Di fronte ai drammi sociali di un capitalismo in crisi profonda
Conferenza d'Organizzazione del Circolo Operaio Comunista – Livorno, 16 marzo 2013
Il 16 e 17 Marzo 2013 si è tenuta la Conferenza d’organizzazione annuale del Circolo Operaio Comunista “L’Internazionale”. Quello che segue è il testo del documento politico, letto in forma di relazione alla seduta pubblica del 16 Marzo a Livorno.
Compagni,
da qualche anno iniziamo la nostra conferenza d’organizzazione annuale riferendoci alla crisi del capitalismo. Non c’è bisogno di tante parole di spiegazione a questo proposito.
L’aggravarsi della crisi ha portato ad un uso sempre più esplicito di questo termine: capitalismo. Lo usano con disinvoltura economisti, politici e giornalisti, che pure, fino a qualche anno fa, se ne servivano con molta parsimonia e molte... virgolette, a sottolineare la loro distanza da un gergo che -secondo loro-sapeva di “vecchio” marxismo.
Proprio a causa di questa banalizzazione di una definizione a noi nota e che possiede un preciso contenuto scientifico, è più necessario chiarire che cosa noi marxisti intendiamo per “capitalismo”. Vi prego, a questo punto, di avere un po’ di pazienza e di consentirmi una piccola digressione che riguarda la teoria marxista. Secondo questa teoria, la parola “capitalismo” non definisce solamente attività puramente economiche, ma si estende al complesso intreccio di relazioni sociali della nostra epoca. Alla base di queste relazioni, come fattore determinante in ultima istanza, si trovano indubbiamente i rapporti di produzione, ma quello che avviene nell’ambito di questi rapporti, cioè della struttura economica della società, si riverbera in tutte le altre sfere dell’attività umana, seguendo le vie più diverse e contraddittorie, ma portandone con sé l’impronta.
Prima Marx, poi Lenin, utilizzarono, per il capitalismo, come per i modi di produzione precedenti nella storia, la definizione di formazione economico-sociale. Oggi possiamo dire che questa formazione economico-sociale capitalistica ha assunto caratteri planetari.
Se per noi il capitalismo non è soltanto la sfera commerciale e industriale dell’attività umana, anche la sua crisi non riguarda soltanto gli indicatori economici ufficiali. Per limitarci alla sfera politica, possiamo dire che una crisi profonda del capitalismo significa anche una crisi dei suoi precari equilibri politici.
Dunque, possiamo ascrivere alla crisi del capitalismo tutte le manifestazioni di un ordine mondiale che scricchiola. Dalla Libia, al Mali, alle varie “primavere arabe”, all’Afghanistan e alla sanguinosissima guerra civile in Siria.
E qui parliamo di crisi sia nel senso più contingente, cioè della crisi iniziata nel 2007 negli Stati Uniti, sia di crisi in senso storico. Certamente la crisi dei “subprimes”, divenuta rapidamente crisi finanziaria mondiale ha esasperato, in tutti gli ambiti, le contraddizioni generatesi in un periodo ben più lungo e che, di conseguenza, sarebbe inesatto far dipendere da questa. Ma queste considerazioni, che possono essere utili in sede di analisi, non hanno molto senso se si guarda allo sviluppo dei fatti reali, giorno per giorno.
La realtà ci si pone davanti come un tutt’uno e oggi questa realtà ci dice che la borghesia e i suoi organi politici, diplomatici, istituzionali o militari che siano, si dimostra sempre più impotente a garantire un minimo di ordine e un minimo di sviluppo civile nella parte più povera del pianeta. Un fallimento che riguarda tanto la borghesia imperialista, quella cioè che controlla gli stati più forti, in primo luogo gli Stati Uniti, quanto quella degli stessi paesi poveri, i cui legami di dipendenza con il mondo del capitale finanziario internazionale la rendono più un agente e un rappresentante di questo mondo che una classe interessata ad un autentico sviluppo democratico in casa propria.
Quanto è lontana la “luce in fondo al tunnel”
Riferita all’andamento della crisi economica, l’espressione “la luce in fondo al tunnel”, usata di continuo da varie voci “autorevoli”, e sempre smentita dai fatti, è divenuta oggetto di sfottò e parodie. Gli economisti sono ora più prudenti e condiscono i loro pronostici con dei “probabilmente” e con dei “forse”. Quasi tutti sono d’accordo nel descrivere il 2013 come un anno di lenta ripresa, negli ultimi mesi e in modo differenziato a seconda dei paesi. In ogni caso i conti si possono fare più sui consuntivi che sui preventivi. Una delle valutazioni più recenti, quella del rapporto trimestrale del FMI, ci dice:
“La situazione finanziaria alla scala mondiale ha continuato a migliorare nel quarto trimestre del 2012. Ciò nonostante, secondo un largo insieme di indicatori della produzione industriale e del commercio mondiale, la crescita mondiale non ha continuato ad accelerare. Nei fatti l’aggiustamento del terzo trimestre si spiega in parte con dei fattori temporanei, in modo particolare un’accresciuta accumulazione di stocks (principalmente negli Stati Uniti). Esso maschera anche delle debolezze vecchie e nuove”.
Le “ricette” per superare la crisi che si confrontano in Europa sono essenzialmente riconducibili a due modelli: da una parte c’è chi preme per la riduzione ad ogni costo del debito pubblico, contro ogni tipo di politica inflazionistica e con criteri restrittivi nell’erogazione del credito. Dall’altra c’è chi rivendica come indispensabile la leva della spesa pubblica, anche stampando moneta, per ricreare una domanda di beni in grado di mettere di nuovo in moto l’economia. Il primo modello è quello difeso dai governi europei e dalla Banca Centrale Europea (BCE) fino ad oggi. Il secondo modello si rifà a J.M.Keynes ed è ripreso oggi da economisti come l’americano Paul Krugman. Krugman sostiene che il capitalismo potrà uscire dalla crisi se non si farà condizionare da pregiudizi “moralisti” come l’austerity. Bisogna dire che le tesi di Krugman sono attualmente saccheggiate da tutti i partiti nelle campagne elettorali, quando serve promettere di essere di manica larga o raccontare che si andrà a Bruxelles o a Strasburgo a “battere il pugno sul tavolo”.
Per quanto la prosa di Krugman risulti molto più fresca, immediata e brillante di quella tetra e spesso volutamente incomprensibile degli economisti europei, è da sottolineare che, postosi il problema di trovare un precedente storico per le proprie tesi, nella storia accidentata dell’economia capitalistica non trova che un precedente inquietante per le conclusioni che suggerisce. Scrive Krugman: “Perciò l’analisi degli effetti delle guerre – inclusi le corse agli armamenti -che precedono i conflitti e il ridimensionamento della spesa militare che li segue- ci dicono molto sugli effetti della spesa governativa. Ma le guerre sono l’unico mezzo per rispondere a questa domanda? Quando si devono esaminare dei grossi incrementi della spesa pubblica, la risposta, purtroppo, è affermativa. Il governo non mette quasi mai in cantiere grandi piani di investimento se non di fronte alla guerra o alla concreta minaccia di un conflitto.”
Ma i governi europei continuano con l’austerity, mettendo al primo posto un’impossibile riduzione del debito pubblico che non farà che aggravare le condizioni della massa della popolazione. La crisi della zona euro, inoltre, è aggravata dall’assenza di una politica fiscale omogenea e dall’attuale impossibilità di agire sull’emissione di nuova moneta. La Germania è vista con rispetto e con odio dai suoi partner europei, ma è anche il nemico di comodo a cui attribuire tutte le colpe dei propri fallimenti politici.
In Italia, il famoso spread, che ci avevano descritto come un mostro da tenere a bada al momento dell’insediamento di Monti, è ora diventato un cucciolo innocuo e non valgono a farlo inferocire e ingrandire nemmeno le evidenti conseguenze delle elezioni sul piano della stabilità politica. Più che dalle vicende tragicomiche della politica italiana, compreso l’autorevole Monti al governo, i famosi “mercati” sono stati placati dall’annuncio della BCE di mettere a disposizione fondi illimitati per l’acquisto di titoli del debito pubblico dei paesi in difficoltà per mantenere stabile l’euro.
In questo modo, come è successo altre volte, si è solo rimandato un problema, ma non è affatto detto che si sia risolto.
Ricerca e sviluppo: la via di salvezza?
Una costante dei dibattiti sulla crisi è il richiamo alla necessità di destinare più risorse alla ricerca. In Italia, in modo particolare, dove per la ricerca si spende molto meno che nella maggioranza dei paesi più sviluppati, più o meno tutti gli economisti e i politici la indicano come priorità assoluta. Ma quando si tratta di tradurre in fatti queste grida di allarme, il tutto si riduce a un nulla di fatto. E bisogna ricordare che non solo la spesa statale per la ricerca rappresenta in percentuale sul PIL uno 0,56%, contro il 2,8% della Germania e il 2,3% della Francia, ma anche la quota di profitti che gli industriali italiani destinano alla ricerca nel proprio ambito produttivo è di gran lunga inferiore a quella dei maggiori concorrenti stranieri. Investire nella ricerca e nello sviluppo significa, in fin dei conti, manifestare fiducia nel proprio sistema economico.
I capitalisti italiani sono i primi a non aver fiducia nel capitalismo, almeno quello di casa propria. E non è del tutto vero che le dimensioni asfittiche della ricerca dipendano dalla prevalenza delle piccole imprese. Questo fatto gioca naturalmente un ruolo essenziale, ma anche la grande impresa pur avendo tutti i mezzi per fare grandi investimenti, non sfugge, in genere, all’andazzo comune. L’economista Luciano Gallino, in un suo saggio recente, ricorda che nel 2010 la Fiat ha investito in ricerca circa 1,9 miliardi di euro contro i 20 della Volkswagen!
In ogni caso, che si tratti di innovazione del prodotto o di innovazione dei processi produttivi, o di tutte e due le cose, il capitalismo si confronta con una restrizione della domanda. Tutto starà nel vedere se questa restrizione perdurerà o si approfondirà a livello mondiale e se le nuove dimensioni assunte dalla domanda “globale” consentiranno la sopravvivenza della stessa quantità di gruppi industriali e finanziari e la stessa proporzione fra le varie parti che compongono la “macchina” del capitalismo complessivamente intesa.
Fin da ora, in ogni caso, tutte le elaborate argomentazioni che ruotano attorno al tema della ricerca, della diffusione di cultura tecnologica, di maggiore specializzazione richiesta alle nuove generazioni di lavoratori, ecc. concorrono, nei fatti, alla più generale campagna a sostegno dei tagli ai servizi sociali e alla stessa scuola, che dovrebbe essere la culla della ricerca.
A quali conclusioni ci porta l’analisi della crisi
Cercando di fare un po’ di sintesi, si possono ricavare almeno tre caratteristiche dagli aspetti più strettamente economici della crisi in corso. Li cito quasi per titoli perché ne abbiamo già parlato in diverse occasioni, comprese le Conferenze d’organizzazione degli anni passati. In primo luogo, questa crisi non è che il più recente fotogramma di un “film” che inizia dalla metà degli anni ’70: il progressivo rallentamento nei ritmi di crescita di tutta l’economia capitalistica mondiale, rallentamento alternato a vere e proprie crisi, di cui quella attuale è la più profonda e duratura.
In secondo luogo, la forte caratterizzazione finanziaria della crisi, che riflette il peso abnorme raggiunto dalla finanza nell’economia mondiale. Questo stesso fatto si collega alla crisi di lungo periodo iniziata dagli anni ’70 nel senso che è la conseguenza di un progressivo e accelerato disimpegno di grandi masse di capitali dai settori produttivi, sempre meno in grado di soddisfare la sete di profitto dei “padroni del denaro”, verso l’attività speculativa pura e semplice. In terzo luogo, il fatto che, per quanto questa crisi sia iniziata come crisi finanziaria e proseguita come crisi del debito pubblico, si è scontrata e si scontra tuttora, come abbiamo già detto, con il problema classico, la contraddizione tipica del sistema capitalistico di produzione: la capacità produttiva raggiunta dall’apparato industriale, da un lato, e le possibilità di assorbimento della produzione, cioè le possibilità concrete di consumo della società, dall’altro.
Un’organizzazione militante di lavoratori, a maggior ragione un piccolo gruppo come il nostro, può cercare di comprendere le linee generali dell’evoluzione economica. Ci avvaliamo delle analisi e degli studi di tutte le fonti che riusciamo a procurarci e a studiare, scontando i limiti delle nostre deboli forze. Naturalmente non cominciamo da zero. Ci sorregge tutta una tradizione di teoria e di elaborazioni del movimento rivoluzionario da Marx a oggi, ci sorregge il lavoro dei compagni di altri paesi, più avanti di noi nel processo di ricostruzione di un partito operaio marxista.
Resta il fatto che non siamo dentro i consigli di amministrazione dei grandi gruppi industriali o finanziari e nemmeno nei luoghi, ancora più riservati, dove si fanno valutazioni al riparo da occhi e da orecchi “indiscreti” e dove si prendono decisioni che spesso riguardano la vita di milioni di persone. Così, quando qualche pezzo grosso del mondo degli affari parla un po’ più fuori dai denti del solito, dobbiamo tenerne conto in modo particolare.
Per esempio, a leggere i commenti di molta stampa specializzata, il pericolo delle bolle speculative sarebbe oramai alle spalle. Ma ecco che un giornale on line (Wall Street Italia, 1° febbraio 2013) ospita un’intervista a Bill Gross, manager del più grande fondo obbligazionario del mondo, che prevede una prossima esplosione della bolla del credito in America. Il sistema del credito è descritto come uno “schema Ponzi”. Paragonando il sistema economico basato sul credito a una stella supernova che si espande, si espande e poi inizia a consumarsi finché non esplode, Gross dice:
“Ogni dollaro in più di credito sembra creare sempre meno calore. Negli anni ’80 ci volevano infatti quattro dollari di nuovo credito per generare un dollaro di Pil reale. Negli ultimi dieci anni questa cifra è salita a 10$ e dal 2006 a 20 dollari, producendo gli stessi risultati. Lo stadio a cui è arrivato lo schema finanziario alla Ponzi del 2013 fa sì che i soldi vanno a un numero sempre maggiore di creditori e speculatori di mercato e sempre meno all’economia reale. Che sia con un piagnucolio o con un’esplosione, la bolla scoppierà, per il semplice fatto che non può crescere all’infinito.”
Il capitalismo senza via d’uscita?
Nel movimento rivoluzionario sono sempre state presenti correnti di pensiero che, partendo dalla giusta premessa che l’azione politica deve basarsi su un’analisi scientifica delle condizioni economiche e sociali in cui si opera, riservano una quantità sproporzionata di energie alla definizione “esatta” dello stato di salute dell’economia capitalistica e quindi al calcolo delle sue possibilità di sopravvivenza. Mi permetto ancora una citazione, questa volta di Lenin nel 1924.
“Compagni, eccoci alla questione della crisi rivoluzionaria, che è il fondamento della nostra azione rivoluzionaria. E qui bisogna rilevare, innanzi tutto, due errori assai diffusi. Da una parte gli economisti borghesi presentano questa crisi come una semplice “irrequietezza”, secondo l’elegante espressione degli inglesi. Dall’altra, i rivoluzionari si sforzano qualche volta di dimostrare che la crisi è assolutamente senza via d’uscita.
“Questo è un errore. Nessuna situazione è assolutamente senza via d’uscita. La borghesia si comporta come un ladrone sfrontato che ha perduto la testa, fa sciocchezze su sciocchezze, aggravando la situazione e affrettando la propria rovina. Tutto questo è giusto. Ma non si può “dimostrare” che essa non ha assolutamente nessuna possibilità di addormentare una minoranza di sfruttati per mezzo di concessioni e che non riesce a schiacciare certi movimenti o insurrezioni di una parte degli oppressi e degli sfruttati. Tentar di “dimostrare” preventivamente che la situazione non ha “assolutamente” nessuna via d’uscita, sarebbe pura pedanteria, oppure significherebbe baloccarsi con le parole e le idee. Quando si tratta di questi problemi o di altri simili, un’effettiva “dimostrazione” può essere data soltanto dalla pratica.”
Sarebbe difficile, credo, trovare parole più chiare. A maggior ragione oggi non ha senso pretendere di capire e di dimostrare che la crisi non può essere superata dal capitalismo. Il movimento rivoluzionario esiste oggi in Italia soltanto come insieme non coeso di piccoli e piccolissimi gruppi, senza nessuna influenza sulla massa dei lavoratori. È doloroso quanto si vuole ma è così. In una situazione del genere, l’attività di propaganda e proselitismo, uomo su uomo, occupa il primo posto. Per questo tipo di lavoro serve un solido retroterra di principi acquisiti dai militanti, un programma da propagandare a chi si avvicina, un lavoro di agitazione e propaganda il più possibile multiforme, e in ogni caso regolare e costante, il cui contenuto sarà dato in gran parte dalla spiegazione, secondo il punto di vista dei comunisti rivoluzionari, dei principali avvenimenti economici, politici e sociali, oltre che dalla denuncia di tutte le storture, le malefatte, le ingiustizie del sistema capitalistico in cui viviamo.
Se la situazione precipiterà, inducendo parti importanti della classe lavoratrice ad entrare in agitazione, l’esito delle lotte o addirittura il loro sbocco rivoluzionario – cioè la trasformazione della crisi economica in profonda crisi e in catastrofe politica senza via d’uscita per la borghesia dipenderà, oltre che da una serie di sviluppi oggettivi, anche dall’esistenza, precedente allo scoppio del movimento, di una solida rete di militanti rivoluzionari nei principali luoghi di lavoro e nelle città più importanti. In altre parole, dipenderà dall’esistenza o meno di un’organizzazione rivoluzionaria con un minimo di consistenza numerica e di radicamento sociale.
In definitiva, in qualsiasi modo si voglia vedere lo sbocco della crisi del capitalismo, alla scala attuale delle forze, per quanti militano all’interno della classe lavoratrice per il comunismo, i compiti non cambiano. Questa considerazione non alleggerisce ma aumenta il carico di responsabilità di ciascun militante, nella misura in cui impone di organizzare e talvolta anche di creare dal nulla una sfera di attività, senza farsi scoraggiare dal fatto che, all’apparenza, e nei grandi numeri, la classe sociale alla quale apparteniamo e alla quale ci rivolgiamo è quasi inerte e passiva. Ma riprenderemo il discorso sul partito nelle conclusioni.
Il peggioramento delle condizioni operaie, l’aumento delle disuguaglianze e della miseria in tutto il mondo
Sull’aumento delle disuguaglianze sociali, accelerato dalla crisi, esiste ormai un’ampia letteratura. In Italia, il Presidente Giorgio Napolitano ha parlato a questo proposito del ripresentarsi della “questione sociale”.
A proposito degli Stati Uniti, visti però come simbolo dell’intero sistema capitalistico, ecco cosa si poteva leggere sul quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, Avvenire, del 6 marzo scorso: “Dagli Stati Uniti, Paese di straordinarie opportunità e grandissime contraddizioni, sono giunti ieri due dati che pur avendo natura assai diversa meritano di essere accostati. Da una parte l’indice della Borsa di Wall Street, che superando i 14.200 punti ha fatto segnare il nuovo rcord storico. Dall’altro la cifra fornita proprio dal quotidiano di riferimento dei mercati, il Wall Street Journal, sulle persone che nella Grande Mela dormono ogni notte nei centri di assistenza: a gennaio sono state 50.000, e tra queste ben 21.000 bambini (un giovane newyorkese ogni 100), il 22% in più di un anno fa”.
In un articolo che commentava il rapporto della Banca d’Italia sulla distribuzione dei redditi, il quotidiano La Repubblica titolava: “La classe operaia è andata all’inferno, in dieci anni redditi crollati del 10%”. Lo studio della Banca centrale è uno dei tanti documenti dell’arretramento delle condizioni di vita dei lavoratori, al quale si contrappone un miglioramento netto dei redditi dei dirigenti e degli imprenditori. L’inizio dell’articolo di Repubblica contiene già delle informazioni essenziali.
“La classe operaia non va più in paradiso. Anzi, tra il 2000 e il 2010 è scivolata verso l’inferno. È quanto emerge dall’indagine sui bilanci delle famiglie che la Banca d’Italia realizza ogni due anni, misurando redditi, consumi e ricchezza delle famiglie italiane, suddivise per condizione professionale. Gli ultimi dati si fermano al 2010 ma è presumibile pensare che questo trend sia continuato e si sia anzi accentuato nei due anni successivi. Per i lavoratori manuali, il reddito netto è cresciuto non soltanto meno di quello di tutti gli altri gruppi sociali, ma anche molto meno dell’inflazione. I numeri parlano chiaro: le famiglie della classe che un tempo Marx indicò come l’attore principale che avrebbe dovuto scardinare il sistema capitalistico hanno vissuto durante il “decennio berlusconiano” un vero e proprio tracollo”.
Ma, “decennio berlusconiano” o meno, lo spostamento di quote di ricchezza nazionale, in proporzioni sempre maggiori, verso rendite e profitti è avvenuto in tutto il mondo. La crisi rende ancora più drammatica la disuguaglianza sociale. Questa, a sua volta, restringendo la domanda, aggrava la crisi.
Le reazioni popolari alle politiche di austerity dei governi nazionali sono state più o meno intense. In Spagna si è avuto un grande coinvolgimento di massa negli scioperi e nelle manifestazioni. Lo stesso, e da più tempo, si può dire per la Grecia.
In qualche modo questo paese ci mostra un futuro possibile anche per gli altri stati europei, per l’Italia in primo luogo. In quattro anni la disoccupazione in Grecia è passata dal 10% al 27%, quella giovanile al 61%. I salari dei dipendenti pubblici sono stati ridotti del 40%, quelli dei privati di circa il 30%. Chi si trova disoccupato perde anche il diritto all’assistenza medica. Una situazione socialmente prossima alla catastrofe. In questo stesso periodo, la Grecia ha perso quasi un terzo del PIL. Intanto il debito pubblico ha continuato a correre e si prevede vada al 188% alla fine dell’anno, ovvero 60 punti in più rispetto all’inizio della crisi.
Un anno di governo Monti
Il debito pubblico italiano è salito a 2022 miliardi, è notizia di oggi. Si tratta di un nuovo record. Pensare che la riduzione del debito era l’obiettivo numero uno dichiarato da Monti!
Per la verità, anzi, era il motivo per cui lui e i suoi “tecnici” erano stati chiamati al governo, sul finire del 2011, con l’assenso di quasi tutti i gruppi parlamentari.
Ma per farsi un’idea di quanto poco il governo Monti abbia segnato una discontinuità con il governo Berlusconi, basta ricordare la famosa “lettera” con la quale la BCE tracciava la strada dei provvedimenti “necessari”. Era l’agosto del 2011. Berlusconi faceva propri gli obiettivi stabiliti dalla BCE, presentati come “consigli”.
“Intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne del settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico”. Ecco il primo “consiglio” al governo Berlusconi che prontamente è stato realizzato dal governo Monti. Conseguenza ulteriore del nuovo regime pensionistico è stata la questione degli “esodati”. Lavoratori che si sono trovati senza più un lavoro e senza ancora una pensione. Nessuno sa dirne il numero, ma si superano sicuramente le 150.000 persone.
La lettera continua: “Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti”. E così è stato, con la quasi totale eliminazione delle tutele stabilite dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
E via “consigliando”. Si aggiungono, fra i “consigli”, una revisione del sistema contrattuale in modo da ridurre la proporzione di salario slegata alla produttività aziendale, ridurre gli stipendi del pubblico impiego, una riforma costituzionale che recepisca il cosiddetto “fiscal compact”. Quest’ultimo provvedimento, approvato dal PD, non ha suscitato alcuno scandalo nel suo gruppo dirigente. Eppure per anni hanno fatto dell’esaltazione della Costituzione italiana il loro tratto distintivo. Ora, una legge concordata con il partito di Berlusconi annulla di fatto tutti i diritti che promette nella sua prima parte. È come se ad ogni articolo che stabilisce diritti universali fosse applicata la postilla: “compatibilmente con le esigenze di bilancio”.
Questo terremoto nella legislazione sociale e del lavoro è avvenuto senza nessuna seria opposizione organizzata da parte dei sindacati maggiori. Sul finire degli anni ’70 i dirigenti di Cgil, Cisl e Uil si vantavano di condurre “il sindacato più forte del mondo” e millantavano un “primato” del sindacato italiano rispetto a quelli degli altri paesi europei. Una stupida e infondata vanteria, smentita da decenni di tracolli della condizione dei lavoratori e oggi completamente smascherata dalla complicità di fatto con il governo Monti.
I risultati elettorali. Il quadro di una crisi politica
Il livello di partecipazione più basso nella storia della repubblica, per quanto sia la continuazione di un trend interrottosi soltanto nel 2006, è un fatto di per sé notevole, ed è la prima cosa da dire nel commentare l’esito delle elezioni politiche di fine febbraio. La spiegazione non è difficile da ricostruire. I mesi precedenti sono trascorsi in un susseguirsi di scandali, di arresti, di denunce giornalistiche, che hanno scolpito nell’opinione pubblica l’immagine di una “classe politica” corrotta, arrogante, privilegiata in modo assurdo e indifferente alle drammatiche condizioni di vita del popolo che dicono di voler rappresentare.
Il disgusto per tutto questo ceto è alla base non solo della crescita delle astensioni, ma anche del successo straordinario della lista “Cinque Stelle” di Beppe Grillo. Il comico genovese è riuscito a capitalizzare l’onda di disgusto e indignazione. Ma non c’è solo questo. Questa lista ha raccolto il consenso di uno strato ampio di piccola borghesia, ma anche di lavoratori precari, di giovani laureati a cui la crisi ha negato un inserimento adeguato nelle imprese, nelle scuole o nelle amministrazioni pubbliche. Questa sorta di “proletariato intellettuale” rappresenta più l’ossatura militante che la massa elettorale, molto più “plebea” del partito di Grillo. In questa massa c’è di tutto, dai piccoli imprenditori ai pensionati, dai delusi della sinistra a una parte di elettori delusi della Lega. Nessuno può dire quanto reggerà questo amalgama sconclusionato.
L’altro elemento notevole è stata l’emorragia di consensi gravissima subita tanto dal PdL, che dal PD e dalla Lega. Bersani ha riconosciuto di aver avuto un risultato largamente inferiore alle aspettative della vigilia. Berlusconi ha presentato le cose come se ci fosse stata una rimonta del suo schieramento. La campagna del centrodestra si è incentrata sulle rivendicazioni anti-tasse. Soprattutto con la trovata della promessa restituzione dell’Imu. La comunicazione del “Cavaliere” ha anche operato il miracolo di azzerare il sostegno del suo partito al governo Monti e a tutti i suoi provvedimenti economici. In questo è stato largamente aiutato da un PD che, nel corso dell’anno, si è voluto distinguere come leale sostenitore del governo dei banchieri facendo in sostanza una lunga campagna elettorale contro se stesso e a favore di Monti.
Il PD ha perso più o meno il 28% del proprio elettorato delle elezioni politiche precedenti. Si tratta di 3 milioni e 400mila voti. Il PdL, della cui “rimonta” si è parlato tanto, ha perduto quasi la metà dei suoi voti: 6 milioni e 300mila! Un disastro, altro che “rimonta”.
La Lega non si è salvata. Perde più della metà dei voti, ovvero un milione e 630mila. Alle regionali lombarde, che si sono svolte contestualmente, Maroni ha ottenuto un successo reso possibile soltanto dal sostegno di Berlusconi, dal contestuale arretramento del Centrosinistra, dall’irrompere del movimento “Cinque Stelle”. La lista “Maroni Presidente”, inventata per recuperare il consenso degli elettori disgustati dagli scandali che hanno toccato la Lega, ha riscosso il consenso del 10,22% dei votanti, quella della Lega il 13%. Sufficienti, nella condizione data, a prendersi la presidenza della regione, ma un po’ pochi per dichiarare con compiacimento alla stampa: “Missione compiuta!”. I dirigenti della Lega, avendo propri uomini alla testa delle regioni del Nord, dicono di fregarsene di quello che accade a Roma e di voler realizzare alla svelta la “Macroregione”. Ci sono tutte le premesse perché questa sia l’ultima della lunga serie di smargiassate di questi politicanti irresponsabili.
In che senso tutto questo compone un quadro di crisi politica? Nel senso che il capitalismo italiano incontrerà ulteriori difficoltà a disporre di un esecutivo stabile e nel senso che sono entrati in crisi alcuni degli strumenti tradizionali di controllo del consenso. Ma per crisi politica da parte nostra intendiamo anche crisi di tutti quegli equilibri -più o meno stabili per qualche decennio- fra i vari “pezzi” del potere statale, soprattutto magistratura e grande burocrazia, e fra questi e i vari settori dominanti dell’economia. Una crisi che i risultati elettorali rivelano solo in parte ma che non mancherà di far sentire i propri effetti.
Per l’indipendenza politica del proletariato
Nel quadro generale della crisi, specialmente di fronte alle sue ripercussioni sociali, occorre difendere l’idea di una politica indipendente della classe lavoratrice. Una politica basata su un programma di trasformazione della società che è sempre quello comunista, attuale oggi più di ieri.
Le crisi rivelano tutta l’assurdità del modo di produzione capitalistico. Rivelano il paradosso di una società che ha sufficienti mezzi per consentire una vita dignitosa a tutti, oggi, e una vita piena, ricca e soddisfacente domani. Solo l’uso capitalistico dei mezzi di produzione, la loro totale o parziale paralisi dovuta alle leggi del profitto, sono le catene che costringono l’umanità ad una vita precaria e dal futuro incerto, anche nelle regioni più ricche e civili del pianeta.
Ma nell’indicare la meta finale della socializzazione dei mezzi i produzione, indichiamo anche quelle rivendicazioni generali
che, partendo dalle condizioni presenti, spingono per la trasformazione sociale più radicale.
La crisi ha reso più comprensibili gli obiettivi tipici del programma transitorio, alcuni in modo particolare, come la spartizione del lavoro fra occupati e disoccupati a parità di salario o la lotta per un salario minimo vitale o, ancora, il divieto dei licenziamenti per legge.
Però la cosa principale è che qualsiasi obiettivo ha senso solo come risultato di una mobilitazione autonoma del proletariato, fatta di scioperi e di manifestazioni di strada. Dobbiamo spiegare e far capire, nella nostra propaganda, che bisogna uscire dalla logica delle “lettere di supplica ai potenti”. Non sono “gli altri” che devono fare provvedimenti giusti per noi, siamo noi lavoratori che dobbiamo imporre con la lotta le nostre rivendicazioni. Questo è il senso di una politica proletaria.
Per noi, proprio mentre tutti disquisiscono sulla fine della forma-partito, è fuori discussione la necessità di un partito rivoluzionario dei lavoratori. Se un tale partito esistesse già ora, le cose girerebbero in tutt’altro modo. E non perché, compagni, si potrebbe “fare la rivoluzione” ma perché la classe lavoratrice potrebbe organizzare e coordinare le proprie forze nel modo migliore.
Dobbiamo lottare per il partito operaio. Dobbiamo propagandarne e difenderne la necessità.
Certo è difficile spiegare a qualcuno qualche cosa che non esiste e non ha mai visto. Per capire meglio, anche noi stessi, i nostri compiti bisogna sforzarsi di girare al rovescio il “film” della storia dei partiti operai e rivoluzionari del passato. Bisogna studiare e comprendere i primi passi, dei primi militanti del movimento operaio socialista e comunista. Per quello che sappiamo, alla base del vecchio Partito socialista italiano, ad esempio, ci fu un lungo lavoro svolto da militanti di organizzazioni più piccole e isolate geograficamente, il Partito socialista rivoluzionario di Romagna, per esempio, o il Partito Operaio italiano, prima ancora ci furono ex-attivisti mazziniani e repubblicani che passarono all’Internazionale, ecc. Rispetto ad allora abbiamo il grande svantaggio di non avere una evoluzione naturale che “lavora per noi” attraverso la trasformazione dei contadini in proletari e la tendenza alla formazione di grandi concentrazioni industriali. Ma rispetto ad allora abbiamo l’enorme vantaggio di un patrimonio di elaborazioni teorico-politiche collaudate da centocinquanta anni di verifica storica.
Ecco la sostanza del nostro impegno: cerchiamo lavoratori, cerchiamo compagni che condividano questo obiettivo e si uniscano a noi per questa battaglia.