La situazione internazionale

La situazione internazionale

(Da “Lutte de classe” n° 156 – Dicembre 2013)

I rapporti di forza internazionali

La crisi economica segna in vari modi la situazione interna di ogni paese, ma anche le relazioni internazionali. Questo è evidente per quanto riguarda le relazioni tra gli Stati d’Europa la cui collaborazione nell'ambito dell’Unione europea, o in quello più ristretto dell'eurozona, viene periodicamente compromessa dalle conseguenze della speculazione sui debiti degli Stati. E' tuttavia l’insieme delle relazioni internazionali che si trova colpito dall’evolversi della crisi e dai suoi sobbalzi.

Esse sono colpite a lungo termine. La lunga depressione dell’economia capitalista mondiale si è accompagnata a numerose e multiformi evoluzioni politiche il cui senso generale è stato reazionario, segnato dall’indebolimento o addirittura dalla scomparsa del movimento operaio cosciente in quanto forza politica che rappresenti una prospettiva diversa da quella del capitalismo in fallimento. La crisi ha aggravato queste evoluzioni.

Lo smembramento dell’Unione sovietica ha portato il colpo di grazia alla corrente stalinista, che è praticamente scomparsa in quanto fenomeno originale del movimento operaio internazionale nato dalla Rivoluzione proletaria del 1917 come corrente comunista, la quale si è poi trasformata nel suo contrario con la degenerazione dello Stato sovietico.

Lo stalinismo, dopo aver giocato un ruolo decisivo nella liquidazione delle tradizioni rivoluzionarie del proletariato, dopo essere stato determinante nel far sì che il proletariato non fosse mai in grado di cogliere le numerose occasioni rivoluzionarie, ha dovuto lasciare miseramente la scena politica a beneficio di forze ancora più reazionarie.

Il nazionalismo progressista dei paesi poveri, molto segnato dallo stalinismo, che aveva imbevuto le lotte di tanti popoli oppressi dal dominio coloniale o semi coloniale, è anch’esso regredito a vantaggio di forze più reazionarie. Anche se i partiti al potere in Cina, in Corea del Nord, in Vietnam o a Cuba ostentano ancora l’etichetta comunista nel proprio nome, non rappresentano più la stessa forza d’attrazione del passato agli occhi dei popoli oppressi.

L’ascesa al potere di Khomeiny in Iran, nel 1979, ha segnato una tappa di questa evoluzione. Da un capo all’altro del mondo arabo e musulmano, l’islamismo politico è riuscito in una certa misura a prendere il posto della corrente terzomondista, incanalando a suo beneficio le conseguenze dell’immensa miseria e del sentimento di oppressione dei ceti più poveri della società. Essi si sono ritrovati privi delle prospettive rappresentate dal comunismo all’indomani della rivoluzione russa e, dopo la Seconda guerra mondiale, da correnti piccolo borghesi nazionaliste che avevano preso la direzione della lotta contro il dominio coloniale o semi coloniale.

L'evoluzione della crisi dell’economia capitalista e quella avvenuta nell’ambito politico e sociale interagiscono in permanenza. La crisi economica ubbidisce ai meccanismi fondamentali dell’economia capitalista e l’assenza di prospettive rivoluzionarie comuniste lascia il campo libero alla borghesia. L'assenza di una prospettiva per la società che non sia la perpetuazione del capitalismo e il dominio dell’imperialismo sul mondo rafforza a sua volta il disorientamento e lo scombussolamento delle masse oppresse.

Nei paesi imperialisti più ricchi, si assiste all’ascesa di correnti d’estrema destra, dal Fronte Nazionale in Francia al Tea Party negli Stati Uniti, passando per tutte le formazioni che veicolano con più o meno forza idee razziste e xenofobe.

Nei paesi dell’Est europeo e in quelli balcanici, con le loro popolazioni intrecciate, fu proprio l’ascesa di questo nazionalismo aggressivo a portare, fin dal 1991, a dieci anni di guerra nell’ex Iugoslavia, causando da 200 000 a 300 000 morti e un milione di profughi.

L’ascesa di opposti nazionalismi è una minaccia in altri paesi dell’Europa centrale e balcanica: in Romania, Slovacchia, Ungheria. In questa regione, spezzettata e ritagliata a seconda dei rapporti di forza tra campi imperialisti, ai virulenti nazionalismi si aggiunge l'irredentismo, avendo ogni Stato pretese su territori del vicino oppure timore di essere vittima di tali pretese.

In Africa, l’assenza di prospettive per la società si traduce con la virulenza dell'etnismo che, dopo i conflitti interetnici in Liberia, in Sierra Leone, in Ruanda, continua ad imperversare in Congo e minaccia di rinascere in tanti altri paesi dove l’evoluzione capitalista imposta dall’estero non è riuscita ad aggregare le varie etnie in un più vasto crogiolo.

Le relazioni internazionali si evolvono in questo contesto. Pietra miliare di queste relazioni internazionali durante i quattro decenni che sono seguiti alla Seconda Guerra mondiale, le relazioni tra gli Stati Uniti, potenza imperialista dominante, e l’Unione sovietica, hanno perso gran parte della loro pertinenza con il crollo di quest'ultima, ma non completamente.

Gli anni di Eltsin sono stati disastrosi per la Russia che, dopo lo smembramento dell’Unione sovietica, si spezzettava a sua volta mentre le cricche burocratiche cercavano di vendere l’economia del paese pezzo dopo pezzo. Diventati l'unica “superpotenza” del mondo, gli Stati Uniti approfittavano di questa opportunità per impedire alla Russia di tornare ad essere una potenza importante sulla scena internazionale.

La Nato si è allargata non solo verso parecchi paesi dell’Est, ex Democrazie popolari, ma anche verso i paesi baltici, con la volontà di integrare ad essa altre repubbliche ex sovietiche quali l’Ucraina e la Georgia.

Il relativo consolidamento del regime sotto Putin non ha potuto rifare dello Stato russo, principale erede della defunta Unione sovietica, una superpotenza. Esso ha tuttavia ridato alla Russia un posto nel consesso delle grandi potenze. La Russia rimane una grande potenza per via delle sue dimensioni, delle sue risorse, della sua forza militare, ma anche perché nel campo diplomatico e nel gioco delle alleanze trae vantaggio da relazioni che risalgono all’epoca dell’Unione sovietica. La Russia è in grado di condurre una politica internazionale secondo i propri interessi, anche quando divergono o addirittura si oppongono a quelli degli Stati Uniti. Lo si è potuto vedere ancora ultimamente nel caso siriano.

Nonostante un declino sempre annunciato e sempre esagerato, gli Stati Uniti, rimangono la potenza che domina il mondo, tanto più per il fatto di essersi liberati dall’Unione sovietica quale rivale con cui dovevano spartirsi il pianeta. Essi subiscono gli effetti della crisi, da cui sono indeboliti e di cui sono addirittura il fattore principale. Sono tuttavia gli unici che possano farne ricadere le conseguenze sul resto del mondo, compresi, fino ad un certo punto, gli altri paesi imperialisti. Hanno tale possibilità per il fatto che il dollaro continua a dominare gli scambi internazionali e soprattutto perché questo dominio del dollaro è il riflesso del dominio dell’imperialismo americano sull’economia internazionale. Gli Stati Uniti dominano in gran parte l’apparato produttivo mondiale. Il controllo dei loro trust sulle imprese all’estero è tre volte più importante di quella dei trust britannici, secondi in classifica.

Le grandi banche americane dominano il sistema bancario mondiale. Gli Stati Uniti rimangono in testa nei campi della ricerca e delle nuove tecnologie. La loro flotta di guerra è presente in tutti i mari del mondo. Le loro basi militari accerchiano tutto il pianeta in una rete di sorveglianza (senza parlare delle loro reti di spionaggio e di sorveglianza di tutte le comunicazioni che scatenano la tanto rumorosa indignazione dei dirigenti delle altre potenze imperialiste, a cui piacerebbe poter fare lo stesso ma non ne hanno i mezzi). Gli Stati Uniti rimangono i principali gendarmi dell’ordine imperialista mondiale. Hanno ancora 60 000 uomini in Afghanistan, un numero due volte più grande di quello dell’inizio della presidenza Obama. In Irak, la fine dell’occupazione americana è una finzione, in quanto l’esercito è stato semplicemente sostituito da contractors. Nelle zone tribali del Pakistan, come nello Yemen, gli Stati Uniti fanno la guerra senza dirlo.

Non più che in passato, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, le potenze imperialiste di secondo piano, in particolare quelle europee, sono in grado di contendere agli Stati Uniti il posto d’imperialismo dominante.

La crisi in generale e i sobbalzi speculativi in particolare hanno dimostrato i limiti di un'Unione europea i cui fautori lasciavano intendere che il suo territorio, il numero dei suoi abitanti, la sua potenza industriale le avrebbero potuto consentire di rivaleggiare con gli Stati Uniti, o addirittura di contendere loro la leadership del mondo imperialista. Ma, appunto, l’Europa capitalista è solo riuscita a fare un simulacro di unificazione. Incapace di darsi uno Stato unificato, una borghesia unificata, il capitalismo europeo è, e rimane, una giustapposizione di capitalismi con borghesie che hanno parzialmente unito i loro destini ma sono rimaste rivali, almeno per quanto riguarda le principali potenze imperialiste: Germania, Francia, Gran Bretagna e, fino ad un certo punto, gli altri imperialismi dell’Europa occidentale.

Per quanto riguarda i paesi della parte orientale dell’Europa e dei Balcani, che siano già integrati all’Unione europea o che ne abbiano solo la volontà, sono condannati ad essere regioni subordinate, sottomesse alla legge dei trust degli imperialismi dell'Europa occidentale.

All’interno dell’Unione europea così poco e così male unificata, ognuno dei principali imperialismi gioca la propria parte. È emblematico il caso dell’Inghilterra che si rifiuta persino di partecipare all'eurozona. Essa conduce una politica segnata dall'apertura verso il suo vecchio impero coloniale e dalle relazioni privilegiate con l’imperialismo americano. La Germania, dal canto suo, approfitta della fine del vecchio blocco sovietico per riprendere una politica d’espansione verso Est, dentro e fuori l’Unione europea.

Per quanto riguarda la Francia, essa rimane una potenza imperialista di secondo piano, non solo rispetto agli Stati Uniti, ma anche in larga misura rispetto al suo interlocutore nonché rivale, la Germania. Eppure le sue grande imprese, in particolare le banche, il settore alberghiero, quello automobilistico partecipano a fianco dell’imperialismo tedesco alla rapina sistematica dei paesi dell’Est europeo, Grecia compresa.

Le pose da guerrafondaio di Hollande a favore dell’intervento armato in Siria, esibite fino a quando era sembrato che quello fosse anche l'intento dei dirigenti americani, per poi indietreggiare miseramente appena gli Stati Uniti scelsero il compromesso che salvò Assad, hanno dimostrato le ambizioni dell’imperialismo francese, ma anche quanto questo non abbia i mezzi adeguati a soddisfare le sue ambizioni.

È rispetto al suo vecchio impero coloniale che la Francia gioca il ruolo di grande potenza e di gendarme dell’ordine imperialista. Sotto il governo socialista, la politica imperialista della Francia assume un carattere particolarmente bellicoso, messo in luce quest’anno dall’intervento in Mali.

È molto probabile che l’esercito francese intervenga pure, direttamente o tramite truppe ciadiane, nella Repubblica centrafricana dove la caduta di Bozizé e la presa del potere da parte di bande armate hanno portato allo sfacelo completo dello Stato.

D’altronde, malgrado l’indebitamento crescente dello Stato francese, il governo socialista ha fatto sua la politica imperialista di tutti i suoi predecessori. Così è stato in occasione del sostegno ad Alassane Ouattara in Costa d’Avorio, sistemato al potere grazie ad un intervento delle truppe francesi contro Laurent Gbagbo, anche se questo si richiamava all’“Internazionale socialista”!

Così è stato con il mantenimento di basi militari francesi in tanti paesi d’Africa per sostenere regimi più o meno autoritari e corrotti, ma devoti all’imperialismo francese. La “Françafrique” denunciata dal Partito socialista quando era all’opposizione ora continua come non mai!

Il rafforzamento della “spinta verso Est” dell’imperialismo, tedesco ovviamente, ma anche francese, aumenta la conflittualità delle relazioni tra Europa e Russia. Quest’ultima, nella sua volontà di mantenere relazioni particolari con quello che chiama “lo straniero vicino”, cioè gli Stati sorti dallo sfacelo dell’Unione sovietica, si ritrova in conflitto ovattato con l’Unione europea, disputandole l’influenza sugli Stati del confine occidentale: Moldavia e soprattutto Ucraina, così come Georgia, Armenia, Azerbaigian.

Gli Stati-Uniti dopo la rielezione di Obama

Obama è stato rieletto nel novembre 2012 per altri quattro anni alla presidenza degli Stati Uniti. La sua rielezione è avvenuta senza le illusioni elettorali che esistevano nel 2008, dovuta più all’arroganza dei Repubblicani, al loro disprezzo per gli “assistiti” (cioè i lavoratori), alla loro servilità rispetto alla grande borghesia – quando non ne fanno direttamente parte – che non alla politica di Obama. L’astensione ha raggiunto il 48 % degli iscritti al voto, e molto di più nelle categorie popolari. Obama ha perso quattro milioni di elettori. In fondo, la sua politica non si differenzia da quella dei Repubblicani: guerre all’estero, salvataggio delle banche e delle grandi imprese a suon di migliaia di miliardi che ha fatto pagare alla popolazione laboriosa tramite tagli ai servizi pubblici, licenziamenti, salari e prestazioni sociali ridotti.

Se i Repubblicani non hanno vinto né alla presidenza, né al Senato, è colpa della loro campagna estremamente reazionaria che ha spaventato parte dell’elettorato. L’estrema destra del partito, il “Tea Party”, ha pesato sulla campagna come sulla scelta dei candidati, ma la maggioranza dei candidati di questa tendenza al Senato è stata sconfitta. Alla Camera dei rappresentanti, i Repubblicani hanno ottenuto meno voti dei Democratici ma più seggi, grazie alle ben calcolate suddivisioni dei collegi operate dai Repubblicani nei 26 Stati che controllano.

Il debito dello Stato federale raggiunge ormai 17 000 miliardi di dollari, ossia più del debito accumulato da tutti gli altri Stati del mondo. Questo debito è stato provocato dalle migliaia di miliardi di dollari iniettati nell’economia dal 2007, tra l’altro per salvare i grandi istituti finanziari. Repubblicani e Democratici si sono più volte scontrati in liti da politicanti a proposito di questo debito colossale, liti miranti a preparare la popolazione a nuovi sacrifici poiché gli uni e gli altri sono comunque d’accordo nell'esigerne di più. Se è vero che i Repubblicani chiedono sistematicamente tagli ai servizi pubblici e alle spese sociali, essi sono il più delle volte seguiti dai Democratici. Insieme, hanno aumentato le tasse e, nello stesso tempo, risparmiato su migliaia di programmi e di servizi nella sanità, nell’educazione, nei lavori pubblici, nella protezione dell’ambiente, nella sicurezza sul lavoro, nella sicurezza alimentare, nel controllo delle medicine, ecc. Essi hanno ridotto, con gli ultimi tagli, i sussidi dei disoccupati di lunga durata e hanno soppresso gli impieghi di decine di migliaia di insegnanti e di impiegati del settore pubblico. Hanno diminuito il salario di centinaia di migliaia d’impiegati federali, imponendo loro giorni di cassa integrazione senza indennizzo. Vogliono tagliare nei programmi federali per i pensionati, sia quelli riguardanti l'assicurazione sanitaria, sia quelli inerenti alle pensioni.

Nello stesso tempo, concedono regali fiscali ai ricchi e alle grandi imprese. Le grandi società (Amazon, Google, Apple, ecc.) pagano tasse irrisorie o nulle per via dell’“ottimizzazione fiscale”, vale a dire la possibilità di domiciliarsi nei paradisi fiscali ai quattro angoli del mondo... o degli Stati-Uniti, dove il Delaware, il New Jersey o il Nevada annoverano più società che abitanti. Oggi, numerose grandi imprese e banche non pagano affatto le tasse federali, o ne pagano molto poche, e alcune beneficiano pure di miliardi di dollari di credito fiscale.

Il governo, inoltre, ha inghiottito migliaia di miliardi in due lunghe guerre, in Irak e in Afghanistan, senza dimenticare tutte le guerre che esso alimenta su tutti i continenti, il tutto a beneficio delle compagnie petrolifere, dei fabbricanti di armi e delle banche.

La stampa evoca periodicamente la “ripresa” negli Stati-Uniti. Ma se il tasso ufficiale di disoccupazione regredisce lievemente (il 7,5 % invece del 12 % in Europa), sembra che questo sia soprattutto dovuto al fatto che tanti disoccupati rinunciano a cercare lavoro e quindi scompaiono dalle statistiche. È emblematico che la partecipazione al mercato del lavoro (cioè la popolazione occupata rispetto alla popolazione in età lavorativa) è scesa al 63,5 %, il tasso più basso dalla fine degli anni '70. Il governo federale non si fa illusioni: malgrado il colossale indebitamento, continua ad iniettare ogni mese 85 miliardi di dollari nel sistema finanziario. In realtà, l’amministrazione federale non più di qualsiasi altro sa se l’economia ripartirà.

La grande borghesia continua ad accumulare fortune. Le grandi banche fanno profitti da record; la produzione di auto si avvicina a record storici e i costruttori di automobili, di cui alcuni si erano dichiarati in fallimento nel 2009, hanno ripreso a fare profitti realizzati tramite il supersfruttamento dei lavoratori: milioni di veicoli in più, prodotti con centinaia di lavoratori in meno e con salari e prestazioni sociali ridotti a metà!

La dichiarazione di stato di fallimento della città di Detroit mette in luce la guerra che il grande capitale conduce nell’intero paese contro i lavoratori e contro i più poveri. La città, una volta prospera, è stata rovinata dalle spese per aiutare le grandi imprese (terreni, infrastrutture, regali agli imprenditori immobiliari), e dai capitalisti dell’automobile, che hanno tagliato gli organici per mantenere o incrementare i profitti. Il commissario nominato dal governatore dovrebbe risanare le finanze del comune, ma si tratta soprattutto di assicurarsi che il debito sarà rimborsato alle banche e ai grossi creditori, anche a costo di dissanguare la popolazione e vendere tutti i servizi pubblici, anche se la città dovrà, per questo, privare della pensione e della assicurazione sanitaria i propri impiegati. Sui 18 miliardi di dollari di debiti del comune, 9 sono dovuti alla cassa pensioni degli impiegati comunali e alla cassa malattia dei pensionati; sono appunto questi debiti che la borghesia vorrebbe non pagare.

Il caso di Detroit –la più grande città in fallimento- non è isolato. Le classi ricche bersagliano l’insieme dei lavoratori americani. Tante città sono indebitate per le stesse ragioni e dappertutto i comuni impongono sacrifici ai lavoratori – licenziamenti, tagli dei salari, giorni di cassa integrazione non pagata, tagli all'assicurazione sanitaria e/o alle pensioni – e tagli in tutti i servizi pubblici. L’atteggiamento del comune di New York quando la città è stata colpita dal ciclone Sandy è stato emblematico: gli abitanti della parte della città più colpita dal ciclone sono stati abbandonati, senza più nessun contatto con il resto del mondo durante parecchi giorni, mentre le autorità si affrettavano a rimettere in moto la Borsa, il Stock Exchange.

Dappertutto l’avidità della borghesia, il suo parassitismo, svuotano le casse pubbliche e seminano rovina e desolazione. Il 20 % più ricco si impadronisce dell'84 % della ricchezza nazionale, mentre il 40 % più povero non ha che lo 0,5 % da spartirsi. La crisi immobiliare che ha distrutto interi quartieri non è ancora finita. Famiglie sono espulse dalle loro case e le banche, che si sono accaparrate numerose case pignorate, aspettano che i prezzi risalgano per rivenderle, sicché rimane sempre difficile trovare una casa.

Per quanto riguarda la grande riforma di Obama, quella dell'assicurazione sanitaria, essa consiste soprattutto in un regalo alle compagnie d'assicurazione private, che vedranno arrivare milioni di nuovi clienti. Ma i passi indietro di Obama, che ha rimandato a più tardi l’obbligo delle imprese di assicurare i loro lavoratori e che lascia agli Stati repubblicani la possibilità di rifiutare di applicare la riforma, fanno sì che 30 milioni di persone rimarranno senza copertura sanitaria. Per quanto riguarda gli altri, la loro assicurazione potrà costare poco, ma in questo caso il rimborso sarà minimo e lascerà a loro carico fatture così importanti che molti di loro rinunceranno a curarsi, anche se avranno pagato un’assicurazione che sarà resa obbligatoria, pena una multa.

Di fronte a queste offensive della borghesia, le direzioni sindacali, lungi dall’aiutare i lavoratori a difendersi, vogliono innanzitutto dimostrare che sono interlocutori leali dei padroni e cercano di far accettare i sacrifici ai lavoratori. È ovviamente una politica che li indebolisce, tanto più che, in alcuni Stati retti dai Repubblicani, i governatori sono passati all’offensiva per far adottare leggi che pongono fine al prelievo automatico delle quote sindacali a carico dei padroni.

L’Unione europea in periodo elettorale

Per quanto riguarda l’Europa, le elezioni europee saranno il momento politico significativo dell’anno prossimo. È la parte più appariscente della scenografia democratica che circonda la costruzione europea.

Gli elettori di tutti i paesi dell’Unione europea saranno chiamati nello stesso momento ad eleggere quel parlamento europeo che è solo un luogo di chiacchiere con poteri limitati quanto quelli dei parlamenti nazionali della democrazia borghese.

Pur considerando le elezioni europee come una parte dello stesso contesto elettorale delle elezioni comunali, nelle quali interverremo con le stesse proposte per “far sentire il campo dei lavoratori”, dovremo ovviamente anche prendere posizione sull’Unione europea.

Esprimeremo la nostra opposizione, non all’Unione e neanche all’Europa, ma al fatto che le istituzioni create dalle borghesie di alcuni paesi non sono né un’unione, né l’Europa. Si tratta di un'unione la cui ragion d'essere sta nella circolazione dei capitali e delle merci. La sorte riservata ai Rom mette in luce come stanno le cose per quanto riguarda la libera circolazione delle persone. E parlare di Europa è una truffa, giacché più della metà del territorio europeo e un terzo della sua popolazione non fanno parte dell’Unione europea.

È una falsa unione che consiste in realtà in una giustapposizione di Stati di cui alcuni, imperialisti, dominano altri e tra i quali le opposizioni tra interessi diversi non sono sparite. L’Europa ha oggi più confini nazionali di quanto ne aveva sessant’anni fa, quando furono posate le prime pietre dell’Unione europea. E la moltiplicazione di questi confini, invece di risolvere i problemi delle minoranze nazionali, li ha aggravati.

Diremo di nuovo, durante queste elezioni, che siamo contrari alle frontiere nazionali e alle barriere protezioniste che frammentano l’Europa e la sua economia.

Contro ogni forma di demagogia nazionalista, aperta od ovattata, contro il protezionismo che protegge solo gli interessi dei capitalisti e non quelli degli sfruttati, affermeremo la convinzione che “i proletari non hanno patria”.

Affermeremo che il senso della battaglia per il comunismo è di espropriare il grande capitale e che l’avvenire di un’Europa liberata dalla dittatura del capitale sta nella soppressione delle frontiere, in un’Europa unificata ma senza filo spinato intorno e aperta al mondo. Affermeremo che essere comunista significa essere internazionalista perché la società del futuro, sbarazzatasi della proprietà privata e dello sfruttamento, potrà realizzarsi solo su scala internazionale.

Per quanto riguarda tutte le rivendicazioni che si collocano nell'ambito della società capitalista odierna, privilegiamo quelle che unificano le lotte della classe operaia mentre rigettiamo quelle che la dividono e, a maggior ragione, quelle che stabiliscono una gerarchia tra i popoli.

La Russia

Dal 2007 - 2008 la crisi mondiale ha riportato all'ordine del giorno la questione dei mutamenti dell'economia ex sovietica. Saccheggiata da una folla di parassiti, fatta a pezzi, ciò che ne rimane continua a degradarsi. Più di vent'anni dopo la scomparsa dell'Urss, della proprietà statale e della pianificazione, niente ha potuto rilanciare l'economia al livello di questo immenso paese, e certamente non l'iniziativa privata, in altri termini l'appetito capitalista del profitto.

Gli investimenti produttivi privati sono a zero: grandi progetti che i finanziamenti pubblici stentano a realizzare anche se sono i motori dell'economia russa; fabbriche invecchiate i cui costi di produzione sono diventati così alti che le merci prodotte sono più care dei loro equivalenti fabbricati all'estero.

Secondo Medvedev "l'epoca delle decisioni semplici è superata". Ciò vuol dire che le autorità russe cominceranno quelle "riforme strutturali" che ancora recentemente l'FMI o la Banca mondiale rimproveravano loro di rimandare?

La decisione non è così "semplice" quando mancano i capitali. Il fallimento di Cipro lo ha ricordato con forza, i ricchi di Russia, sia burocrati di ogni genere che borghesi, continuano ad inviare verso i paradisi fiscali gran parte di ciò che riescono a prelevare nel paese.

Decidere di chiudere fabbriche considerate non redditizie non è semplice, anche se tali esempi non mancano in Russia. Queste fabbriche fanno vivere città intere, come le centinaia di "mono-città", cioè città mono industriali che sono state la trama dello sviluppo industriale all'epoca sovietica, e la loro chiusura comporta la minaccia di esplosioni sociali. E non bisogna dimenticare che questi siti industriali, seppur invecchiati, in molti casi rimangono una delle principali fonti di reddito di una folla di burocrati locali, e innanzitutto la garanzia del loro peso sociale e politico.

Di fronte ai contraccolpi della crisi mondiale, il Cremlino, che cerca di far risparmi pur rimanendo molto cauto, comincia ad applicare misure di austerità e restrizioni finanziarie, come il blocco dei salari di 1,5 milioni di statali mentre l'inflazione (intorno al 7%) non rallenta, l'aumento delle tariffe dei servizi pubblici; l'introduzione di un sistema di quote per il consumo d'elettricità e d'acqua, il che si traduce in privazioni e fatture in aumento per la popolazione.

Dall'arrivo di Putin al potere all'inizio del 2000, il regime si richiama apertamente al nazionalismo, alla grande Russia zarista o al ricordo della grande potenza sovietica dei tempi di Stalin, sia per ritrovare un po' di prestigio sia per far dimenticare alla popolazione che solo il 10% di essa ha guadagnato qualcosa dal crollo dell'Urss (secondo una stima dell'Accademia delle scienze della Russia).

Il pogrom di Biriulevo (Mosca) dimostra, dopo altri dello stesso genere, come la propaganda xenofoba ufficiale si traduce nei fatti e come le autorità trovano un interesse nell'indicare capri espiatori stranieri da sacrificare alla collera della popolazione, temendo che essa voglia prendersela con gli uomini del potere e con i ricchi, che siano alti burocrati o borghesi.

Sembra che Putin sia riuscito a soffocare la contestazione anti-Cremlino del 2011 - 2012 appoggiata massicciamente ma passivamente, dalla piccola o media borghesia urbana. Egli ha anche potuto permettersi di far rimettere in libertà Navalny, figura emblematica di quelle manifestazioni, affinché potesse candidarsi alle elezioni comunali di Mosca nel settembre 2013. Questi è stato battuto largamente e, sembra, senza troppi inciuci dal sindaco in carica, candidato del potere. Una volta placatasi, la contestazione dei piccoli borghesi della capitale non ha trovato modo di esprimersi con forza nelle elezioni.

La ripresa della spinta dell'Unione europea, e più in generale delle potenze imperialiste, in direzione di alcuni Stati generati dall'Unione sovietica, quali Ucraina, Armenia, Georgia, ha potuto solo confortare Putin nel suo atteggiarsi a difensore della comunità russa assediata da tutte le parti. Il confronto tra Mosca e Kiev, quest'ultima tentata di firmare un accordo di associazione all'Unione europea mentre il Cremlino vorrebbe far entrare l'Ucraina nella sua unione doganale con Bielorussia e Kazakistan, ricorda che la "politica dei blocchi" non è scomparsa con l'Urss.

Il Cremlino, che non ha difficoltà a dimostrare che gli Stati imperialisti sono i primi responsabili di questa tensione, se ne serve per rafforzare la propria posizione interna. Questo ha contribuito a fare tacere una parte dell'opposizione di destra e piccolo borghese. E' probabile che, con gli effetti, anche se indiretti, della crisi mondiale, ciò pesi anche sul morale della classe operaia le cui lotte e scioperi segnano il passo rispetto agli anni precedenti.

La Cina

Il rallentamento dell'economia cinese si è confermato nel 2013. Mentre il Pil aumentava del 10% all'anno dal 1990, la crescita ormai è scesa al 7,5%. Questo si spiega, tra l'altro, con l'impatto della crisi mondiale sulle esportazioni cinesi, che rappresentavano il 36% del Pil nel 2007 (il 26% nel 2009). Ma anche queste cifre probabilmente sono solo la parte emersa di un iceberg fatto di debiti nascosti, di banche fragili e di speculazione immobiliare.

La bolla del credito non ha smesso di aumentare. Dal 2007 il portafoglio commerciale delle banche è più che raddoppiato. Se l'indebitamento dello Stato centrale, il 14% del Pil, rimane basso rispetto a quello dei paesi occidentali, tale cifra è fuorviante. Dal 2008 lo Stato ha iniettato nell'economia somme considerevoli. Da molto tempo si sa che esso non mette in conto né i prestiti degli enti locali, né quelli di amministrazioni pesantemente indebitate come, ad esempio, il ministero delle ferrovie, il che porta il debito accumulato al 45% del Pil. Inoltre, gli enti locali, per finanziarsi, hanno creato strutture di finanziamento oscure, le "piattaforme di finanziamento dei governi locali", al punto che il potere centrale si dice incapace di trovare il bandolo della matassa, confessando quindi la sua incapacità di valutare questo debito nascosto.

La speculazione immobiliare raggiunge livelli alti da anni. Se il paese consuma quasi il 60% del cemento prodotto nel mondo, e il 43% del materiale per l'edilizia, questo non è solo dovuto alla crescita della popolazione urbana. La stampa ha riferito il moltiplicarsi delle “città fantasma” come Kangbashi, un quartiere della città di Ordos nella Mongolia interna, costruito per accogliere un milione di abitanti ma che ne conta 30 000. Circa 70 milioni di case sarebbero inoccupate, autostrade e aeroporti sono sottoutilizzati. Questo non impedisce al boom dell'edilizia di proseguire, come già è successo negli Stati Uniti o in Spagna. Lo spiega uno specialista affermando che "bisogna continuare a finanziare l'immobiliare e, per questo, attrarre gli investitori, offrendo loro un risparmio meglio remunerato della media". La questione non è tanto sapere se questa bolla scoppierà, ma quando, e quali saranno le conseguenze.

Certamente l'ascesa della Cina sulla scena mondiale prosegue: è il primo produttore mondiale di carbone, d'acciaio, d'alluminio, di concimi, di cemento, di tessili, di televisori, di computer, di telefoni, ecc. La Cina è, per volume di produzione, la seconda economia mondiale e possiede riserve di cambio tra le più alte del mondo. Se però si rapportano questi risultati alla sua immensa popolazione, notiamo che il Pil per abitante del paese rimane modesto, da 5400 a 7 600 $ all'anno secondo i metodi di calcolo, il ché colloca la Cina intorno al novantesimo posto nel mondo, dietro la Repubblica dominicana, la Tunisia e l'Albania.

Abbiamo già avuto l'occasione di sottolineare il ruolo dello statalismo nello sviluppo passato e presente dell'economia cinese. Lo Stato non solo ha posto le basi dello sviluppo sotto Mao Tsetung, non solo ha organizzato lo sviluppo della produzione, ma continua ad avere un ruolo determinante in tutti i settori dell'economia. Esso fissa i prezzi della ripartizione dei fattori essenziali di produzione. Quattro grandi banche, completamente controllate dallo Stato, sono alla testa della metà di tutti gli utili bancari, mentre gli altri stabilimenti di credito sono spesso legati alle autorità locali. Lo Stato controlla l'essenziale delle risorse fondiarie, così come tutte le grandi aziende. Parecchi analisti sottolineano anche che dalla crisi del 2008 il controllo dello Stato si rafforza. Lo Stato, che gioca un ruolo stabilizzante senza il quale il paese sarebbe smembrato dalla borghesia cinese e straniera come prima del 1949, continua a preoccuparsi di un certo sviluppo nazionale.

Questo controllo dello Stato, onnipresente in tutti i campi vitali della società, non è affatto contraddittorio con l'arricchimento della borghesia cinese. Gli ambienti d'affari e la pletorica casta dei responsabili politici e amministrativi si intrecciano strettamente, per non dire che si fondono. Per fare solo alcuni esempi, il dirigente della società di costruzione aeronautica Comac è anche il governatore della provincia dell'Hebei; l'ex presidente della più grande società automobilistica cinese è diventato vice-governatore della provincia del Jilin; il padrone di Chinalco (China Aluminium Company) è diventato vicepresidente del Consiglio degli affari di Stato, ecc. La Cina non ha mai smesso di essere uno Stato borghese, anche dopo il 1949. Tuttavia, mentre durante il periodo maoista l'arricchimento dei quadri e dei privilegiati del regime era nascosto o strettamente misurato, adesso non conosce limiti.

La successione ai vertici dello Stato, confermata durante il congresso del Partito comunista (Pcc) nel novembre 2012, ha avuto luogo, come previsto, nel marzo 2013. Tutt'al più, qualche volta, s'intravedono i risultati di lotte tra i dirigenti del paese, tra clan e tra singoli, come è stato all'epoca del processo Bo Xilai. Figlio di un eroe della rivoluzione maoista, questa ex stella della direzione è stata condannata all'ergastolo per "corruzione e abuso di potere", dopo essersi costruito una fama di nemico della corruzione quando era dirigente del partito a Shongqing. Chi può dubitare che il suo processo copre un regolamento di conti al vertice? La corruzione è tanto più condannata dalle autorità ufficiali in quanto tocca tutti i livelli del potere dal più basso al più alto, dal sindaco di una cittadina al capo dello Stato, in proporzioni diverse ovviamente. L'ex primo ministro Wen Jiabao ha moltiplicato, durante dieci anni, le dichiarazioni contro la corruzione e per “l'armonia” sociale; si sa adesso che con la famiglia Wen ha accumulato circa 2,1 € miliardi di utili. Quanto al nuovo presidente della Repubblica popolare, Xi Jiping, anche lui “principe rosso”, come si chiamano i figli di dirigenti del regime, la sua famiglia possedeva già prima del suo arrivo al potere parecchie proprietà lussuose a Hong Kong e decine di milioni di dollari in vari affari. L'appartenenza ai circoli dirigenti è una garanzia di arricchimento personale.

Il supersfruttamento della classe operaia cinese e l'integrazione di circa 300 milioni di rurali impoveriti nella produzione manifatturiera e nell'edilizia sono stati i principali fondamenti della crescita cinese da trent'anni. Se le multinazionali americane, europee o asiatiche continuano ad estrarre un plusvalore consistente dal proletariato del paese, pure la borghesia media e grande di questo stesso paese si arricchisce rapidamente. La classe operaia continua a pagare ad alto prezzo l'industrializzazione e l'urbanizzazione del paese, e questo in mille modi: giornate di lavoro lunghissime senza giorni ferie, punizioni fisiche, intossicazioni professionali, infortuni sul lavoro, salari diminuiti dalle trattenute, ritardi nei pagamenti, licenziamenti, ecc. Ci si aggiungono l'inquinamento, gli scandali sanitari e alimentari, gli sfratti legati a progetti industriali, immobiliari, ecc.

È difficile valutare le lotte condotte dalla classe operaia cinese, la più vasta del mondo. È chiaro che queste battaglie sono difficili a causa della repressione politica e della collusione tra il sindacato unico, il padronato e le autorità. Varie informazioni, però, indicano il moltiplicarsi delle lotte e degli scioperi sulle condizioni di lavoro e sui salari. L'aumento di questi ultimi del 15% circa all'anno nelle regioni litoranee, quelle più industrializzate e più popolate, non ha altra spiegazione. Non sembra invece esprimersi neppure in modo minoritario, una prospettiva politica che rappresenti gli interessi del proletariato. Questa è esistita in Cina, ma è stata annientata con lo schiacciamento dell'opposizione di sinistra trotzkista negli anni 1930 e 1940, e poi sotto il regime maoista. Dalla rinascita di questa tradizione dipende, in ultima analisi, il futuro del proletariato cinese.

Dopo la “primavera araba”, i progressi della reazione in Tunisia ed in Egitto

Sono passati quasi tre anni dall'inizio di quella che è stata chiamata la “primavera araba”. Nei vari paesi coinvolti, la transizione democratica di cui essa, si diceva, sarebbe stata portatrice si rivela essere un miraggio. Se allora delle speranze si erano risvegliate nelle masse popolari, esse sono state in gran parte deluse.

La Tunisia, primo paese ad essersi sbarazzato del suo dittatore e ad aver dato il via ai movimenti della primavera araba, è in piena crisi politica. L'assassinio di due militanti di sinistra in meno di sei mesi ha messo in difficoltà il potere dominato dal partito islamista accusato di complicità. Ma la crisi politica si svolge sullo sfondo di una profonda crisi sociale. La miseria non ha fatto altro che crescere per la maggioranza della popolazione, le cui manifestazioni di malcontento si moltiplicano mentre il potere politico si discredita.

Ma l'evoluzione più significativa è in Egitto, ed è anche quella più determinante per l'importanza del paese e per il ruolo politico centrale di questo nel mondo arabo. Il colpo di stato del 3 luglio scorso ha posto fine al governo dei Fratelli musulmani diretto da Muhammad Morsi. L'esercito, intervenendo dopo l'enorme manifestazione del 30 giugno, organizzata dal movimento Tammarod (“ribellione”) e chiedendo la destituzione di Morsi, ha potuto presentare la sua azione come il compimento della volontà popolare. E' stato aiutato in questo dalle forze politiche di sinistra, nazionaliste laiche o semplicemente liberali che dal 2011, in Egitto come all'estero, hanno contribuito a presentarlo come l'esecutore delle volontà del popolo. Ma se i soldati della base sono effettivamente molto vicini alla popolazione dalla quale provengono, come in tutti gli eserciti non sono loro a decidere, bensì lo Stato maggiore. E quest'ultimo, ovviamente, ha obiettivi ben diversi dalla difesa degli interessi degli strati più poveri.

Nel febbraio 2011, la partenza di Mubarak dal potere e la sua sostituzione da un Consiglio superiore delle forze armate che diceva di voler aprire la strada alla democrazia sono state il frutto di una concertazione tra i vertici dell'esercito e i dirigenti dell'imperialismo americano. Si trattava di sbarazzarsi di un dittatore odiato dalla popolazione e, con ogni evidenza, politicamente logorato, in modo da conservare l'essenziale. In quel momento non si era trovato miglior modo per impedire che il movimento popolare, cominciato sotto la parola d'ordine generale “vattene”, non sfociasse nello spezzettamento del potere di Stato e, finalmente, in un'autentica rivoluzione, nella quale i vari interessi di classe avrebbero potuto cercare un'espressione politica.

La partenza di Mubarak, invece, è stata l'inizio dell'operazione che ha permesso all'esercito di presentarsi ancora una volta come il “salvatore del popolo”, di ritrovare una parte del credito perso durante gli anni precedenti e di ridiventare l'arbitro della situazione nell'interesse della borghesia egizia e dell'imperialismo. L'esercito, tra l'altro, non si è mai allontanato davvero dal potere, anche quando un rappresentante dei Fratelli musulmani è stato eletto presidente nelle elezioni del giugno 2012 e ha provato a sostituire gli elementi di spicco dello Stato maggiore con uomini da lui scelti.

La profondità della crisi economica e sociale ha portato ad un discredito rapido del governo Morsi. Questi è apparso più preoccupato di soddisfare le proprie truppe, chiedendo l'applicazione immediata dei principi fondamentalisti islamici, che non di trovare un esito ad una crisi dalle conseguenze drammatiche per la popolazione. Questo spiega senz'altro il successo della campagna del movimento Tammarod per la destituzione di Morsi. Questa campagna, tra l'altro, ha beneficiato del sostegno dell'esercito, anche se è difficile dire in quali proporzioni e fino a che punto questo sostegno ha contatto.

Il colpo di stato del 3 luglio ha ovviamente segnato una tappa nel conflitto tra l'esercito e la confraternita dei Fratelli musulmani, cioè tra le due forze la cui rivalità forma da anni la trama della storia politica dell'Egitto. L'esercito, alle conseguenti manifestazioni organizzate dai Fratelli musulmani, ha risposto con una repressione feroce provocando un vero bagno di sangue tra i fautori della fratellanza e facendo sprofondare il paese in un'atmosfera di guerra civile.

Al di là del regolamento di conti con i Fratelli musulmani, il colpo di stato rispondeva nondimeno ad un più fondamentale problema della borghesia egizia e dell'imperialismo. Da parecchi anni, anche prima della partenza di Mubarak, l'Egitto era entrato in un periodo di instabilità sociale. Il moltiplicarsi degli scioperi stava dimostrando che una parte della classe operaia non sopportava più la situazione di miseria e si sentiva abbastanza forte da esigere miglioramenti, pur rimanendo nel campo puramente economico. A questa situazione veniva ad aggiungersi l'agitazione di una parte della piccola borghesia che non sopportava più la dittatura e lo faceva sapere.

Ora, se il potere può immaginare di dare qualche soddisfazione superficiale alla piccola borghesia, non può soddisfare le rivendicazioni delle più larghi masse popolari. L'avidità della borghesia egiziana e il rifiuto del gran capitale imperialista di abbandonare anche solo una parte dei suoi profitti, non lo consentono. L'obiettivo principale del nuovo potere militare consiste quindi nel far fronte all'ascesa delle rivendicazioni popolari e, se possibile, nello spezzare tale ascesa.

L'esercito, del resto, non ha mai smesso di agire, sia sotto Morsi che prima o dopo di lui, contro gli scioperi e i movimenti spontanei dei lavoratori egiziani. Anche se esso prova a servirsi del credito politico conquistato nell'operazione del 3 luglio per fare pazientare i lavoratori, non esita neppure, e esiterà certamente sempre meno, ad esercitare la repressione più diretta. Dopo gli scontri d'agosto, il nuovo potere ha decretato il coprifuoco e restaurato lo stato d'emergenza. Quest'ultimo potrebbe essere mantenuto come fu per più di trent'anni sotto il regno di Mubarak, e ciò non prenderebbe di mira solo i Fratelli musulmani.

Il colpo di stato del 3 luglio nemmeno protegge la popolazione contro i tentativi dei religiosi di imporre la loro legge. Esso ha beneficiato del sostegno aperto dell'Arabia Saudita, in rivalità con i Fratelli musulmani e il capo del golpe, il generale Al-Sissi, non farà nulla che possa scontentare quest'ultima. D'altra parte, la repressione violenta attuata dall'esercito contro le manifestazioni dei Fratelli musulmani è ben lungi dall'essere in grado di allontanare il pericolo rappresentato da questa organizzazione reazionaria e oscurantista. Quest'ultima conserva un radicamento popolare profondo, tra l'altro grazie agli organismi di aiuti sociali che controlla e che sono, in molti paesi musulmani, il principale punto d'appoggio delle organizzazioni fondamentaliste islamiche.

I dirigenti della fratellanza sanno che il potere militare potrebbe a sua volta screditarsi rapidamente e che questo sarà forse l'occasione, per loro, di tornare in forze. La fratellanza potrà allora appoggiarsi a militanti che dopo le giornate sanguinose dell'agosto 2013 si sono senz'altro radicalizzati e non chiedono altro che di vendicarsi dei militari, ma anche dei militanti laici o di sinistra, oppure della minoranza copta, schierati dalla parte dell'esercito. Questo può rapidamente fare non solo la forza dei Fratelli musulmani, ma anche renderli utili alla borghesia. In passato, il potere egiziano ha spesso alternato le fasi di collaborazione aperta con i Fratelli musulmani a quelle di repressione. Se il potere militare si rivelasse incapace di farsi rispettare dalle masse popolari da solo, la fratellanza potrebbe costituire una risorsa per inquadrarle, soffocare le loro rivendicazioni e, eventualmente, reprimerle.

In Egitto come in Tunisia, le classi dirigenti sono ancora ben lungi dall'avere stabilizzato la situazione e dare scacco matto alle classi popolari. È nondimeno evidente sin d'ora quanto sia impossibile immaginare un vero miglioramento delle sorti delle masse se esse non sono in grado di darsi obiettivi politici rivoluzionari. Abbattere lo Stato della borghesia, instaurare un potere che sia quello dei lavoratori e delle masse povere, porre fine al dominio dell'imperialismo, è l'unica strada per poter soddisfare i loro bisogni più immediati. In paesi poveri come l'Egitto, la Tunisia e la maggior parte degli altri paesi arabi, la battaglia per i diritti, le libertà democratiche e la giustizia sociale potrà essere portata fino in fondo soltanto dalla battaglia del proletariato cosciente, in lotta per la sua emancipazione dalla espropriazione della borghesia.

In Siria una guerra civile disastrosa per tutta la popolazione

In Siria gli sviluppi della “primavera araba”, essendo sfociati in una guerra civile feroce, sono stati i più drammatici. Alle prime manifestazioni popolari dell'inizio del 2011, che chiedevano più libertà e giustizia, il regime ha risposto con una violenta repressione. Una ribellione armata si è allora rapidamente sostituita all'azione delle masse, ma con obiettivi del tutto diversi.

I dirigenti occidentali hanno sempre saputo accontentarsi del regime degli Assad padre e figli, che ha reso loro molti servizi. Non potevano però trascurare l'opportunità di sbarazzarsi di un regime nazionalista arabo rimasto alleato della Russia e dell'Iran, che complicava il loro gioco nella regione. Ciò era ancora più vero per i regimi vicini alla Siria. Per Turchia, Giordania, Arabia Saudita ed Emirati il regime era un rivale da abbattere. Questi ultimi, quindi, hanno fornito armamenti ai gruppi di volontari o disertori dell'esercito siriano che volevano combattere Assad, stabilendo sul proprio territorio basi di ripiegamento per i combattenti, il tutto con l'appoggio dei servizi occidentali.

Contemporaneamente varie manovre si sono svolte per creare un raggruppamento d'opposizione di facciata democratica in modo da poter apparire come un'alternativa politica al regime. L'ultimo in ordine di tempo è stato quello denominato Coalizione nazionale siriana. Essa, istituita con l'aiuto del governo francese e subito da questo riconosciuta nell'ambito dei suoi disperati sforzi per imporsi come parte del conflitto.

Il regime però ha mostrato capacità di resistenza inaspettate, almeno per quelli che scommettevano su un suo rapido crollo. D'altra parte in seno ai volontari venuti con l'appoggio di Turchia, Giordania e Qatar, i combattenti islamisti integralisti, compresi quelli legati ad Al-Qaeda, hanno preso sempre più peso. Si sono comportati come portatori di una nuova dittatura nei confronti della popolazione. I gruppi delle ribellione armata, uccidendo gli oppositori, attaccando le minoranze religiose e cercando di imporre la loro legge a tutti, hanno spinto una parte della popolazione dalla parte del regime. D'altro canto, la “liberazione” di un quartiere o di una città ha avuto come prima conseguenza quella di farne il bersaglio dei bombardamenti dell'esercito di Assad e di essere presi tra due fuochi. L'opposizione politica raggruppata nella Coalizione nazionale siriana è apparsa priva di autorità su queste milizie le cui azioni assomigliano spesso al brigantaggio puro e semplice.

Il risultato della guerra civile per la popolazione siriana è un immenso disastro materiale, umano e anche politico. Il movimento popolare dell'inizio del 2011 è stato schiacciato non solo dalla repressione violenta del regime, ma anche da tutti quelli che hanno sostenuto di aiutarlo. Le bande armate appoggiate dai regimi vicini si sono rivelate tanto nemiche della popolazione quanto quelle di Assad. Essa è diventata un semplice giocattolo nel mezzo di tutti questi interventi devastanti. La fine della guerra civile, qualsiasi sia la situazione, avrà come risultato un regresso profondo per il paese e per le condizioni morali e materiali delle masse popolari.

In modo ancora più drammatico del caso dell' Egitto, la crisi siriana mette in luce quanto le masse popolari e la classe operaia dei paesi della regione non possano sperare in una liberazione, se non quella che potranno conquistare loro stesse dandosi propri obiettivi politici e lottando per distruggere con i propri mezzi di classe gli apparati di repressione quali sono gli Stati della regione. Tale crisi, in una regione sottoposta al gioco di Stati concorrenti, tutti più o meno strumentalizzati dalle grandi potenze, dimostra anche quanto il proletariato di uno di questi paesi debba darsi immediatamente obiettivi nei confronti della classe operaia dei paesi confinanti, in modo da estendere la sua rivoluzione prima che questa sia sopraffatta dagli interventi di questi Stati. Il contagio che si è prodotto da un paese all'altro durante gli avvenimenti della “primavera araba” dimostra, d'altra parte, che ciò non è solo una necessità, ma anche una possibilità concreta in una regione e in paesi le cui popolazioni sono coscienti che i loro destini politici sono strettamente collegati.

La ricerca di un accordo internazionale che coinvolga Russia e Iran

Ora si assiste a tentativi di composizione della crisi siriana. Infatti, i dirigenti degli Stati Uniti ormai non possono augurarsi una vittoria delle ribellione armata, perché potrebbe portare all'insediamento a Damasco di un potere che sarebbe ancora più ostile di quello di Assad. D'altra parte, una vittoria totale del regime farebbe perdere loro la faccia. Da lì deriva la sceneggiata orchestrata a proposito delle armi chimiche. I dirigenti occidentali hanno puntato il dito sul regime di Damasco, accusato, a torto o a ragione, di averle utilizzate contro le popolazioni. Gli hanno ingiunto di rinunciare a queste armi, pur guardandosi bene di pretendere altrettanto al riguardo delle armi convenzionali, per quanto già responsabili di decine di migliaia di morti. Il regime, per il tramite della Russia, ha allora potuto dare agli occidentali la soddisfazione di rinunciare a queste armi... che comunque non hanno per esso un'importanza decisiva.

Questo gioco delle parti serve infatti a nascondere il passo indietro dei dirigenti occidentali e il loro tentativo di arrivare ad un accordo con il regime di Assad sotto la garanzia dei suoi alleati russi e iraniani. Una "soluzione politica" si sarebbe trovata sotto forma di una parvenza di evoluzione del regime con la partecipazione di alcuni gruppi d'opposizione uniti dalla promessa di organizzare elezioni. Si dovrebbe allora aprire la strada a discussioni sulle condizioni per la ricostruzione del paese, sui mercati che ne potrebbero derivare per le imprese americane o russe e sui paesi, ad esempio Arabia Saudita ed Emirati, che potrebbero essere sollecitati affinché finanzino la ricostruzione stessa.

Si vedrà in futuro se tale accordo sarà finalizzato. Le discussioni potrebbero protrarsi nel tempo e allora la guerra civile potrebbe continuare ancora a lungo con tutte le distruzioni e le sofferenze che ne derivano per la popolazione. La cosa più difficile per gli Stati Uniti sarà senz'altro quella di far accettare questo accordo ai suoi alleati. Le principali opposizioni allo svolgersi di una conferenza di pace detta Ginevra II, provengono per ora dalla Coalizione nazionale siriana come dall'Arabia Saudita e dai suoi alleati.

Infatti, un accordo con il regime Assad sotto la supervisione degli Stati Uniti, della Russia e dell'Iran sarebbe un fallimento per Turchia, Arabia Saudita ed Emirati. Li costringerebbe a tagliare i viveri a gruppi armati che hanno contribuito a formare ed equipaggiare. In quanto a questi ultimi di cui i fondamentalisti islamici sembrano ormai costituire la parte maggiore, niente garantisce che si lasceranno ricondurre facilmente alla ragione dai loro protettori o dalla Coalizione nazionale siriana, anche se quest'ultima volesse tentare di dare prova di autorità.

Un riavvicinamento è stato avviato anche tra gli Stati Uniti e l'Iran in occasione della partecipazione del nuovo presidente iraniano Rohani all'assemblea generale ONU. Ciò si è reso possibile per il fatto che questi si presenta come un moderato favorevole ad un'apertura, ma corrisponde anche ad un ammorbidimento della politica degli Stati Uniti. Il caos siriano è venuto ad aggiungersi a quelli in Iraq e in Afghanistan, provocati anch'essi dagli interventi americani. I dirigenti degli Stati Uniti sono stati sufficientemente provati da queste esperienze per pensare di lanciarsi in nuove avventure militari e non cercare i mezzi per uscire dal pantano che hanno creato.

Se ci fosse un accordo con potenze quali Iran e Russia, queste potrebbero accettare di diventare i custodi di un equilibrio tra gli Stati della regione. In collaborazione con gli Stati Uniti e gli altri Stati occidentali, esse potrebbero utilizzare la loro influenza per contrastare o provare a controllare le varie tendenze fondamentaliste islamiche e il loro ruolo destabilizzante.

Tuttavia, un tale accordo, che sarebbe il prolungamento di quello in corso per la Siria, potrebbe essere, anzi sarebbe un motivo in più di malcontento per gli alleati degli Stati Uniti, vale a dire Arabia Saudita, Turchia ed Emirati, per i quali l'Iran è innanzitutto un rivale. Trovare un accordo con Russia ed Iran senza sconfessare troppo apertamente tali alleati, per i dirigenti americani sarà un difficile esercizio d'equilibrismo.

I negoziati israelo-palestinesi

Quanto detto sopra è ancor più vero per quanto riguarda i dirigenti israeliani. Da anni essi non smettono di denunciare il regime iraniano, accusandolo di volersi dotare di un armamento atomico per poter distruggere Israele. È lo stesso pretesto invocato da anni dai dirigenti occidentali per denunciare l'Iran e sottometterlo a sanzioni. Eppure tale pretesto potrebbe essere rapidamente scordato se ciò fosse necessario per facilitare un accordo. In quanto alle minacce dei dirigenti israeliani di intervenire militarmente contro gli impianti nucleari iraniani, queste non saranno certamente attuate se gli Stati Uniti vi si oppongono. I dirigenti israeliani rimangono però contrari ad ogni riavvicinamento all'Iran che suonerebbe loro come una sconfessione della propria politica, e col quale temono di perdere un po' della loro posizione di alleato privilegiato degli Stati Uniti.

Il riorientamento della politica degli Stati Uniti, se verrà confermato, non giungerà certamente fino al punto di abbandonare un alleato israeliano che è sempre stato molto utile. Essi vorrebbero però ottenere da Israele alcuni gesti per dare un po' di credito al rilancio dei negoziati israelo-palestinesi. Senz'altro si tratterebbe solo di alcuni mosse simboliche, quali il congelamento degli insediamenti nei territori occupati o alcuni alleggerimenti al regime di occupazione, mosse che sarebbero ben lungi dal fornire davvero la base per un inizio di composizione del conflitto israelo-palestinese. Esse sarebbero però sufficienti a creare problemi politici a dirigenti israeliani che sono soggetti ai rilanci permanenti della loro destra e estrema destra.

In ogni caso, non c'è niente da aspettarsi da tali negoziati per quanto riguarda la soddisfazione delle rivendicazioni del popolo palestinese. Questo, per di più, potrebbe essere la parte dimenticata di un accordo tra i dirigenti imperialisti e quelli degli Stati della regione. Per questi ultimi, dall'Iran alla Turchia, agli Emirati e alla Siria, la difesa dei diritti del popolo palestinese non è mai stata altro che un elemento di demagogia nei confronti della loro opinione pubblica, praticamente senza una reale implicazione. La battaglia del popolo palestinese per i suoi diritti si fonde, come per gli altri popoli della regione, con la battaglia del proletariato cosciente di tutto il Medio Oriente per la propria emancipazione, contro Stati oppressori tra loro concorrenti, ma che, da Israele alla Turchia, dall'Arabia Saudita all'Egitto collaborano tutti, a loro modo, al mantenimento della regione sotto il dominio imperialista.

L'Africa sulla strada tortuosa dello sviluppo disuguale

L'Africa viene talvolta presentata, da alcuni anni, come una futura speranza per la crescita mondiale per il suo tasso di crescita che sarebbe mediamente del 3% superiore a quello dell'Europa.

Dal momento che la ricchezza dell'Africa è costituita per l'essenziale da risorse naturali - anche se non tutti i paesi africani hanno le stesse ricchezze -, è sufficiente che una ricchezza minerale non ancora sfruttata di uno di essi cominci ad esserlo, in generale a vantaggio di una multinazionale di un paese imperialista, per far sì che il Pil di quel paese cresca repentinamente. Ma il possesso di materie prime che interessano al capitale occidentale è sempre stato una maledizione per la maggioranza delle popolazioni autoctone.

Lo sfruttamento delle miniere di ferro in Mauritania o di alluminio in Guinea, del petrolio nella Nigeria, in Angola o nel Gabon, dell'uranio nel Niger, ha consentito l'arricchimento di un piccolo strato di privilegiati locali, che di solito occupano i vertici dell'apparato di Stato, o di quadri e intermediari autoctoni che agiscono per conto delle imprese occidentali.

La popolazione locale, al contrario, non solo ne ricava ben pochi benefici, ma ne subisce anche le conseguenze deleterie: dalla trasformazione del delta del Niger petrolifero in una pattumiera rendendo così la pesca impossibile per le popolazioni locali che vivevano di essa, all'esproprio della popolazione contadina là dove la terra è desiderata da una grande società. E ovunque si crei un nuovo focolaio del capitalismo, i prezzi aumentano peggiorando ancor di più la povertà della maggioranza.

In molti paesi africani, lo sfruttamento delle ricchezze minerarie e naturali non solo si traduce in sottrazione di risorse a vantaggio delle grandi società, ma alimenta anche guerre civili. Dietro la guerra etnica in Sierra Leone c'era il diamante; dietro quella in Liberia c'era in più lo sfruttamento del legno tropicale.

E se il Congo - Kinshasa, ex Zaire, è dilaniato quasi di continuo dagli scontri tra bande armate, è perché si tratta di uno dei paesi più ricchi del mondo per le sue risorse minerarie, un autentico "miracolo geologico", a detta dei geografi. Secondo la Croce Rossa, queste guerre avrebbero fatto, tra il 1996 e il 2006, 4 milioni di morti e sono ben lungi dall'essere finite. Ciononostante, un certo numero di grandi società occidentali specializzate nel rame o nel diamante, senza parlare dei fabbricanti di armi, continuano ad arricchirsi mentre le popolazioni delle zone di conflitto sprofondano nella barbarie.

I paesi africani, ricchi di risorse naturali come la maggior parte dei paesi poveri produttori di materie prime, sono stati integrati nelle relazioni commerciali internazionali in quanto paesi dipendenti dal dominio dei paesi imperialisti. Ciò che caratterizza gli scambi tra le parti è lo scambio disuguale, cioè uno scambio in cui i paesi poveri devono fornire sempre più materie prime in cambio di sempre meno prodotti industriali.

La finanziarizzazione dell'economia aggiunge però una dipendenza supplementare dei paesi poveri nei confronti dei paesi ricchi. Oltre a questo saccheggio, qual è il meccanismo dello scambio disuguale, i paesi produttori di materie prime subiscono i contraccolpi della crisi finanziaria. Quando la speculazione fa aumentare il prezzo di una materia prima, sono le grandi imprese del commercio internazionale, o addirittura le banche e i fondi d'investimento, ad intascare il beneficio. Quando invece i prezzi crollano, ne consegue il crollo delle entrate dello Stato.

Ma l'aspetto più drammatico della finanziarizzazione sta nelle variazioni dei prezzi che derivano dalle speculazioni e che spingono una parte più o meno importante della popolazione verso la carestia. La storia recente di parecchi paesi africani è segnata da sommosse della fame.

Quelli che parlano dell'Africa come di un nuovo Eldorado del consumo non hanno però completamente torto. Ma chi ne approfitterà? Un po' gli strati privilegiati dei paesi africani, ma soprattutto, ancora una volta, un certo numero di grandi imprese occidentali.

L'Africa, pur partendo da un livello molto basso, è infatti un mercato in crescita sia per il suo aumento demografico, il più importante di tutti i continenti, sia per la sua urbanizzazione galoppante.

Le grandi città africane esplodono. In Nigeria, Lagos ha 12 milioni di abitanti, nel Congo ex Zaire, Kinshasa ne conta 10 milioni.

La popolazione delle campagne, spinta verso le città dalla povertà e perfino dalla carestia, abbandona i villaggi e quindi l'autosufficienza per diventare una clientela potenziale integrata nell'economia di mercato.

Gli abitanti dei quartieri popolari o delle baraccopoli, per quanto poco sia il denaro che riescono a guadagnare, cioè qualche euro al giorno, costituiscono comunque un mercato per il loro numero. L'economia capitalista ha una lunga esperienza nel guadagnare soldi a spese dei più poveri. Anche un tugurio in una baraccopoli necessita di cemento e lastre che bisogna acquistare. I grandi trust della telefonia riescono a far uscire gli ultimi soldi dalla tasca di un salariato mal pagato per vendergli un telefono cellulare.

Lo sviluppo di una popolazione numerosa, pur con un potere d'acquisto bassissimo, comporta il bisogno di un minimo di infrastrutture e arredamenti, almeno per i meno poveri. Non c'è da meravigliarsi se uno degli uomini più ricchi di Francia è Bolloré, che si è arricchito innanzitutto in Africa e possiede circa 70 società in 35 paesi, in situazione di monopolio in parecchi di essi nel campo dei trasporti, dei lavori portuali, delle ferrovie, delle navi, per non parlare delle sue piantagioni di palme e di banane o delle sue aziende forestali. Queste attività ne determinano altre, lasciate alla piccola borghesia locale, autoctona o venuta dall'estero, che, a sua volta, costituisce una clientela per i supermercati o addirittura per le botteghe di lusso.

Lo sviluppo che ne risulta è innanzitutto "lo sviluppo del sottosviluppo", cioè uno sviluppo disuguale che approfondisce lo scarto tra le città dallo sviluppo esplosivo e le campagne lasciate all'abbandono, così come all'interno delle città stesse. Nelle grandi città africane si vedono costruzioni ultramoderne accanto a quartieri fatiscenti, e le villette per ricchi costeggiano le baraccopoli.

Uno sviluppo disuguale esiste pure tra i vari paesi e tra le varie regioni del continente africano. Solo due paesi, il Sudafrica da molto tempo e la Nigeria più di recente, hanno conosciuto un certo sviluppo industriale. Essi fanno anche parte dei paesi con la popolazione più numerosa.

Ci sono importanti differenze anche tra gli altri paesi dell'Africa nera. Per parlare solo dell'ex impero coloniale francese, esistono differenze sensibili nel grado di arretratezza tra paesi quali il Ciad, la Repubblica centrafricana o il Mali, praticamente senza industria, il Gabon, integrato nell'economia mondiale come puro produttore di materie prime (non solo il petrolio ma anche il manganese e i legni tropicali), e a maggior ragione Gibuti, semplice base per l'esercito francese, da un lato, e un paese come la Costa d'Avorio dall'altro.

Quest'ultima, che dispone di un porto e di alcune infrastrutture di trasporto che servono altri paesi limitrofi, attrae da parecchi anni gli investitori occidentali, nonostante i sussulti della sua vita politica dopo la morte di Houphouët-Boigny. Abigian è diventata una città tentacolare di 4,3 milioni di abitanti, il 20% della popolazione del paese, 6,7 milioni se si considera anche il suo hinterland. Essa continua a crescere rapidamente. Questa città ha visto sorgere imprese e zone industriali con fabbriche moderne, qualche volta come e più di quelle appartenenti allo stesso settore nei vecchi paesi industriali, ma con operai pagati dieci volte meno che in Europa.

La Costa d'Avorio rappresenta in qualche modo il meglio dello sviluppo che il capitalismo riserva ai paesi d'Africa.

Le fabbriche moderne si sviluppano in un ambiente dalle infrastrutture mal mantenute o inesistenti. La modernità si accompagna all'arretratezza, rapide fortune si costruiscono in modo evidente e rivoltante nel mezzo di una maggioranza di lavoratori privata di tutto che appena sopravvive. Anche là dove c'è sviluppo industriale, esso avviene nel mezzo dell'arretratezza generale nel campo materiale come in molti altri campi, culturali e morali. Le strutture sociali più arcaiche come i clan,, i reucci, ecc. trovano nuovo vigore e si sovrappongono alle funzioni dello Stato borghese odierno. I costumi più arretrati sono ripresi e diffusi dalle cosiddette élite che hanno studiato nelle università dei paesi imperialisti.

La semplice concentrazione di parecchie centinaia, o perfino di migliaia di operai, nelle stesse imprese o nelle stesse zone industriali crea, tuttavia, una situazione esplosiva. È un proletariato moderno, non affatto rassegnato, ma al tempo stesso senza tradizioni politiche.

La situazione della Costa d'Avorio può essere sicuramente generalizzata all'insieme dei paesi africani, comunque ai paesi dove la penetrazione capitalista ha creato imprese industriali.

Non solo in Africa, ma in molti altri paesi della parte sottosviluppata del pianeta, lo sviluppo capitalista ha creato un proletariato moderno, ma che vive nelle stesse condizioni del proletariato di Manchester o Liverpool all'epoca della rivoluzione industriale. Le battaglie, le rivolte del proletariato dei paesi poveri superano difficilmente e ben di rado il filtro dei mass media borghesi dei paesi occidentali.

Il proletariato, minoritario se viene considerato separatamente in ogni paese -ma non più del proletariato di quel grande paese arretrato qual era la Russia della rivoluzione del 1917- preso nel suo complesso è infinitamente più numeroso di quello dei rari paesi d'Europa che nell'Ottocento si impegnarono nella rivoluzione industriale.

Il proletariato industriale moderno vive, in tutti i paesi sottosviluppati, negli stessi quartieri e nelle stesse baraccopoli degli innumerevoli poveri delle città ai quali il capitalismo non dà nemmeno la possibilità di trovare un posto di lavoro nelle grandi imprese, nei grandi cantieri o nelle miniere. Il proletariato moderno di questi paesi, una volta dotatosi di una coscienza di classe e di organizzazioni capaci di difendere una politica che corrisponda ai suoi interessi, dovrà in modo del tutto naturale prendere la testa di una mobilitazione rivoluzionaria che trascini i poveri delle città e delle campagne (tanto più che le grandi piantagioni capitaliste di caucciù, palme da olio e tante altre che si moltiplicano in molti paesi poveri, nel distruggere la natura e nell'espellere la popolazione contadina dalle campagne, fanno nascere un proletariato agricolo ancor più sfruttato di quello urbano).

È l'insieme di questo proletariato, unitamente a quello dei vecchi paesi capitalisti, a rappresentare il futuro.

Il nascente proletariato d'Europa occidentale, alla sua epoca, ha avuto bisogno di parecchi decenni per poter acquisire la coscienza che la sua lotta di classe avrebbe avuto uno sbocco solo con la distruzione dell'ordine capitalista. Per questo ci volle l'apporto di Marx e dei rivoluzionari comunisti di quel tempo. Parecchi decenni di storia del proletariato nascente furono segnati da lotte a volte sterili come la distruzione dei macchinari, e limitate all'inizio a varie forme di mutuo soccorso, prima che potesse emergere una coscienza di classe e perché il marxismo potesse trovare nell'analisi del funzionamento dell'economia capitalista le basi obiettive dello sbocco della lotta di classe, cioè la rivoluzione socialista.

Lo stalinismo ha rotto la catena di trasmissione dell'esperienza delle lotte di classe di un proletariato sempre più globalizzato, come lo è l'economia capitalista che lo ha fatto nascere.

Nei paesi trascinati nello sviluppo capitalista ben dopo l'epoca di Marx, o addirittura dopo la rivoluzione del 1917, la trasmissione della tradizione rivoluzionaria del movimento operaio avrebbe senz'altro evitato molti tentennamenti al giovane proletariato di quegli stessi paesi. Oggi, questa tradizione ed organizzazioni che la possano incarnare dovrebbero combattere, dal punto di vista dei valori del movimento operaio, le tradizioni reazionarie che il ritardo della rivoluzione fa risorgere ovunque dal passato.

Il proletariato dei paesi poveri troverà certamente la sua strada, come il proletariato dei vecchi paesi industrializzati diventati imperialisti dovrà ritrovare la propria. La borghesia non fermerà la storia, ancorché abbia salvato il suo sistema di dominio ben al di là di quello che avevano immaginato i comunisti rivoluzionari del passato.

Abbiamo ribadito spesso che la costruzione di un partito rivoluzionario è inseparabile da quella di un'internazionale. Non sappiamo quale ruolo possa giocare una piccola organizzazione come la nostra nella trasmissione delle tradizioni comuniste rivoluzionarie. Ancor meno sappiamo per quale strada passerà la rinascita del movimento comunista internazionale. Ma dobbiamo ragionare e militare in funzione degli interessi e delle possibilità del proletariato internazionale sapendo che, prima o poi, le forze in grado di rovesciare il capitalismo troveranno la loro strada.

4 novembre 2013