(Da “Lutte de classe” n° 154 – Settembre - ottobre 2013)
La questione delle armi chimiche che il regime siriano di Bashar Al-Assad avrebbe utilizzato lo scorso 21 agosto ha portato ad una crisi internazionale in cui le potenze occidentali, Stati-Uniti e Francia in primo luogo, hanno minacciato di “colpire” il territorio siriano, usando una parola “politicamente corretta” che pare avesse sostituito nel linguaggio giornalistico la vecchia parola di “bombardare” decisamente più spiacevole. Ma la realtà così indicata non cambia e sta a dimostrare che i dirigenti imperialisti non hanno rinunciato alla vecchia politica della cannoniera. Si considerano sempre in diritto di intervenire militarmente nei vari angoli del mondo, nascondendo se necessario i loro veri obiettivi dietro pretesti umanitari, indignazioni di facciata e strumentalizzazione di informazioni, e addirittura bluffando col ricorrere a minacce che non sono in grado di attuare.
Il caso delle armi chimiche del regime siriano non fa eccezione. E’ altresì apparso rapidamente che le minacce di colpire la Siria, pronunciate da Barack Obama e ribadite senza paura del ridicolo dal presidente francese Hollande, erano lì soprattutto per nascondere altri calcoli. I dirigenti imperialisti vorrebbero provare ad uscire dalla crisi siriana con i minori danni possibili, almeno per i loro interessi; poiché, per quanto riguarda il popolo siriano, i danni stanno lì, tragici, e sono il prezzo che sta pagando per tutte le manovre che da due anni gli si attuano intorno con il più grande disprezzo per la sua sorte.
Come salvarsi reciprocamente la faccia
Grazie ad una proposta fatta opportunamente dai dirigenti russi, adesso Stati-Uniti e Russia si sono accordati per impegnarsi in un processo che dovrebbe condurre i dirigenti siriani a sottomettere il loro armamento chimico al controllo internazionale e a distruggerlo. Questo sarà complicato, le discussioni promettono di prolungarsi e ovviamente non porranno fine alla guerra civile siriana e alle atrocità che avvengono da tutte le parti. Ma sembra che stia proprio lì quello che interessa ai dirigenti americani e russi. Come vecchi avversari che sanno anche quando è necessario comportarsi da vecchi complici, essi hanno trovato il modo di salvarsi reciprocamente la faccia.
Così Barack Obama, in difficoltà per ottenere un voto del congresso americano che consentisse un intervento militare in cui lui stesso non voleva davvero impegnarsi, ora ottiene una proroga che potrà allungare a volontà. Putin, pur evitando di sconfessare il suo alleato siriano, s'impone come interlocutore obbligatorio di un regolamento internazionale. Quanto al regime di Bashar Al-Assad, tutto sommato esso non rischia niente altro che di doversi sbarazzare di un arsenale di armi chimiche obsolete e comunque di scarsa utilità.
I Barack Obama e gli Hollande agitano la cosiddetta “linea rossa” quale sarebbe l'uso di armi chimiche. Discutere a lungo sul fatto di sapere se questa linea sia stata varcata o meno permetterà loro di fare finta di occuparsi della sorte del popolo siriano, ma significa pure considerare che le altre armi sono lecite, che siano utilizzate dal regime siriano o dai ribelli. Tutta questa agitazione diplomatica e questo concorso di dichiarazioni coprono difficilmente il fatto che la guerra va avanti mentre ha già praticamente distrutto un paese.
I dirigenti occidentali dicono di essere mossi da preoccupazioni umanitarie, ma queste in realtà c'entrano ben poco nei loro calcoli. Per quarant'anni hanno utilizzato il regime di Bashar Al-Assad, e di suo padre prima di lui, e la dittatura che hanno fatto imperare in Siria. Certamente si tratta di un regime nazionalista arabo che, nonostante la fine della guerra fredda e la scomparsa dell'Urss, ha continuato a cercare da parte della Russia un sostegno che gli ha consentito di mantenere una certa indipendenza nei confronti delle potenze imperialiste. Ma questo regime ha anche sempre saputo rendersi utile a queste potenze in un certo modo. Lo ha fatto tra l'altro con il suo intervento in Libano nel 1976 per mantenere lo status quo che poteva essere messo in discussione da un successo delle milizie della sinistra libanese e dei palestinesi nella guerra civile che dilaniava il paese. E se la Siria ha potuto mantenere le sue truppe nel paese fino al 2005, fu perché aveva l'approvazione delle potenze vicine e dei dirigenti occidentali per congelare con la sua presenza militare le posizioni dei protagonisti, in modo da mantenere un minimo di esistenza dello Stato libanese.
Ad Assad padre, e poi ad Assad figlio, sarebbe piaciuto essere ricompensati, ad esempio, da qualche pressione occidentale su Israele per costringerlo a restituire il territorio siriano del Golan occupato dal 1967. Ma così non è stato e ovviamente questo ha contato nel fatto che i dirigenti siriani, di fronte a potenze occidentali che non gli concedevano niente, hanno preferito mantenere la loro alleanza con la Russia. Rimane il fatto che da decenni i dirigenti occidentali e in primo luogo americani sapevano cosa rappresentasse il regime degli Assad e si erano convinti che, a conti fatti, era un interlocutore utile per il mantenimento dello status quo tra i vari Stati del Medio oriente. A tal punto che si è potuto vedere Sarkozy invitare Bashar Al-Assad ad assistere alla sfilata del 14 luglio 2008 a Parigi, sperando evidentemente che questo gesto avrebbe favorito alcune commesse per l'industria militare francese.
Tutto questo è durato fino alla “primavera araba” dell'inizio del 2011 durante la quale i dirigenti degli Stati-Uniti hanno preferito smettere di proteggere vecchi dittatori quali Bin Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto per innescare in questi due paesi una finta “transizione democratica”. Ma quando in Siria sono cominciate manifestazioni di giovani contro la dittatura di Assad, scontrandosi con una violenta repressione, i dirigenti occidentali non avrebbero avuto la possibilità di procedere ad una simile operazione in Siria, anche ammesso che lo avessero voluto. Infatti non avevano con i vertici dell'esercito siriano gli stessi legami d'influenza che hanno con i capi dell'esercito egiziano o tunisino, che gli hanno consentito di convincere questi ultimi ad abbandonare i loro vecchi dittatori per meglio conservare il potere. E soprattutto non potevano augurarsi davvero la caduta di Assad finché non avessero avuto la garanzia che il regime che doveva sostituirlo sarebbe stato affidabile per i loro interessi.
Turchia e Stati del Golfo alla riscossa contro Assad
I dirigenti occidentali quindi hanno assistito senza reagire alla repressione delle manifestazioni dell'inizio del 2011 in Siria, così come tra l'altro da alcuni loro alleati quali il Bahrein oppure l'Arabia Saudita. Però non hanno impedito ai loro alleati vicini quali Turchia, Giordania, Qatar o Arabia, di fornire un aiuto ai gruppi dell' opposizione siriana che potessero destabilizzare il regime di Damasco ed eventualmente preparare una soluzione di ricambio. I soldi dell'Arabia Saudita e del Qatar hanno permesso di fornire le armi. In Turchia il governo Erdogan, lo stesso che fino poco prima proclamava che Assad era un fratello e che il suo paese voleva avere “zero problemi con i vicini", ha patrocinato la creazione di un “esercito siriano libero” con disertori dell'esercito siriano e ha autorizzato l'addestramento sul proprio territorio di gruppi armati destinati a varcare il confine turco-siriano, un confine particolarmente permeabile che si estende su più di 800 km.
Si sono anche costituite basi in Giordania, sotto la supervisione di militari di quel paese, ma anche sauditi e qatari e con la collaborazione dei servizi americani, francesi e britannici, per formare ed avviare i combattenti verso la Siria. All'“esercito siriano libero” si sono aggiunti una serie di gruppi disparati, a partire da volontari siriani ma anche venuti dalla Turchia, dalla Cecenia, dall'Iraq, dall'Afghanistan e dall'Europa e disponendo dei soldi e delle armi forniti dagli Stati del Golfo. Di conseguenza i gruppi armati integralisti islamici hanno avuto sempre più peso in seno alla ribellione armata ad Assad.
Questa opposizione armata ha rapidamente sostituito l'opposizione espressa dalle manifestazioni popolari contro il regime, ma con obiettivi di tutt'altro tipo. È stata aiutata peraltro dalla violenta repressione di queste manifestazioni da parte del regime, che ogni volta lasciava sul posto numerosi morti caduti sotto le pallottole della polizia. Poi il principale risultato della cosiddetta “liberazione” di alcune città o quartieri da parte dei gruppi armati della ribellione è stato di farne un bersaglio per i bombardamenti dell'esercito di Assad. La popolazione civile così “liberata” si è trovata schiacciata sotto le bombe, pur dovendo subire spesso la legge di gruppi armati che si comportavano come in terreno conquistato e volevano imporre la loro concezione della legge islamica, in particolare alle donne. In molti casi essa ha solo potuto trovare scampo fuggendo dalle sue città e quartieri distrutti dai bombardamenti e ormai sotto la legge di bande armate senza controllo.
Per gli Stati-Uniti e i loro alleati occidentali si trattava solo di servirsi dell'iniziativa turca, qatariana e saudita, per testare la resistenza del regime di Assad e fare in modo che se quest'ultimo fosse finalmente caduto, lo si potesse sostituire con un regime che fosse direttamente sotto loro controllo. Per questo, contemporaneamente si sono succeduti i tentativi per preparare una soluzione politica di ricambio ad Assad.
Dopo il “Consiglio nazionale siriano”, un primo tentativo capeggiato dalla Turchia, si è creata una “Coalizione nazionale siriana” cercando di offrire ai dirigenti occidentali un volto accettabile, che ha ricevuto immediatamente una legittimazione da parte del governo francese di Hollande. Ma i dirigenti occidentali fino a questo momento si sono rifiutati di impegnare direttamente le loro forze in operazioni militari contro le basi dell'esercito siriano, ed anche di fornire ai ribelli gli armamenti pesanti che chiedevano.
Infatti, se la coalizione di forze politiche costituitasi fuori dalla Siria ha fatto di tutto per conquistare la fiducia e il sostegno dei dirigenti occidentali, ormai è evidente che non controlla affatto le bande armate presenti sul terreno, largamente divise, dominate da “jihadisti” qualche volta legati ad Al Qaeda oppure costituitesi su basi etniche o addirittura sulla base del semplice brigantaggio. Il regime di Assad ha peraltro risposto alla Turchia con gli stessi metodi, lasciando praticamente il controllo del nord del suo territorio alle milizie curde del partito PYD, alleato del PKK che dal lato turco del confine si oppone all'esercito di Ankara. Non solo questo complica notevolmente la situazione per l'esercito turco, ma dal lato siriano ormai violenti scontri oppongono queste milizie ai gruppi islamisti che vorrebbero controllare l'insieme della ribellione ad Assad.
Chiaramente i dirigenti americani ormai respingono l'idea di mettere il loro peso militare nella bilancia per favorire questi gruppi che evidentemente l'opposizione politica in esilio non controlla. Tanto più che mentre nelle cosiddette zone liberate regna una situazione di caos, il regime di Damasco ha dimostrato una capacità di resistenza che i suoi avversari probabilmente non si aspettavano.
Esso è stato anche aiutato dal comportamento di gran parte dei gruppi armati della ribellione nei confronti della popolazione e in particolare delle minoranze, cristiane per esempio, che sono state rigettate dalla parte del regime. Molti infatti hanno potuto concludere che dei due mali quello minore era ancora quello rappresentato dal regime di Assad. Sembra adesso che quest'ultimo si sia rafforzato, mentre il suo esercito è riuscito a riprendere alla ribellione gran parte del terreno perso.
La “partita nulla”, soluzione migliore ?
D'altra parte è stata sicuramente questa evoluzione attuale del rapporto di forza militare a favore del regime di Assad a preoccupare i dirigenti occidentali, ben più di una cosiddetta preoccupazione umanitaria per le sue vittime. In un articolo pubblicato da “Le Monde”, un esperto del “Centro di studi strategici internazionali” di Washington, Edward Luttwak, ha spiegato chiaramente la scelta difficile cui i dirigenti degli Stati Uniti si trovano di fronte: se la vittoria andasse al regime di Assad, d'altra parte alleato della Russia, ma anche dell'Iran e di Hezbollah in Libano, ciò sarebbe un insuccesso politico per l'America e i suoi alleati della regione. Ma, ha aggiunto, “reciprocamente una vittoria dei ribelli sarebbe anche estremamente pericolosa per gli Stati Uniti e per molti dei loro alleati in Europa e nel Medio oriente”. Infatti bisognerebbe aspettarsi l'insediamento a Damasco di una dittatura islamista ostile a Washington.
L'unica altra soluzione, sempre secondo questo esperto, sarebbe “un'invasione americana generalizzata per sconfiggere sia Assad che gli estremisti che lottano contro il suo regime”, in altre parole “un'ennesima avventura militare nel Medio Oriente”. Quindi, conclude, gli Stati Uniti possono privilegiare un solo esito, e cioè una partita nulla prolungata”, ed egli propone un metodo: “armare i ribelli quando le forze di Assad hanno la meglio e, al contrario, interrompere questi approvvigionamenti appena i ribelli sembrano sul punto di vincere”. Questo esperto constata che tutto sommato la politica del mantenimento della guerra civile è infatti quella seguita dai dirigenti americani sin dall'inizio del caso siriano. Cinico fino in fondo, egli aggiunge che ovviamente per il popolo siriano è triste e tragico che questa sia la “soluzione migliore”, ma che, comunque, quest'ultimo non può sperare di meglio dalla situazione.
Non si sa se Barack Obama segue e seguirà fino in fondo i consigli di Edward Luttwak . Comunque questi ragionamenti sono ben più significativi rispetto alle vere occupazioni dei dirigenti dell'imperialismo delle loro indignazioni di facciata. La loro principale preoccupazione è il mantenimento in Siria di un rapporto di forza che gli consenta di continuare a condurre il loro gioco e a difendere i loro interessi e quelli delle loro compagnie nella regione. Il caso delle armi chimiche di Assad lo dimostra bene. Senza chiedergli in nessun modo di smettere di utilizzare il suo armamento classico, i dirigenti americani lo hanno minacciato abbastanza da riuscire ad ottenere dalla Russia e dal regime siriano una concessione nella loro direzione. Questo consente loro non solo di salvare la faccia, ma anche di imporsi come degli interlocutori mentre rischiavano di essere esclusi dal gioco diplomatico che si svolgerà adesso, con tutto il tempo necessario, per trovare ciò che tutti chiamano una “soluzione politica” alla crisi siriana.
Una discussione può nasconderne un'altra
Quindi la discussione sulle armi chimiche sta per continuare mentre il proseguimento della guerra permetterà di misurare il rapporto di forza sul terreno. Ma essa serve a nascondere un'altra discussione, più seria, sulla soluzione politica. Quest'ultima in realtà è in atto da più di un anno tra russi e americani. Consisterebbe nella partecipazione di un certo numero di rappresentanti dell'opposizione ad un regime Assad eventualmente un po' cambiato, con la promessa di procedere ad elezioni entro un certo periodo. Questo escluderebbe i rappresentanti dei gruppi islamisti ed altri jihadisti incontrollabili venuti a fare la guerra in Siria. Infatti, non solo Assad e la Russia li rifiutano, ma oggi anche gli Stati Uniti non hanno grande voglia di sostenerli, se non per ragioni tattiche. Questo significa constatare che l'armamento di volontari sotto il patrocinio di Turchia, Arabia Saudita ed Emirati si è concluso con un disastro, con il proliferare di gruppi islamisti armati che nessuno non controlla più.
Anche se tutto questo si è svolto anche sotto la sorveglianza discreta dei servizi francesi, britannici e americani, gli Stati Uniti sembrano pronti ad abbandonare nel mezzo del guado i dirigenti turchi ed arabi che si sono esposti in questa operazione. Dopo tutto, adesso toccherà a loro vedersela con i gruppi islamisti che hanno sostenuto senza essere capaci di controllarli e che alla fine saranno serviti solo a testare la resistenza del regime di Assad. Ovviamente tutto questo apparirà come un fiasco per questi alleati troppo impegnati, ma i dirigenti americani preferirebbero che non avvenga troppo apertamente la stessa cosa per la diplomazia americana. Ed è questo che Putin sembra pronto a garantire per Obama.
Ma si può anche immaginare che l'affare non si fermerà a questo punto. Come sempre quando le grandi potenze si accordano per porre fine ad un conflitto, uno dei terreni delle discussioni è la questione della ricostruzione e dei mercati che vi sono collegati. Putin avrebbe già fatto capire ad Obama che, dopo un conflitto come quello siriano, a pagare deve essere chi ha distrutto. Si può tradurre che Qatar e Arabia Saudita, dopo di avere inghiottito miliardi nel sostegno ai gruppi islamisti senza riuscire a rovesciare Assad, verrebbero pregati di attingere di nuovo alle loro casseforti per contribuire alla ricostruzione della Siria. Un terreno di discussione si aprirebbe allora tra i due artefici dell'accordo, Stati Uniti e Russia, per l'attribuzione di mercati che si annunciano sostanziali. Al contrario, è probabile che altre potenze come la Francia, nonostante la sua fretta a di schierarsi a fianco dell'alleato americano per servirlo e per ricordare che la Siria ha fatto parte del suo impero coloniale, saranno i parenti poveri dell'attribuzione dei mercati. Ma i rapporti di forza tra le potenze imperialiste sono quello che sono.
Ecco come le due superpotenze provano ad accordarsi come ladri in fiera per provare a trovare una via d'uscita al caso siriano che salvaguardi i loro rispettivi interessi. Questo può necessitare ancora un po' di tempo e nel frattempo, come ha detto l'esperto americano citato sopra, si può assistere ad una “partita nulla prolungata”, in altre parole al prolungarsi di questa guerra civile sanguinosa. Non si sa neanche se Stati Uniti e Russia riusciranno ad arrivare a questa soluzione, perché non tutto dipende da loro. Niente dice, in particolare, che i gruppi islamisti organizzati con la complicità degli Stati Uniti si lasceranno ricondurre alla ragione facilmente quando questi ultimi lo vorranno. Se saranno costretti a lasciare la Siria, li si ritroverà senz'altro su altri terreni d'operazione. L'effetto destabilizzante della guerra civile siriana sull'insieme della situazione nel Medio Oriente può andare ben più lontano di ciò che si possono augurare le grandi potenze. Ma anche se arriveranno a questa soluzione, rimarrà il bilancio disastroso della guerra civile.
Le aspirazioni popolari condotte in un vicolo cieco
I manifestanti siriani dell'inizio del 2011, che come la popolazione di altri paesi arabi chiedevano un po' più di libertà e giustizia e meno repressione, adesso sono del tutto dimenticati. Il regime di Assad ha risposto loro al suo solito modo: con una repressione brutale. Ma tutti coloro che da due anni hanno affermato di venire in aiuto al popolo siriano, che si tratti delle potenze vicine o delle potenze imperialiste, se ne sono fregati allo stesso modo, dando il loro contributo ad una guerra civile senza soluzione, sostituendo l'intervento delle loro bande armate alla lotta del popolo siriano e vedendo nella situazione niente altro che un'opportunità di difendere i loro propri interessi contro un regime rivale.
Il bilancio, purtroppo ancora provvisorio, è un paese distrutto con più di 100.000 morti e milioni di profughi, danni incalcolabili e come unica prospettiva la continuazione della dittatura in un modo o nell'altro. Dopo ciò che è successo in Egitto, Tunisia e Libia, la guerra civile siriana illustra in modo ancora più tragico il vicolo cieco nel quale sono state condotte le aspirazioni democratiche e sociali che si erano espresse in ciò che è stato chiamato la “primavera araba”. In un mondo arabo diviso in un sistema di Stati rivali, armati gli uni contro gli altri sotto la supervisione delle potenze imperialiste, solo a livello di regione si potrà vedere affermare una prospettiva rivoluzionaria proletaria.
16 settembre 2013