato espulso ad aprile e adesso aspetta il processo, mentre il suo ex vice e sua moglie marciscono in carcere.
Il PC stesso dice di avere sanzionato in cinque anni 660.000 quadri per corruzione, e di averne fatto giudicare penalmente 24.000. Il caso Bo Xilai, che ha beneficiato di una rarissima pubblicità, probabilmente non è altro che la parte emersa di un immenso iceberg. Hanno una lunga storia le lotte tra il potere centrale e le feudalità locali e in seno al potere centrale, ma sembra che siano ormai più vive, e addirittura più violente.
Lo sviluppo dell'economia cinese, la cui crescita era in media del 10% l'anno dal 1980, adesso sta rallentando: il suo Pil dovrebbe aumentare solo del 7,5% nel 2012 a causa del calo della domanda interna, ma soprattutto esterna. La crisi mondiale, in Europa in particolare, grava pesantemente sulle vendite all'estero: le esportazioni che aumentavano ancora del 20% l'anno nel 2010 ormai sono stabili. Così la Coface, organismo dello Stato francese al servizio del padronato che investe all'estero, nota una "degrado del comportamento di pagamento" delle imprese cinesi, in altre parole fallimenti più numerosi dal 2008. Si moltiplicano i sintomi di una crisi. La Borsa di Shangai ha toccato il fondo; in cinque anni il suo indice è calato del 66% e la caduta continua. Si teme una crisi bancaria, a causa di crediti sospetti di cui nessuno conosce l'esatto ammontare, ma che potrebbero attestarsi a 400 miliardi di dollari. La stampa occidentale sottolinea volentieri l'importanza delle riserve di cambio cinesi e il basso indebitamento dello Stato centrale (22% del Pil). Ma parla meno dell'indebitamento degli enti locali, che svolgono un ruolo economico importante tramite le "piattaforme di finanziamento locali". Alcuni distretti, città e province presentano tassi di indebitamento oltre il 400% dei loro redditi annuali. Complessivamente l'indebitamento degli enti locali potrebbe rappresentare una cifra dal 25 al 35% del Pil.
Come in molti paesi che ostentano tassi di crescita spettacolari, la crescita cinese è stata alimentata dalla speculazione, a tal punto che nel 2010 le autorità hanno vietato i crediti e la creazione di debiti in sei settori ritenuti in sovra-capacità (l'acciaio, il cemento, l'eolico, la chimica del carbone, il vetro e il silicone). Ma senz'altro la più importante è la speculazione immobiliare. L'investimento nella casa rappresenta il 10% del Pil e ha svolto un ruolo determinante nella "crescita" generale dell'economia. Per esempio nel 2009 gli investimenti nell'immobiliare aumentavano del 45% e rappresentavano complessivamente un quarto della crescita dell'investimento totale. Nelle grandi città quali Shangai, Pechino o Shenzhen, questa speculazione è evidente, i prezzi delle case sono aumentati enormemente (più 12% nel 2010 e qualche volta anche oltre) e i promotori immobiliari non esitano davanti ad alcun artificio speculativo, compreso quello di non mettere sul mercato le case già costruite in modo da mantenere i prezzi alti. Oggi il paese conterebbe 70 milioni di appartamenti inoccupati. Questa bolla, di fronte alla quale il potere centrale sembra quasi impotente, scoppierà come ha fatto negli Stati Uniti o in Spagna? E’ un’ipotesi probabile.
Da trent'anni la crescita economica si è svolta grazie allo sfruttamento vergognoso della classe operaia, la più numerosa del mondo, tra l'altro dei milioni di migranti che ogni anno vengono dalle campagne ad aumentare le file del proletariato urbano; nonostante il rallentamento della crescita ogni mese le imprese creano ancora un milione di posti di lavoro. Un'impresa di materiale elettronico e informatico come la taiwanese Foxconn, appaltatrice di Apple, HP, Amazon, Sony o Microsoft, oggi conterebbe 1,2 milioni di salariati in Cina di cui 400.000 a Shenzhen, ex villaggio di pescatori che oggi conta 10 milioni di abitanti. Sappiamo ancora ben poco delle lotte dei lavoratori cinesi. La stampa ha dato notizia di parecchie lotte, o addirittura di rivolte, come nel settembre 2012 a Taiyuan, al nord del paese, dove una sommossa ha mobilitato 2000 operai ed è terminata con l'intervento di 5000 poliziotti, facendo parecchie decine di feriti. Dieci giorni dopo, da 3000 a 4000 operai erano in sciopero nella fabbrica di Zhengzhou che conterebbe 200.000 lavoratori. Questi operai, che montano l'Iphone 5, protestavano contro i ritmi infernali che sono imposti in ciò che assomiglia ad un campo di lavoro. Lo sciopero sarebbe finito solo dopo che la Foxconn ha minacciato di licenziamento tutti i partecipanti. Sono tra l'altro queste lotte che spiegano l'aumento dei salari nelle grandi città industriali. Certamente sfruttare la manodopera cinese rimane nondimeno redditizio per i capitalisti occidentali; il costo della manodopera rappresenta appena più del 2% del prezzo di produzione di un Ipad. Ma le battaglie di questa classe operaia potrebbero essere una promessa per il futuro, soprattutto se si accompagnassero con una presa di coscienza dei suoi interessi politici.
Russia: Putin o l'irresistibile ritorno
In Russia l'anno scorso è stato segnato dal ritorno al Cremlino di Putin per un terzo mandato, e dai movimenti di contestazione suscitati da questo ritorno.
Le manifestazioni sono cominciate durante l'autunno del 2011 e hanno mobilitato per mesi una frazione della popolazione delle grandi città contro le frode di massa nelle elezioni politiche, "per elezioni oneste" e contro il regime incapace di garantirle.
Una gran parte della piccola borghesia urbana aveva voluto credere che il regime potesse evolversi nel senso che essa si augurava, cioè di un ammorbidimento dei meccanismi di controllo sulla società, di decisione e di arricchimento da parte degli uomini del potere, in una parola da parte della burocrazia. Sperava che il suo punto di vista sarebbe stato preso in considerazione durante le elezioni, e più concretamente di non dovere più sopportare i prelievi sempre più pesanti a cui l'apparato statale sottomette tutta la società. Questo va dal poliziotto che ricatta apertamente gli automobilisti, ai pompieri che per intascare una bustarella minacciano di chiudere una bottega perché non risponde alle norme di sicurezza incendio, fino ai ministri affaristi che grazie ai giudici, corrotti anche loro, possono impossessarsi di gruppi privati la cui prosperità ha suscitato la loro cupidigia. L’unico mezzo per evitare ogni genere di ricatti consiste nell’avere in seno all'apparato dello Stato protezioni abbastanza forti, comunque sempre costose, da assicurare una certa “indipendenza”.
Quando Putin nel 2008 aveva, nel rispetto della costituzione che gli vietava un terzo mandato consecutivo, passato il potere ad un suo prossimo, Medvedev, pur riservandosi il posto di primo ministro, molti piccolo borghesi avevano voluto credere ad un'evoluzione positiva dal punto di vista dei loro interessi. Alla fine avevano riposto le loro illusioni in questo Medvedev. Infatti anche una parte dell'alta burocrazia sembrava scommettere su di lui contro il clan vicino di Putin. Ma lo stesso Medvedev si è incaricato di deluderli, proponendo a Putin di riprendere la poltrona presidenziale che gli aveva mantenuta calda. Questione di rapporti di forza al vertice della burocrazia.
La rabbia che si è allora espressa nelle piazze da parte degli studenti, poi dell'intellighenzia (scrittori, giornalisti, artisti, universitari, avvocati) e poi di una massa di commercianti, di padroni piccoli o medi, o addirittura di alcuni “oligarchi” che hanno avuto qualche difficoltà con il potere, era dovuta anche alla situazione creatasi dopo la crisi finanziaria mondiale del 2008.
Infatti nonostante le pretese di Putin, che da anni ha affermato di voler fare cessare questa “dipendenza umiliante”, i redditi della Russia provengono ancora in larga parte dalle sue esportazioni di materie prime, in testa petrolio e gas. Però a fissare i corsi delle materie prime sono i mercati finanziari e non il Cremlino, motivo per cui la Russia non può assicurarsi entrate stabili, a pari livello di esportazioni. A questo si aggiunge il fatto che le sue esportazioni sono diminuite anche in volume, effetto dell'aggravamento della crisi del 2008.
Per anni il regime aveva potuto dire al piccolo borghese russo: "certamente non puoi aprire bocca, ma almeno te la riempiamo", e questi ne era soddisfatto. Ma questo "argomento" ha perso il suo fascino, man mano che la piccola borghesia trovava sempre meno cose da racimolare nella mano di ferro della putiniana "democrazia amministrata". E tra l'altro le autorità hanno confermato questa cosa, annunciando che la situazione le costringeva a prendere misure di austerità. Riducendo i redditi della popolazione, queste misure ridurranno ciò che può dedicare al suo consumo, e quindi i redditi della piccola borghesia, e innanzitutto della sua componente commerciante.
La sua mobilitazione, sulla scia delle elezioni legislative e presidenziale, alla fine è calata. Significativo è il caso delle Pussy Riot, le tre cantanti anti Putin accusate di blasfemia, che ha potuto occupare la scena della protesta, dopo che centinaia di migliaia di persone avevano occupato le piazze per settimane senza sollevare la stessa emozione. Sempre più episodiche, dalla primavera le manifestazioni raggruppano solo alcune migliaia di persone, soprattutto membri di gruppi che vanno dall'estrema destra nazionalista all'estrema sinistra, con una maggioranza di fautori e rappresentanti di movimenti di destra filo occidentali.
Non avendo potuto impedire le prime manifestazioni, il Cremlino aveva evitato di gettare benzina sul fuoco nei momenti più roventi del movimento. Ma quando il riflusso è cominciato, il potere ha colpito fortemente. I manifestanti, o quelli considerati tali, sono stati sistematicamente manganellati e il potere ha varato una legge che consente di vietare ogni manifestazione. Si sono moltiplicate le incarcerazioni senza processo.
Nonostante il loro carattere spettacolare, a Mosca le manifestazioni contro Putin non sono andate oltre l'ambiente della piccola borghesia. L'immensa maggioranza della popolazione ne è rimasta lontana, o addirittura guardava queste manifestazioni con qualche ostilità. Non era tanto per simpatia nei confronti di Putin, anche se una maggioranza della popolazione lo sostiene, almeno in mancanza di altro. Ma il carattere di questo movimento, con i suoi dirigenti di destra filo occidentali che spesso sono appartenuti agli ambienti di potere, e i suoi membri delle “classi medie”, poteva solo essere visto da parte delle classi lavoratrici, anche se in modo confuso, come estraneo o addirittura opposto a loro.
Si è visto in questi mesi lo svolgersi di uno scenario che ricorda ciò che era successo nell'Unione sovietica della perestrojka, quanto le lotte di clan al vertice della burocrazia avevano mobilitato larghi strati della piccola borghesia, senza che la classe operaia intervenisse sulla scena, se non in modo marginale e strettamente subordinato. Il risultato è quello che si vede, essendo la burocrazia rimasta maestra del gioco sulle rovine dell'Unione sovietica.
Due decenni dopo, sempre perché la classe operaia rimane la grande assente dalla scena politica, la piccola borghesia può sentirsi incoraggiata a contestare il regime in nome della “democrazia”. Anche per questo motivo fondamentale la contestazione rimane senza appoggio nella massa della popolazione, e il regime la può affrontare senza esserne davvero scosso.
La classe operaia avrebbe molti motivi per destarsi contro un regime che la opprime e protegge i suoi sfruttatori. Avrebbe innanzitutto interesse, oltre a difendere le sue proprie rivendicazioni, a tentare di prendere la testa di un movimento che contenda il potere alla burocrazia e alla nuova borghesia che protegge, un movimento che questa volta avrebbe la capacità di trascinare una maggioranza della popolazione.
Per questo ci vorrebbero, in Russia come altrove, gruppi e partiti che avessero la volontà e il coraggio di rivolgersi politicamente alla classe operaia, di cercare di organizzare un'avanguardia cosciente nel suo seno, di costruire su questa base organizzazioni comuniste rivoluzionarie, piuttosto che accodarsi a movimenti socialmente estranei e politicamente ostili alla classe operaia.
Negli altri Stati dell'ex Unione sovietica
Delle 14 altre ex repubbliche sovietiche indipendenti dal 1991, sono gli Stati baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) che se la cavano meglio. Avendo raggiunto l'Unione europea nel 2004, questi piccolissimi paesi (7 milioni di abitanti complessivamente) hanno fino ad un certo punto beneficiato dell'integrazione in una delle zone economiche più sviluppate del pianeta, anche se sono tra gli Stati europei più colpiti dalla crisi del 2008.
Trattandosi degli altri Stati sorti dalla decomposizione dell'Unione sovietica, da due decenni il cambiamento si è manifestato con l'installazione di regimi tutti più meno mafiosi, dagli importanti tratti nepotistici e despotici segnati o meno dall'integralismo religioso, sullo sfondo di una regressione sociale e culturale di cui le donne sono, com'è di regola in tali circostanze, le prime vittime.
A seconda che questi paesi abbiano avuto la fortuna - o meglio la disgrazia per i loro popoli - di disporre di risorse abbondanti in materie prime, i loro regimi sono trattati diversamente dalle grandi potenze. Così i governi dell'Ovest europeo e americano non mancano un'occasione per denunciare il carattere antidemocratico del regime bielorusso di Lukascenko, mentre quelli ancora più dittatoriali di Karimov nell'Uzbekistan, di Berdimukhamedov nel Turkmenistan o di Nazarbaiev nel Kazakhstan, beneficiano del silenzio complice dei governi e dei mass media dei paesi imperialisti, o anche delle organizzazioni non governative. Non importa a questi ultimi che questi regimi facciano scorrere il sangue della loro popolazione e della classe operaia, purché assicurino l'estrazione del petrolio e del gas, a beneficio delle grandi società petrolifere e dei giganti mondiali della costruzione.
Quanto all'Ucraina, alla Georgia oppure alla Moldavia, i cui dirigenti hanno voluto far credere ai loro popoli che potevano aspettarsi un futuro migliore dall'Unione Europea o anche della Nato, se si fossero messi a rimorchio del campo occidentale, questi paesi non hanno guadagnato niente in questa adesione. Neanche il diritto di essere integrati, nemmeno come ultima ruota del carro e in posizione subordinata, a queste istituzioni e alle organizzazioni del mondo imperialista.
Da molto tempo il sistema capitalista non ha più niente di positivo da portare all'umanità, a maggior ragione oggi che si trova immerso in una crisi planetaria profonda. L'esempio di ciò che è è successo negli Stati sorti dall'ex Unione sovietica ne dà la conferma, per un sesto della superficie abitata del pianeta.
L'Europa centrale e balcanica: la parte povera del continente di fronte alla crisi
Ben prima dell'allargamento dell'Unione europea all'Europa centrale nel 2004, poi ad una parte dell'Europa orientale nel 2007, i giganti dell'automobile americani, asiatici e dell'Ovest europeo, si erano installati in questa regione. Volevano approfittare di una manodopera qualificata e a buon mercato grazie ai bassi salari locali, spinti ancor più al ribasso dalla disoccupazione aumentata con lo smantellamento dei grandi combinati industriali dell'era staliniana. Ci si aggiungevano le importanti sovvenzioni dell'Unione europea alla loro installazione, aggiunte ai vantaggi che concedevano governi locali generalmente pronti a svendersi.
Il padronato occidentale dell'industria dell’automobile vedeva solo vantaggi in questo processo. Con le sovvenzioni europee, i famosi “fondi strutturali”, questi paesi avevano potuto modernizzare la loro rete stradale e autostradale. Connessa a quella dell'Europa dell'Ovest, consentiva ormai ai costruttori di smerciare facilmente i veicoli prodotti lì con salari due o tre volte più bassi, ma venduti ai prezzi dell'Ovest europeo.
Questi stessi costruttori di automobili guardavano anche al mercato locale di questi paesi, un mercato che valutavano nel 2004 a 4 milioni di immatricolazioni l'anno. Ma per il basso tenore di vita imposto alle classi lavoratrici di queste regioni e i bassi salari che la loro integrazione all'Unione europea non hanno mai fatto crescere davvero, le cifre mirabolanti avanzate nelle previsioni di immatricolazioni di veicoli non sono mai state raggiunte. Infatti non hanno mai superato 1,3 milioni in ritmo annuo, scendendo anche ad 800.000 l'anno scorso, in gran parte corrispondenti a vendite di veicoli usati. Quindi niente che possa “stimolare la domanda interna”, come si dice nella stampa economica.
Questo significa che anche prima della crisi dell'automobile invocata dai padroni dei paesi occidentali per sopprimere migliaia di posti di lavoro, i paesi dell'est e del centro dell'Europa, e comunque la loro popolazione lavoratrice, non hanno mai davvero approfittato di ciò che qui i demagoghi nazionalisti presentano come impieghi di cui la delocalizzazione avrebbe privato i lavoratori dell'Ovest europeo. Senza dimenticare che se il mercato mondiale diminuisce più fortemente, i costruttori francesi, tedeschi, ecc. ovviamente non risparmieranno i loro salariati cechi, slovacchi, sloveni, rumeni e altri.
Ciò che è vero per l'industria automobile lo è anche per tutti i settori della loro economia, ormai largamente penetrata dal capitale occidentale, comunque nei settori più redditizi poiché gli altri sono stati tralasciati.
I paesi dell'Europa centrale e orientale già sono stati più fortemente di altri colpiti dalla crisi del 2008, fosse solo perché le loro economie ancora presentano tratti di sottosviluppo, che l'economia statalizzata del periodo staliniano non aveva fatto scomparire.
A questo si aggiunge il fatto che la maggior parte di essi hanno monete deboli rispetto all'euro, al dollaro, al franco svizzero o alla sterlina, e che per assumere le loro spese in un contesto di stallo o addirittura di recessione devono prendere prestiti in queste cosiddette monete forti.
La crisi del debito e, dietro questo vocabolo destinato a mascherare la realtà economica e sociale, i banchieri che strangolano Grecia, Spagna e Portogallo tra gli altri, colpiscono non meno duramente la maggior parte di questi paesi del centro e dell'est del continente, di cui il commercio intraeuropeo neanche è protetto un po' dall'euro, e le cui economie nazionali sono incapaci di far fronte alla pressione congiunta della crisi e della rapacità della finanza mondiale.
La disoccupazione, già alta dopo la distruzione dell'economia statalizzata che in due decenni non è stata compensata da un'economia più sviluppata, segue una curva in crescita dal 2008. I tassi ufficiali della disoccupazione sono almeno tanto alti in Repubblica ceca, in Polonia, in Slovenia, in Romania quanto in Francia, e sono superiori in Slovacchia, in Ungheria, in Bulgaria, Lituania ed Estonia. Superano anche il 15% della manodopera in Croazia, Lettonia, o addirittura il 20% in Polonia.
Questa disoccupazione tocca particolarmente i giovani e più ancora le donne che un po' più di venti anni fa, ai tempi del blocco dell'est, avevano praticamente tutte un posto di lavoro.
Questa disoccupazione colpisce e ha già colpito da anni in Slovacchia, Repubblica ceca, Ungheria, Polonia, Romania e Bulgaria, una parte della popolazione che costituiva una gran parte del proletariato delle aziende agricole collettive e dei grandi combinat industriali, della costruzione e dei lavori pubblici: i rom. Al contrario di ciò che alcuni demagoghi vorrebbero far credere, questi rom venuti dall'Europa centrale, che il ministro dell'interno francese Valls caccia con la stessa energia usata prima di lui dai ministri degli interni di Sarkozy, in gran parte non sono nomadi. Erano già stanziali, qualche volta da parecchie generazioni, e si sono incamminati verso l'Europa dell'Ovest solo perché da una ventina d'anni si ritrovano senza lavoro a casa loro, perché niente ha sostituito le industrie e le aziende agricole che li impiegavano.
Nei loro paesi d'origine, sono anche le vittime dei politici già al potere o di quelli che ci vorrebbero arrivare, che cercano di sviare l'attenzione della maggioranza della popolazione dai veri responsabili delle sue peggiorate condizioni di esistenza, della disoccupazione e della crisi, indicando come capri espiatori delle sue disgrazie i più poveri dei proletari locali.
I rom sono ufficialmente riconosciuti dagli Stati dove vivono come cittadini di pieno diritto. L'unione europea ne ha anche fatto ipocritamente una condizione d'adesione di questi paesi, senza cercare di verificare cosa c'era davvero dietro questo riconoscimento formale, e ancora meno cercando di impedire che fossero vittime di discriminazioni di ogni genere. Infatti i rom ungheresi, cechi, slovacchi, rumeni ecc. sono sempre più vittime di politiche xenofobe che li indicano come stranieri a casa loro. Qualche volta questo porta fino all'organizzazione di pogrom e assassinii tollerati dalle autorità, che comunque non li reprimono, e qualche volta li incoraggiano.
In Ungheria il partito fascistizzante Jobbik, di cui uno dei capi ha potuto dichiarare al giornale conservatore Magyar Nemzet: "è venuto il tempo di un Ku Klux Klan ungherese", ha il suo tratto caratteristico nel perseguitare gli ebrei - anche se praticamente non ce ne sono più in questo paese dopo il loro sterminio da parte dei nazisti durante la seconda guerra mondiale - e i rom. Contro questi ultimi, Jobbik ha formato milizie paramilitari che organizzano spedizioni punitive nelle borgate, dove da decenni numerosi rom vivono in prossimità degli ex kolkhoz e combinat metallurgici smantellati.
Il partito al potere Fidesz e il suo capo, il presidente Orban, non smettono di rivolgersi agli elettori di Jobbik, che ha raccolto il 17% dei voti alle ultime elezioni generali. Rincarano la dose di un nazionalismo apertamente xenofobo, spingendosi sulla strada di una repressione più violenta, che già si esercita contro una parte del proletariato, rom all'occorrenza.
Dappertutto in Europa centrale aumenta l'influenza delle chiese, come aumentano l'esaltazione di un passato supposto glorioso, la nostalgia dei periodi della Storia in cui lo Stato era più potente e il territorio che controllava più esteso, a detrimento dei suoi vicini odierni. Questa nostalgia del passato è naturalmente carica di rivendicazioni territoriali nei confronti degli Stati vicini.
Questa reazione che si installa sullo sfondo della crisi e della putrefazione delle condizioni sociali e economiche imposte dal capitalismo ai popoli, non è una specificità ungherese, né tra l'altro dell'Europa centrale e balcanica. In Romania, Bulgaria, ex-Jugoslavia, partiti razzisti, xenofobi e di estrema destra meno conosciuti di Jobbik o dei filo nazisti cacciatori di immigrati di Chryssi Avghi (Alba dorata) in Grecia, preoccupano anche i partiti al potere, con i loro tentativi di suscitare la guerra tra poveri, per allontanarli dai loro veri nemici di classe: i possidenti, i capitalisti nazionali e internazionali.
Infatti, dato che è più povera, meno sviluppata economicamente dell'Europa occidentale, la parte centrale e orientale del continente ci mostra ciò che si potrebbero attendere tutti i popoli d'Europa, forse sotto forme diverse, se la crisi si approfondisse senza una nuova ascesa delle lotte coscienti del proletariato. Un brusco avanzamento della povertà si accompagna a politiche nazionaliste, che aizzano ogni popolo contro “l'altro”, che si trovi al di là delle frontiere o che sia presentato nello stesso paese come di origine diversa: politiche che comunque nascondono appena la loro xenofobia o addirittura il loro razzismo. Queste politiche che aizzano una parte dei poveri contro gli altri hanno tutte lo stesso risultato: intossicare i lavoratori con il veleno del nazionalismo, del razzismo, della xenofobia, per allontanarli dalla battaglia di classe contro l'unica responsabile della loro situazione, la borghesia.
Le rivolte nei paesi arabi, due anni dopo
Quasi due anni dopo le prime manifestazioni in Tunisia, quale è il bilancio delle rivolte che hanno scosso parecchi paesi arabi?
Bisogna prima ricordare l'estrema varietà delle situazioni raggruppate dai giornalisti sotto il nome di "primavera araba", quando non "rivoluzione araba". Se la prima espressione, per quanto poetica, non ha alcun significato, la seconda è falsa.
In Tunisia ed in Egitto una mobilitazione di massa della popolazione, che ha trascinato più o meno anche le classi povere, è stata il punto di partenza dei processi che hanno portato alla caduta dei rispettivi dittatori. Ma anche in questi due paesi è stato l'intervento dell'imperialismo, e più precisamente dell'imperialismo americano, a decidere in fin dei conti della sorte di Ben Ali e di Mubarak. Per fermare la mobilitazione, ed evitare che si orientasse verso una contestazione sociale e politica più larga, gli imperialisti tramite i loro collaboratori degli apparati statali di questi due paesi hanno spinto alle dimissioni dei dittatori odiati. Poi hanno contribuito ad installare e a dare credito a poteri di ricambio sotto la copertura di una cosiddetta transizione democratica.
In Tunisia le elezioni all'assemblea costituente nell'ottobre 2011 hanno portato al potere il partito islamista Ennahda. Questo partito ovviamente non ha intaccato gli interessi delle classi dominanti, e la situazione delle classi popolari non è migliorata. Il tasso ufficiale di disoccupazione, un tasso sottovalutato rispetto alla realtà più di quanto non avvenga in Francia, è appena sotto il 20% e in alcune regioni supera il 50%. Dal punto di vista del diritto delle donne, la situazione si è evoluta in senso reazionario anche rispetto a ciò che esisteva sotto la dittatura di Ben Ali. Nell'agosto scorso il governo per esempio ha cercato di introdurre nella costituzione la nozione di " complementarietà" della donna rispetto all'uomo. Questo ha fatto scattare una serie di proteste che sono riuscite a evitare, almeno per il momento, questa ignominia. Più in generale l'attivismo reazionario degli islamisti di ogni genere, di quelli di Ennahda o dei salafisti che fanno loro concorrenza a destra, pesa fortemente sulla società. Recentemente il fatto di cronaca di una giovane tunisina stuprata dai poliziotti e poi incolpata dell’accaduto, con l'approvazione del Ministero di Giustizia, dimostra lo sviluppo di queste idee reazionarie e il sostegno che possono trovare al livello dello Stato.
Anche in Egitto gli islamisti hanno avuto la meglio. Il Partito della giustizia e della libertà, nome elettorale dei Fratelli musulmani, è arrivato in testa nelle elezioni politiche dell'inizio del 2012. A giugno il loro candidato alla presidenziale Mohammad Morsi è riuscito a sconfiggere il candidato dell'esercito Ahmad Shafik. Le rivalità fra l'esercito e i Fratelli musulmani si sono regolate sia nelle elezioni che dietro le quinte del potere: ad agosto Morsi ha annunciato il pensionamento del generale Tantaui, capo del Consiglio supremo delle forze armate. Nonostante questo episodio di rivalità politica tra l'esercito e i Fratelli musulmani, non va dimenticato che da molto tempo, e ben prima della caduta di Mubarak, i due partiti sono stati largamente complici nel mantenimento dell'ordine sociale in Egitto. D'altra parte, gli islamisti arrivati al potere hanno saputo dare garanzie all'imperialismo, fosse solo col non modificare la politica dell'Egitto nei confronti del vicino israeliano.
Nel campo sociale questo potere evidentemente non è più a favore dei poveri del precedente. Liberali in economia, i Fratelli musulmani sono apprezzati dal Fondo monetario internazionale per la loro ortodossia finanziaria.
In Libia la contestazione si è rapidamente trasformata in uno scontro armato tra i vari clan, ed è ben difficile capire secondo quali criteri si siano divisi tra i pro e i contro Gheddafi. Gli Stati imperialisti francese e inglese hanno deciso un intervento militare per far pendere la bilancia a favore dell'opposizione e sbarazzarsi di Gheddafi. Se la popolazione ha forse potuto esultare nel veder scomparire questo dittatore sanguinario, non può comunque aspettarsi un gran che dal regime attuale, che si appoggia ad una assemblea di partiti, tutti d'accordo nel fare riferimento alla legge religiosa, la sharia. E questo tanto più che la situazione politica è ben lungi dall'essere stabilizzata. Il potere non è ancora stato capace di disarmare le milizie e di ristabilire l'unità dell'apparato di Stato.
Adesso in Siria la strage dura da quasi 19 mesi e ha fatto parecchie decine di migliaia di vittime. All’inizio la contestazione sarebbe partita da Deraa, una città di provincia di dimensioni modeste vicina alla Giordania, dopo che alcuni scolari che avevano dipinto slogan ispirati alle mobilitazioni in Egitto erano stati arrestati e torturati. Una prima ondata di manifestazioni regolari contro il regime si era estesa in parecchie città del paese. Il potere del dittatore ha risposto rapidamente con una repressione feroce, facendo sparare sulla folla e perfino bombardare le città o i quartieri ribelli.
Al di là dei discorsi vuoti di contenuto, l'atteggiamento dei dirigenti imperialisti nei confronti del regime è stato un attendismo complice. Per decenni l'imperialismo ha saputo appoggiarsi alla dittatura di Assad padre, e poi di Assad figlio, per contribuire a mantenere l'ordine in questa regione del mondo. I dirigenti imperialisti quindi hanno preferito lasciar schiacciare il movimento di massa dal regime, se movimento di massa c'era. Il veto di Russia e Cina ad ogni intervento militare Onu in Siria ha consentito alle grandi potenze occidentali di non dover giustificare presso la loro opinione pubblica la loro passività di fronte a questa strage. Poi, con il persistere della protesta, le possibilità d'intervento dell'imperialismo sono state limitate dalla mancanza di collaboratori al livello dell'apparato di Stato di Assad, e quindi dalla loro difficoltà a preparare una soluzione di ricambio al potere del dittatore.
Col passare dei mesi, sotto i colpi della repressione la contestazione ha assunto un carattere militare. Sono apparse delle milizie e un “Esercito siriano libero” si è progressivamente costituito a partire da nuclei dell'esercito ufficiale, con alla sua testa un ex colonnello del l'aeronautica militare. È ben difficile sapere a che punto le milizie sono unificate dietro un comando unico. Questo esercito si è autoproclamato “direzione dell'opposizione al regime” e le manifestazioni popolari si sono fermate, certamente a causa della repressione, ma anche perché una gran parte della popolazione non poteva riconoscersi in questa direzione imposta dall'alto. Tanto più che la prima conseguenza della cosiddetta “liberazione di una città”, come si è affermato per l’occupazione di Aleppo, ha significato per la sua popolazione diventare l’obiettivo dei bombardamenti dell'esercito di Assad. Comunque è sempre più evidente che i metodi dell'ESL non sono migliori di quelli dell'esercito ufficiale. Nelle cosiddette regioni “liberate” dall'ESL, quest'ultima impone la sciaria e giustizia gli oppositori. Si tratta quindi sempre più di una guerra aperta tra potere centrale e milizie, in cui ogni protagonista prende in ostaggio la popolazione civile. La Siria diventa un campo di battaglia nel quale le potenze regionali circostanti si confrontano: l'Iran dalla parte del potere, la Turchia, l'Arabia Saudita e il Qatar a fianco delle milizie.
Nel Marocco e in Algeria, la contestazione politica non ha mai preoccupato davvero i regimi al potere, anche se gruppi di partiti e sindacati hanno cercato di suscitarla. In questi due paesi c'è uno sviluppo della contestazione sociale con scioperi, manifestazioni e qualche volta anche sommosse. Ma tutto ciò rimane sul terreno economico e sociale e non ne risulta una contestazione del regime politico.
Parlando di Tunisia e Egitto, dove il movimento è partito dal basso e ha mobilitato una parte importante della popolazione, compreso una parte degli sfruttati, abbiamo scritto nel testo dell'anno scorso: "la politica dei rivoluzionari comunisti sarebbe consistita nell’opporsi ai discorsi sulla transizione democratica, dietro ai quali si ritrovavano sia i dirigenti del mondo imperialista, sia i borghesi contenti di sbarazzarsi del clan Mubarak, sia i piccoli borghesi più radicali. Questa transizione democratica non aveva altro obiettivo che quello di cambiare il modo di funzionamento del vertice, in modo che nulla cambi nel paese.”
In questi due paesi i militanti comunisti rivoluzionari sarebbero intervenuti per far sì che il proletariato approfittasse pienamente del movimento popolare e della libertà importante che ne derivava dopo lunghi periodi di dittatura, perché i lavoratori si organizzassero, non solo per difendere i loro interessi economici e materiali, ma anche per portare avanti obiettivi politici corrispondenti ai loro interessi di classe, pur partecipando alla battaglia comune con altre categorie sociali per cacciare i dittatori.
Ovviamente ci è impossibile sapere fino a che punto sarebbe arrivata una corrente comunista nella cosiddetta “primavera araba”. Non avendo un intervento sul posto con il necessario orientamento politico, e quindi non essendo in grado di avanzare obiettivi parziali in funzione di una situazione in evoluzione, non sappiamo quale è stata la dinamica del movimento popolare e quali possibilità avrebbe offerto ad un intervento indipendente della classe operaia. Ogni affermazione in questa materia, anche espressa retroattivamente, sarebbe puramente ipotetica.
Invece ciò che si può dire con certezza dopo due anni, è che anche i semplici diritti e le libertà democratiche sarebbero possibili in questi paesi solo se la classe operaia assumesse la direzione delle lotte degli sfruttati. In questo mondo dominato dalla borghesia e dall'imperialismo, anche una democrazia parlamentare con una relativa libertà politica è un lusso che solo i ricchi paesi imperialisti possono permettersi. E anche in questi ultimi, dietro le apparenze democratiche c'è la dittatura del gran capitale. Nei paesi poveri la battaglia per i diritti e le libertà democratiche si confonde in realtà con la battaglia del proletariato cosciente per la sua emancipazione sociale tramite l'esproprio della borghesia.
Ciò che possiamo augurarci è che il movimento di rivolta nei paesi arabi risvegli la coscienza politica di una nuova generazione, che capisca come non basti sbarazzarsi di un dittatore, ma sia necessario anche sbarazzarsi delle classi privilegiate dominanti legate all'imperialismo. Solo il proletariato di questi paesi, organizzato sulla base dei suoi interessi di classe, può portare fino in fondo questo compito.
Il conflitto palestino - israeliano
Quest'anno il conflitto palestinese-israeliano non ha conosciuto alcuna evoluzione notevole. Nessuna volontà si è espressa, né da parte dei dirigenti israeliani, né da parte del loro protettore americano, per ridare vita ad una parvenza di negoziato. L'autorità palestinese stessa, che alla fine 2011 aveva chiesto il riconoscimento da parte dell'Onu di uno Stato palestinese, ha rivisto le sue ambizioni al ribasso per il prevedibile veto americano al Consiglio di sicurezza. Potrebbe ripiegare sulla richiesta di essere riconosciuta come uno "Stato non aderente", statuto analogo a quello del Vaticano, ma è una soluzione che potrebbe non aggiungere niente di più sul piano diplomatico, anche ammesso che la si potesse ottenere.
Tutto è fermo in Cisgiordania dove prosegue la colonizzazione israeliana. Nello stesso modo Gaza continua a essere sottomessa al blocco israeliano. Nemmeno il cambio di potere in Egitto, con l'arrivo di un governo dei Fratelli musulmani, ha portato ad una modifica notevole delle relazioni tra questo paese e Gaza. Il nuovo potere egiziano ha assicurato che non intende rimettere in discussione la politica di buon vicinato con Israele dei tempi di Mubarak, e lo ha dimostrato nei fatti. Questo si traduce tra l'altro con la collaborazione egiziana al blocco del territorio di Gaza imposto da Israele.
Il proseguimento di questa situazione rende sempre più difficile una soluzione a due Stati, tanto il territorio di un'eventuale Stato palestinese è ormai spezzettato dalla colonizzazione israeliana. Ciò che si è stabilito in Israele e nei territori palestinesi assomiglia sempre più ad un apartheid simile a quello che ha conosciuto il Sudafrica, nel quale i palestinesi fanno da manodopera a buon mercato, senza diritti, relegata nei suoi quartieri e territori e sottomessa ad incessanti vessazioni. I dirigenti israeliani hanno trovato un caposaldo in questa politica e non hanno intenzione di abbandonarlo. La ricerca di una soluzione con i palestinesi implicherebbe per loro dover affrontare l'estrema destra israeliana, cosa che comunque i dirigenti israeliani escludono.
La situazione nondimeno è esplosiva e potrebbe diventarlo sempre più, anche solo dal punto di vista demografico: gli ebrei israeliani potrebbero diventare minoritari nell'insieme costituito da Israele e Cisgiordania occupata, a cui bisogna aggiungere il territorio di Gaza che non è più direttamente occupato, ma inquadrato e sorvegliato dall'esercito israeliano, e la cui situazione attuale non è sopportabile.
Il nuovo apartheid inventato dai dirigenti israeliani li porta in un vicolo cieco, come quello a cui i dirigenti sudafricani hanno dovuto alla fine rinunciare. È vero che questo può durare, e già dura da decenni. I dirigenti israeliani non hanno altra politica se non quella di conservare la situazione, pur creando sempre più "fatti compiuti" nei territori palestinesi, e rimandando sempre a più tardi un'eventuale soluzione diplomatica.
I dirigenti israeliani potrebbero vedere in una fuga in avanti militare un modo per uscire da questo vicolo cieco. Netanyahu agita la minaccia di un intervento israeliano contro le installazioni nucleari dell'Iran, col pretesto di impedire a questo paese di dotarsi di un armamento atomico.
Ci sono ragioni politiche immediate per queste posizioni. La denuncia del pericolo iraniano è un modo per mantenere in Israele l'atmosfera di unione nazionale che il movimento di contestazione dell'estate del 2011 aveva parzialmente indebolito. Anche questo movimento, che è stato paragonato ai vari movimenti di “indignati” nati in Europa o negli Stati Uniti, aveva messo l'accento sulle difficoltà sociali subite dalla popolazione israeliana, sottomessa agli imperativi del mondo degli affari e ad una politica che dà la precedenza all'esercito e alla colonizzazione. Il movimento però ha rapidamente trovato i suoi limiti. Avrebbe dovuto rimettere in discussione non solo la politica sociale del governo israeliano, ma anche la sua politica di guerra e l'ingiustizia fondamentale che impone ai palestinesi.
I proclami di Netanyahu mirano anche a saldare l'opinione pubblica a favore del governo in carica, in vista delle elezioni che ha deciso di anticipare all'inizio del 2013. Le sue minacce nei confronti dell'Iran esprimono anche e soprattutto la tradizionale politica di Israele. Si tratta di proporre al suo protettore americano i suoi servigi da mercenario. Se l'imperialismo americano avesse bisogno di colpire militarmente nella regione del Medio Oriente, per esempio in Iran o in Siria, Israele e il suo esercito si dichiarano disponibili.
È però evidente che per ora i dirigenti degli Stati Uniti non si augurano un intervento israeliano, e non solo perché disturberebbe la campagna elettorale americana che sta per finire. Dopo le esperienze dell'Afghanistan e dell'Iraq, gli Stati Uniti, come d'altra parte gli altri Stati occidentali, sono restii all'idea di un nuovo intervento militare diretto. Nella crisi siriana per esempio gli Stati Uniti preferiscono intervenire indirettamente tramite alleati quali la Turchia, l'Arabia saudita o il Qatar, il che significa lasciare Israele fuori dal gioco. Nel contesto attuale un'azione militare israeliana infatti potrebbe solo complicare la situazione per questi alleati degli Stati Uniti, o addirittura tendere a creare contro Israele e i dirigenti occidentali una solidarietà tra paesi arabi e musulmani che non esiste più, ammesso che sia mai esistita davvero.
In un contesto di aggravamento della tensione internazionale, i dirigenti dell'imperialismo americano potrebbero però fare la scelta di intervenire direttamente o tramite i loro alleati. L'esercito israeliano potrebbe allora fare la sua parte come punta avanzata di un intervento militare occidentale. L'attuale pace armata rischierebbe di trasformarsi in una guerra generalizzata.
L'Africa tra saccheggi e guerre
Ai numerosi focolai di tensione che esistono quasi in permanenza in Africa, dalla Somalia al Congo, dal Sudan alla Guinea Bissau, si aggiunge quest'anno il Mali. Questo paese, creazione artificiale della colonizzazione francese, raggruppa in un complesso unico popolazioni sahariane, Tuareg, Arabi, Tubu, Songhaï, ecc, con popolazioni del sud del paese. È una miscela esplosiva, che tra l'altro è già esplosa molte volte in passato, sia ai tempi del dominio coloniale con la rivolta di Kaocen nel 1916, sia dopo la creazione dello Stato del Mali indipendente. Tre volte dall'indipendenza del Mali, nel 1963 – 1964, 1990 – 1996 e 2006 – 2009, il suo esercito si è trovato di fronte ad insurrezioni di tribù Tuareg.
L'attuale crisi risulta da una congiunzione di problemi: una crisi all'interno stesso dell'apparato statale del Mali o più precisamente all'interno dell'esercito tra la casta degli ufficiali superiori corrotti e ufficiali subalterni che trascinano una parte delle truppe con loro; un nuovo sussulto delle rivendicazioni autonomiste dei Tuareg, e infine la presenza in questa parte del Mali di gruppi militanti armati che si dichiarano fondamentalisti islamici.
Le situazione nella vicina Libia illustra in qualche modo negativamente le ragioni per cui le potenze ex colonizzatrici, all'occorrenza la Francia in questa regione, si accontentano benissimo dei regimi dittatoriali o addirittura li preferiscono.
Il rovesciamento di Gheddafi ha portato ad una situazione anarchica all'interno del paese stesso. Dato il coinvolgimento della Libia nella situazione dei paesi vicini, tra l'altro con la presenza di mercenari reclutati dall'ex dittatore nello Ciad o nel Niger, il crollo del regime libico si è tradotto con il ritorno di gran parte di questi militari nei loro paesi e con un intenso contrabbando di armi. Così si è trovata destabilizzata tutta la regione sahariana. Se il regime del Mali è stato il primo scosso, dalla Mauritania al Ciad e al Niger tutti gli Stati della regione hanno motivi di temere di esserlo a loro volta.
Almeno nel Niger, fornitore tra l'altro di minerari di uranio per l'industria nucleare, la Francia ha importanti interessi. Ma al di là di questi interessi economici c'è il fatto che la Francia imperialista, protettrice di regimi di questa parte d'Africa, non può permettersi l'emergere negli spazi sahariani di una situazione di tipo somalo, con il permanente rischio di contagio ai paesi vicini. Inoltre il rapido sbandamento dell'esercito maliano di fronte alle milizie islamiste ha mostrato fino a che punto era capace solo di reprimere la propria popolazione, ma non di fare la guerra, neanche contro bande armate... anche se ben equipaggiate grazie alle scorte di Gheddafi vendute in contrabbando.
Pur affermando che non invierà truppe nel Mali, lo Stato francese però ha preso l'iniziativa di fare appello alla comunità economica degli Stati dell'Africa dell'ovest (Cedeao) per organizzare una coalizione militare capace di intervenire nel Mali. È una vecchia pratica dell'imperialismo francese fare la sua guerra in Africa con la pelle degli africani.
Detto questo la coalizione trova molte difficoltà a costituirsi. E data la consistenza degli eserciti dei paesi Cedeao, non molto più solidi dell'esercito maliano, è possibile che l'intervento provochi un raggruppamento di forze anche da parte degli islamisti, e che l'attuale caotica situazione si prolunghi e si aggravi. È evidente che un tale intervento non sarà una guerra per “l'integrità del territorio nazionale” del Mali come affermano i dirigenti maliani, ma un'avventura militare in più dell'imperialismo francese.
Nonostante la dichiarazione di Sarkozy all'inizio della sua presidenza, nel febbraio 2008 davanti al parlamento sudafricano, quando affermò: "La Francia non ha vocazione a mantenere per sempre forze armate in Africa", i suoi cinque anni all'Eliseo si sono tradotti con un moltiplicarsi degli interventi militari in Africa.
Accanto all'operazione in Costa d'Avorio per sbarazzarsi di Gbagbo e mettere al potere Ouattara e al bombardamento della Libia di Gheddafi, i militari francesi che stazionano in permanenza nel Ciad sono intervenuti per salvare il potere del dittatore locale Idriss Deby. Hanno anche al loro attivo incursioni partite dal Ciad verso la Repubblica centrafricana o il vicino Darfur.
D'altra parte, la “lotta contro il terrorismo” è stata il pretesto dell'intervento delle forze speciali francesi nel Niger. La lotta alla pirateria è stata il motivo invocato per l'operazione navale comune con la Gran Bretagna lungo le coste somale nel golfo di Aden.
Queste operazioni sono state condotte da contingenti dai dolci nomi di animali reali o immaginari, quali "forza Liocorno" o "contingente sparviero" o derivanti dalla mitologia greca o dall'astronomia come "operazione Atlante".
Hollande da parte sua, dopo l'arrivo alla presidenza ha ostentato dichiarazioni sulla fine della “Françafrique”, nome dato al connubio politico e affaristico dei dirigenti francesi con i dirigenti africani. L'agitazione diplomatica del suo governo intorno al Mali fa prevedere che in questo campo come in molti altri Hollande seguirà le orme di Sarkozy. Se c'è un campo in cui la continuità è sempre totale da un presidente all'altro nonostante i cambiamenti d'etichetta, è quello della politica estera in generale e della politica africana in particolare. È inevitabile.
Nella “Françafrique” i legami umani tra dirigenti politici francesi e dittatori africani, le valigie di biglietti che viaggiano per finanziare le campagne elettorali sono solo la superficie delle cose. I legami tra l'imperialismo francese e le sue le ex colonie poggiano su interessi ben più profondi che riguardano la borghesia francese stessa e non solo i suoi servitori politici.
L'unica evoluzione che si può prevedere non risulta dal cambiamento del presidente, bensì dal fatto che la Francia, imperialismo di secondo ordine, ha sempre meno i mezzi militari della sua politica. Già si fanno sentire voci per affermare che l'esercito francese avrà difficoltà a dare il suo sostegno logistico ad un eventuale intervento delle truppe Cedeao, in mancanza di elicotteri a largo raggio d'azione.
A più riprese già in passato, tra l'altro nel Ciad, la Francia ha cercato di allargare il suo intervento con un intervento europeo, dividendo tra parecchi paesi d'Europa il costo umano e finanziario dell'operazione. Ma non è sicuro che Germania e Gran Bretagna, per esempio, abbiano voglia di incaricarsi, anche solo parzialmente, delle operazioni militari fatte nell'interesse esclusivo della borghesia francese.
I conflitti armati del tipo di quelli che si svolgono nel Sahara e nella zona del Sahel non sono limitati all'ex impero coloniale francese.
In Africa orientale, oltre la Somalia dominata da bande armate, nuovi focolai di tensione si sviluppano nel Kenya, in Tanzania e in Uganda, con in ogni caso minoranze musulmane più o meno importanti. Con la crisi, l'impoverimento di popolazioni già povere e una forte disoccupazione, queste regioni forniscono combattenti per i movimenti islamisti, compreso quelli più radicali.
La guerra viene fatta non solo da parte delle forze di repressione nazionali, ma anche con la collaborazione dei servizi segreti degli Stati Uniti o della Gran Bretagna. L'intervento di potenze occidentali si svolge quindi in modo più discreto, ma nondimeno si tratta di interventi militari.
Del resto, come a suo tempo l'intervento americano in Somalia non ha eliminato le bande armate islamiste, ma al contrario ha offerto loro prospettive più ampie, gli interventi delle potenze occidentali nel Kenya, in Uganda e innanzitutto in Tanzania - dove i musulmani rappresentano il 30% della popolazione - possono portare ad un aggravamento dei conflitti. Tanto più che contingenti armati del Kenya e dell'Uganda sono già presenti.
Uno degli aspetti drammatici della situazione delle classi popolari in Africa sta nel fatto che alla povertà si aggiungono endemiche guerre interne e la violenza delle bande armate. Appena gli scontri armati sono finiti in Liberia e nella Sierra Leone, nuovi conflitti sono scoppiati in Nigeria e in Africa orientale.
In quanto al Congo gli scontri tra bande armate sono praticamente continui da decenni.
Nella Costa d'Avorio il rovesciamento di Gbagbo con l'aiuto dell'esercito francese e l'installazione al potere di Ouattara hanno condotto ad una certa stabilizzazione della situazione. Dopo parecchie settimane di scontri armati le banche hanno riaperto le porte, le imprese delle zone industriali di Abigian hanno ricominciato a funzionare e gli affari sono ripresi.
Questa stabilizzazione è però molto relativa, come testimoniano gli attacchi sporadici contro caserme o commissariati di cui non si sa se si tratta di azioni organizzate da ex guardie del regime di Gbagbo che non hanno ancora trovato posto in questo nuovo regime, o semplicemente di ex militari che non sono stati reintegrati nell'esercito riunificato.
Scontri più o meno violenti, che oppongono intorno al possesso delle terre elementi di etnie diverse, continuano a prodursi periodicamente in parecchie regioni.
Tutto questo si aggiunge al costo umano e materiale, considerevole per le classi popolari, dei conflitti armati per il potere.
I danni di questi conflitti interni, svolti con pretesti religiosi o etnici, non sono solo materiali. Pesano anche sulle coscienze, dividendo e opponendo popolazioni tra di loro su basi particolarmente reazionarie e retrograde.
In questi paesi, dove i colonizzatori hanno fabbricato enti statali spezzettando etnie e raggruppandone altre artificialmente, questi Stati non poggiano su uno sviluppo economico e non sono condotti da alcuna classe progressista. Le classi privilegiate locali sono sempre state tanto voraci per quanto riguarda i loro privilegi quanto profondamente reazionarie e completamente incapaci di portare avanti idee progressiste in un qualunque campo.
Se da qualche anno le statistiche economiche fanno apparire un tasso di progressione notevole dell'economia di alcuni paesi africani, questi dati riflettono innanzitutto l'aumento del saccheggio da parte del gran capitale occidentale.
Ma per i popoli non c'è alcuna possibilità di sviluppo su basi capitaliste. Il controllo dell'imperialismo ostacola ogni sviluppo, che sia anche solo in misura modesta favorevole alla popolazione. In ultima analisi, è responsabile di tutto il resto, la sopravvivenza di anacronismi sociali, il potere dei capi tradizionali, le divisioni etniche ecc, spesso resuscitati dai colonizzatori, e i pregiudizi più reazionari trasmessi dalla superstizione. Uno sconvolgimento in tutti questi campi può solo essere opera del proletariato rivoluzionario.
Il lungo sciopero che si è svolto nelle miniere del Sudafrica ricorda l'esistenza e la forza della classe operaia in questo paese, ma anche la sua determinazione. Il Sudafrica è certamente il paese più industrializzato del continente africano, e anche quello dove la classe operaia è numericamente più forte.
Anche se l'imperialismo è più preoccupato di saccheggiare le ricchezze naturali dell'Africa che non di svilupparle, il saccheggio stesso, cioè sfruttare le miniere di platino, di diamanti o di ferro, abbattere le essenze rare della foresta tropicale, attingere alle riserve petrolifere, non può svolgersi senza lavoratori. Pur limitati che possano essere gli investimenti produttivi, soprattutto in questi tempi di crisi, tutto questo contribuisce ad aumentare il peso numerico della classe operaia di questo continente.
Inoltre, come in tutti i paesi sottosviluppati, la classe operaia del Sudafrica è parte di una vasta classe di poveri, costituita da contadini cacciati dalle campagne che si raggruppano in immense baraccopoli.
Quando finirà il lungo regresso politico del movimento operaio nel mondo e quando la classe operaia al livello internazionale si ricollegherà con la coscienza di classe e le idee politiche che ne derivano, la classe operaia d'Africa troverà pienamente posto nel movimento operaio mondiale.
Conclusione
Può sembrare improponibile per un piccolo gruppo che non è un partito e non ha il peso, il credito e l'influenza tali da giocare un ruolo anche solo a livello del proprio paese, provare a farsi un'opinione sulla classe operaia di paesi lontani e sulla politica corrispondente ai suoi interessi. Tanto più che per alcuni di questi paesi le informazioni più elementari sulla loro classe operaia e il suo livello di coscienza e di combattività arrivano solo col contagocce.
Ma non è possibile costruire organizzazioni comuniste rivoluzionarie, e neanche in realtà educare militanti rivoluzionari, senza che questi si pongano tutte le domande politiche, comprese quelle che riguardano la situazione internazionale, dal punto di vista del proletariato e dei suoi interessi di classe.
Le domande che si pongono su questo terreno troveranno risposte tanto più esaurienti quanto sarà più avanzata la costruzione di un partito comunista rivoluzionario e dei collegamenti che sarà in grado di stabilire e di rafforzare con organizzazioni militanti comuniste di altri paesi, qualche volta educandoli nell'emigrazione. L'emigrazione ha sempre svolto un ruolo in passato nella propagazione delle idee comuniste rivoluzionarie da un paese all'altro. La costruzione di un’Internazionale si traduce in realtà con la costruzione di un partito comunista rivoluzionario.
Ricordiamolo, i fondatori del marxismo hanno sempre ragionato in funzione degli interessi della rivoluzione a livello internazionale, e in generale anticipandola. I rivoluzionari russi della prima generazione, Plekhanoff e Zassuliç, raggiunti poi da Lenin, hanno saputo individuare in anticipo le possibilità di una classe operaia russa ancora quasi inesistente alla loro epoca. La storia gli ha dato ragione.
Diversamente da coloro che ci hanno preceduti abbiamo dietro di noi l'esperienza di un secolo e mezzo di storia del movimento operaio, delle sue battaglie, delle sue vittorie, delle sue sconfitte.
Il riformismo socialdemocratico, poi lo stalinismo, hanno corrotto prima, e poi demolito la trasmissione di questo capitale da una generazione a quella successiva. Ma non per tutto si deve ricominciare da zero. Non sappiamo se ci sarà data la possibilità di vivere avvenimenti rivoluzionari, e a maggior ragione se potremo svolgervi la nostra parte. Ma ciò che è nelle nostre possibilità è di preservare le idee del programma rivoluzionario nel miglior modo possibile. Perché presto o tardi sorgerà la generazione di sfruttati che ne farà un buon uso.
(testo votato dal congresso di Lutte Ouvrière – Dicembre 2012)