Da “Lutte de classe” n°204 – Dicembre 2019 - Gennaio 2020
Testo votato dal congresso di Lutte ouvrière (Dicembre 2019)
Quanto più lunga e profonda diventa la crisi del capitalismo, tanto più i suoi aspetti economici e politici si intrecciano, non solo nelle loro relazioni fondamentali, ma anche nei loro scossoni quotidiani.
La guerra economica tra le grandi potenze è all’origine delle relazioni internazionali, degli scontri diplomatici e del loro prolungamento tramite altri mezzi come gli interventi militari. Allo stesso tempo, le tensioni nelle relazioni internazionali e, peggio ancora, le pressioni dei mercati finanziari, diventano a loro volta elementi importanti della crisi economica. Un minimo incidente nello Stretto di Hormuz o un tweet di Trump che minaccia la Cina con una nuova misura protezionistica può far salire o scendere i prezzi delle azioni e influenzare i flussi di capitali e gli investimenti internazionali.
Il mondo capitalista è lanciato in una corsa caotica verso l'abisso, che la grande borghesia e i suoi portavoce economici o rappresentanti politici non sono assolutamente in grado di controllare. Le previsioni che risultano dalle dichiarazioni delle organizzazioni economiche specializzate sono segnate da un profondo pessimismo sul futuro.
L'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), una di queste organizzazioni, prevede che l'economia mondiale tornerà alla sua peggiore performance dal 2008 (anno della crisi finanziaria). La sua principale economista parla di "rallentamento strutturale" che sarebbe il risultato della moltiplicazione delle misure protezionistiche, del confronto commerciale tra Cina e Stati Uniti, della Brexit, della rinnovata tensione tra Giappone e Corea del Sud, delle tensioni sul mercato del petrolio e dell'aumento dei debiti a rischio delle imprese. E sottolinea che tutto questo porta a "tensioni protezionistiche che diventano elementi durevoli" e rallentano il commercio portandolo ad un livello "eccezionalmente basso".
Come causa e anche conseguenza di questo "rallentamento strutturale", gli investimenti sono sempre al minimo. L'OCSE vi vede un "enigma": le aziende capitaliste sono più indebitate che mai, eppure non investono più. Ma il motivo evidente è che le imprese approfittano del credito quasi gratuito offerto dalle banche centrali per contrarre dei prestiti, da cui deriva il loro indebitamento. Ma il denaro preso in prestito, anche a tassi molto bassi, non le incoraggia a investire nella produzione. L'industria manifatturiera è in declino. Il debito record delle società viene utilizzato solo per varare le proprie operazioni finanziarie, tra cui, in particolare, massicci riacquisti di azioni per soddisfare l'avidità dei loro azionisti, anche se questo significa ipotecare i loro profitti futuri.
Così la politica monetaria delle banche centrali dei paesi imperialisti, condotta in nome del "rilancio della crescita" o del "sostegno all'economia", fornisce una stampella di più al parassitismo delle loro borghesie. Arricchisce i più ricchi, alimenta la speculazione, gonfia la sfera finanziaria e contribuisce alla sua instabilità.
Nella dichiarazione della principale economista dell'OCSE il panico si aggiunge all'impotenza: "le prospettive di crescita sono crollate con gli investimenti e il commercio". E spiega: "quando le aziende non sanno cosa ci porterà il domani, esercitano la loro "opzione standby": poiché un investimento è un impegno a lungo termine, aspettano che la guerra commerciale latente si stabilizzi prima di sapere dove investire. Ma quando l'incertezza temporanea si ripete e si radica, ne risulta che una massa di investimenti non viene effettuata e ciò incide non solo sulla domanda presente, ma anche sulle capacità di crescita e sull'occupazione di domani".
Le misure di restrizione degli scambi commerciali tra gli Stati Uniti e la Cina sono l'esempio più spettacolare dell'aumento del protezionismo. Ma non sono l'unico, poiché le forme del protezionismo, come le sue cause, sono molto diverse.
Si tratta di una vera e propria partita di ping-pong tra Stati Uniti e Cina: l'aumento dei dazi doganali decretato dagli Stati Uniti nei confronti dei prodotti provenienti dalla Cina ha portato a misure reciproche da parte cinese, che hanno suscitato una nuova risposta da parte degli Stati Uniti...
Le misure successive annunciate da entrambe le parti sono tanto un bluff quanto una realtà. La postura bellicosa fa parte delle contrattazioni. L'economia americana e quella cinese sono molto interdipendenti, in quanto molte società americane operano attraverso i subappalti ad aziende in Cina, dove la penetrazione del capitale americano è considerevole.
Le grandi aziende americane, che hanno subappaltatori cinesi che producono per loro, non vogliono mettersi in difficoltà. Il peso di una multinazionale come Apple sul governo americano è tale che essa non ha avuto alcuna difficoltà ad ottenere che si faccia un'eccezione per i dieci componenti prodotti sotto contratto in Cina, che entrano nel suo computer di alta qualità Mac Pro.
La guerra commerciale tra gli Stati Uniti e l'Unione europea è segnata da un'analoga contraddizione tra le pressioni protezionistiche e l'intreccio delle rispettive economie. L'americana Boeing e l'europea Airbus si combattono da quattordici anni con il sostegno dei rispettivi Stati. L'Organizzazione mondiale del commercio (OMC) ha appena autorizzato Washington a far pagare una tassa sugli aerei Airbus. Ma come fare, poiché la tassa sugli Airbus colpirebbe le principali compagnie aeree americane quali la American Airlines o la Delta? Come fare, quando alcuni Stati americani ospitano attività della Airbus, a cui si aggiungono quelle dei suoi numerosi subappaltatori?
E reciprocamente come farebbe l'Unione europea a tassare la Boeing mentre parte dell'aeronautica europea lavora in subappalto per conto di questo costruttore americano e le principali compagnie aeree europee acquistano aerei della Boeing? Per ora, i settori che potrebbero essere vittime collaterali di questa battaglia di mastodonti sono innanzitutto il vino e i formaggi francesi, l'olio d'oliva spagnolo e il parmigiano italiano.
Ma il protezionismo non si limita alle sue forme più elementari, come i dazi doganali e i contingenti di importazione. Può assumere forme infinitamente più sottili, come dimostra l'esempio dell'Unione europea. Il mercato unico e a maggior ragione l'unione monetaria nell'eurozona miravano a promuovere gli scambi commerciali tra i vari paesi europei che ne fanno parte. Tuttavia, le esportazioni da ciascuno Stato membro dell'UE verso gli altri Stati membri sono stagnanti o tendono addirittura a diminuire. "Un fenomeno sorprendente", dice l'economista Patrick Artus, "che deriva dal fatto che non esiste un vero e proprio mercato unico, poiché ogni paese dell'Unione ha voluto mantenere le proprie aziende nazionali in molti settori". Per non parlare delle legislazioni sociali e dei sistemi fiscali diversi, che sono spesso utilizzati dagli Stati per aumentare la competitività dei propri capitalisti.
La concorrenza tra imprese capitaliste, come la concorrenza tra Stati capitalisti, è una guerra di tutti contro tutti, dove l'alleato non cessa di essere un rivale, e quindi un avversario.
Un altro aspetto della concorrenza tra le potenze imperialiste in cui i motivi politici sono strettamente legati a motivi economici è il boicottaggio dell'Iran da parte degli Stati Uniti e il fatto che gli Stati Uniti lo impongono ai loro alleati europei, che sono anche dei concorrenti. Mentre boicottano l'Iran, gli Stati Uniti impediscono ai loro potenziali concorrenti di trarne vantaggio prendendo il posto lasciato libero dalle aziende americane. Così anche le aziende capitaliste più potenti d'Europa sono costrette ad obbedire ai diktat americani, pena la perdita di ordinazioni, la perdita dell'accesso al mercato statunitense e soprattutto dell'accesso alle risorse finanziarie nelle mani di investitori e banchieri americani. Per l'Iran ne risulta che il volume di petrolio che riesce ad esportare sul mercato mondiale è stato diviso per dieci.
La popolazione iraniana è e rimarrà la principale vittima sia dei diktat di Trump che della concorrenza tra gli Stati Uniti e l'Unione europea.
Un altro aspetto del rallentamento del commercio mondiale è il cambiamento delle condizioni stesse della concorrenza. Per un quarto di secolo, tra gli anni '80 e la crisi finanziaria del 2008, il commercio mondiale è cresciuto molto più rapidamente del prodotto interno lordo mondiale. Uno dei motivi è la tendenza delle multinazionali a segmentare la loro produzione. Le diverse fasi di produzione dello stesso prodotto (auto, lavatrice, televisione, smartphone, computer.....) sono state distribuite tra diversi paesi per sfruttare le situazioni locali più favorevoli in termini di costo del lavoro, di costi immobiliari, vicinanza delle materie prime, legislazione sociale, tassazione, incentivi finanziari da parte degli Stati, ecc.
I progressi nelle comunicazioni, come la riduzione dei costi di trasporto, hanno reso più redditizia quella che gli economisti chiamano "segmentazione della catena del valore". Una parte considerevole degli scambi tra i paesi ha riguardato la circolazione di prodotti semilavorati all'interno delle grandi imprese stesse o tra queste grandi imprese e i loro subappaltatori.
Era l'epoca dello sviluppo della Cina come officina di subappalto per il mondo intero e dell'aumento dell'integrazione dei paesi dell'Est europeo, le ex Democrazie popolari, nel processo produttivo di grandi aziende tedesche, francesi, italiane o giapponesi, in particolare nel settore automobilistico.
Oltre alla potente logica della divisione internazionale del lavoro, c'era la volontà di massimizzare il profitto cogliendo le opportunità offerte da quel periodo. Tuttavia, queste opportunità, per loro natura, stanno cambiando. Il basso costo del lavoro in Cina, ad esempio, così redditizio in un certo periodo, alla fine è aumentato, se non altro rispetto ad altri paesi con competenze tecniche simili. Una frazione del capitale investito in Cina è emigrata in Vietnam.
La significativa differenza salariale a parità di competenze, che è ancora reale tra la parte occidentale, imperialista dell'Europa e i paesi dell'Europa orientale, ha spinto Peugeot, Fiat, Volkswagen, BMW o Toyota e Nissan a trasferirsi in questi paesi, ben oltre la capacità di assorbimento dei loro mercati. Ma il divario tende a ridursi. Soprattutto, nonostante la riduzione dei costi di trasporto, favorevole al profitto capitalista, il guadagno aggiuntivo così ottenuto può essere gravato da una destabilizzazione del regime politico al potere o dalle minacce politiche o militari sulle vie di comunicazione.
Il rallentamento del tasso di crescita del commercio mondiale, in pratica fin dalla crisi finanziaria del 2008, è dovuto in parte al fatto che gli investimenti produttivi nei cosiddetti paesi emergenti - vale a dire con una manodopera qualificata a costi molto bassi - stanno diventando meno redditizi. Alcuni economisti borghesi si chiedono seriamente se l'evoluzione non si stesse muovendo verso una "deglobalizzazione", con una tendenza delle grandi aziende ad essere più vicine al consumatore finale.
Se la globalizzazione è irreversibile, nel senso di una sempre maggiore integrazione delle economie nazionali in un'unica economia globale, essa porta ovviamente il segno distintivo della ricerca del profitto a brevissimo termine, caratteristica del capitalismo sempre più finanziarizzato. In una situazione mondiale instabile, le condizioni di concorrenza sono in continua evoluzione, il che porta ad una costante messa in discussione dei rapporti di forza tra le aziende capitaliste concorrenti.
Per i paesi non imperialisti, soprattutto i paesi più poveri, un crollo finanziario sarà un disastro. Dal 2009 il livello del debito estero dei 76 paesi più poveri è raddoppiato! L'Argentina, anche se non fa parte dei paesi meno sviluppati, illustra il prezzo che le istituzioni finanziarie dell'alta borghesia faranno pagare alle masse popolari per riscuotere i debiti.
La stagnazione degli investimenti, delle assunzioni e della produzione contrasta con il volume sempre crescente delle transazioni finanziarie. L'importanza della finanza è in costante aumento. La sua "materia prima", se così la vogliamo chiamare, è il credito, e la sua controparte è il debito. Il crollo finanziario del 2008 è stato un avvertimento. Ma l'indebitamento è ripreso ad aumentare con maggiore forza di prima, non appena il pericolo di fallimento del sistema bancario è stato temporaneamente superato. Le somme colossali pagate per salvare il sistema bancario da un fallimento generalizzato hanno fatto toccare nuove vette al debito pubblico. Da allora, le banche centrali di Europa e America hanno aperto gli sportelli alle richieste di liquidità delle principali banche. Gli Stati contraggono prestiti a più non posso. Il debito pubblico dei paesi OCSE, cioè dei paesi più industrializzati, è passato dal 70% al 110% del PIL mondiale (dati di Patrick Artus, principale economista di Natixis (1), nel suo libro Disciplinare la finanza). Gli interessi incassati dalla finanza su questi debiti parassitano l'intera economia, causando un declino relativo, e talvolta assoluto, delle spese pubbliche un po' utili alla popolazione, dagli ospedali alle case di riposo, alle infrastrutture e ai trasporti pubblici.
Le varie componenti della finanza - consistenze di crediti, obbligazioni, capitalizzazione borsistica e massa monetaria - hanno continuato a crescere in volume. Il loro intreccio, la loro trasformazione in una moltitudine di titoli più o meno complessi, la loro commercializzazione hanno portato alla nascita di gigantesche istituzioni finanziarie, come la BlackRock, che in pochi anni hanno assunto una posizione dominante nell'economia globale. Queste istituzioni finanziarie detengono partecipazioni in quasi tutte le principali società multinazionali, comprese quelle che si suppone siano in concorrenza diretta.
Mentre i sostenitori del capitalismo esaltano la bellezza della libera concorrenza, il capitale privato è sempre più assorbito dal gigantesco polpo della finanza.
La venerabile agenzia turistica Thomas Cook è fallita, certamente vittima della concorrenza, dei suoi creditori, dei suoi banchieri, ma anche, a quanto pare, del gioco speculativo dei fondi specializzati che facevano parte dei suoi creditori! Scommettendo sul suo fallimento hanno contribuito a provocarlo e così raccolto 250 milioni di dollari. Il fallimento ha spinto i 22.000 dipendenti della Thomas Cook nel mondo nella disoccupazione. Vi si aggiungono i dipendenti di una moltitudine di fornitori di servizi e subappaltatori di questo operatore turistico. Per non parlare delle centinaia di migliaia di turisti lasciati per strada.
Il posto preso dalla finanza nel funzionamento dell'economia capitalista non comporta solo la minaccia di una catastrofe finanziaria. Cambia anche il modo di gestire le aziende capitaliste, comprese quelle più potenti, in funzione del profitto più immediato e della ricerca dei dividendi più elevati per gli azionisti.
Con il titolo "La Total cura i suoi azionisti aumentando i dividendi", il giornale Les Échos (2) spiegava: "Le compagnie petrolifere offrono ai loro azionisti un elevato rendimento per compensare le meno interessanti prospettive di crescita".
La Total si comporta come tutti i principali detentori di capitale nell'economia complessiva. Proprio perché il futuro della loro economia sembra loro scuro, dedicano i loro profitti a “curare” gli azionisti a spesa degli investimenti, cioè del futuro della loro azienda. Il capitalismo decadente divora se stesso.
Al di là dei campanelli d'allarme suonati da un numero crescente di economisti di fronte al pericolo di un imminente crollo finanziario, il comportamento stesso dei mercati finanziari, cioè l'insieme di banche, grandi compagnie di assicurazione, società finanziarie o di gestione di portafogli, tutte coinvolte nella speculazione finanziaria a vantaggio della borghesia che ha soldi da investire, dimostra che i mercati sono consapevoli, più di chiunque altro, della minaccia rappresentata dalla situazione economica.
Il boom dei prezzi dell'oro ne è uno degli indicatori. Il metallo giallo ritrova il ruolo di rifugio sicuro che è stato suo per secoli. Il continuo aumento dei prezzi dei titoli rappresentativi del debito dei paesi ricchi e delle grandi imprese, che si riflette in quella che la stampa finanziaria descrive come una moltiplicazione dei tassi d'interesse negativi, ne è un'altra indicazione. Gli speculatori non vogliono mettere tutte le loro uova nello stesso paniere.
"Nel paese dei ciechi, un guercio è re", motivo per cui c'è una corsa ricorrente verso titoli in dollari o altri titoli che appaiono più sicuri. In caso di crollo finanziario, tutti i titoli rischiano di essere spazzati via, in quanto il loro unico valore risiede nella fiducia riposta nel debitore che dovrebbe rimborsare. Tuttavia, l'allarme finanziario del 2008 ha dimostrato che non solo gli Stati Uniti non sono protetti da questo incidente, ma possono anche esserne il punto di partenza, come nel 1929.
"Dopo di noi, il diluvio", è diventato il tratto distintivo del comportamento di tutta la classe capitalista. Lo constata eufemisticamente l'OCSE: "I governi possono contrastare l'impennata dei costi dell'incertezza e investire di più".
Non credendo di poter convincere le aziende private, i pensatori della borghesia cominciano a chiedere l'intervento dello Stato. E argomentano: "Mancano 6000 miliardi di dollari per gli investimenti infrastrutturali (trasporti, istruzione, sanità, telecomunicazioni, elettricità....)". I governi dovrebbero quindi spendere più soldi per investire poiché con i bassi tassi d'interesse l'indebitamento sarebbe più sopportabile.
Infatti la necessità di investimenti infrastrutturali è grande, anche nei paesi imperialisti più sviluppati: crolli di ponti e strade, degrado delle ferrovie, chiusura di uffici postali, per non parlare dello stato deplorevole del sistema sanitario anche in un paese come la Francia, che si vanta di essere all'avanguardia in questo settore. Per gli Stati ci sarebbe molto da fare! Ma lo faranno? Ne troveranno i mezzi, quando sono preoccupati innanzitutto di aiutare i finanzieri?
Coloro che beneficiano delle operazioni finanziarie e coloro che approfitterebbero di una ripresa degli investimenti statali sono in realtà gli stessi: le aziende capitaliste, i loro proprietari e azionisti e i loro dirigenti. Ma questo non risolve la contraddizione tra dedicare le spese statali agli investimenti pubblici oppure ad alimentare la sfera finanziaria.
I dirigenti degli Stati imperialisti d'Europa, ad esempio, cominciano ad affermare la necessità di ingenti spese pubbliche. Ma ognuno spiega che spetterebbe innanzitutto allo Stato vicino investire, la Germania in particolare. Infatti il governo tedesco ha appena annunciato la sua intenzione di spendere 100 miliardi di euro entro il 2030 per misure ambientali. Questa è solo una promessa nel contesto di una competizione elettorale, ma è interessante per le aziende capitaliste nei settori della riconversione ambientale, dalle auto elettriche alle turbine eoliche e all'isolamento termico degli edifici.
L'inno all'impresa privata, all'iniziativa privata, domina la cacofonia degli economisti e dei politici borghesi. Ciò non impedisce ai pensatori della borghesia di rivolgersi allo Stato per compensare le mancanze dei committenti. A differenza di chi se la prende con le politiche "ultraliberali" ma non con il capitalismo, la grande borghesia non ha mai fatto un dogma del "tutto privato". A lei conviene che gli utili siano privati, ma anche che siano "socializzate" le spese, compresi gli investimenti costosi ma essenziali che possono essere messi a carica dello Stato.
Il prossimo futuro ci dirà quali forme concrete assumeranno le risposte dei governi. È possibile che la corsa alla privatizzazione di ciò che resta delle imprese pubbliche, compresi i servizi pubblici, in corso da diversi anni, prosegua in alcuni settori, naturalmente i più redditizi, ma che vi si aggiunga la salvaguardia del carattere nazionalizzato di altri settori, o addirittura la loro rinazionalizzazione.
Il piano Hercule, recentemente annunciato dalla direzione di EDF (Elettricità di Francia (3) ), è un esempio di questa tendenza. Essa mira a dividere questo gruppo, che è ancora più o meno integrato, in due società: una comprendente l'energia nucleare, la trasmissione d'energia elettrica e probabilmente le dighe idroelettriche; l'altra le reti di commercializzazione e distribuzione. La prima sarebbe interamente proprietà dello Stato. Sarebbe una forma di rinazionalizzazione in quanto lo Stato detiene attualmente solo l'83,7% di EDF. Il capitale della seconda società sarebbe aperto al capitale privato (compresi Total, ENI, GDF-Suez).
Le riorganizzazioni, la ristrutturazione dei vari servizi oggi più o meno pubblici, comportano smantellamenti che separano i settori redditizi da quelli che non lo sono e che dovranno essere nazionalizzati o rinazionalizzati. Il vantaggio per la borghesia sta nel separare il grano, suscettibile di portare profitto, dal loglio, che ha bisogno del sostegno e del finanziamento dello Stato. Un altro vantaggio è l'introduzione della finanza nelle relazioni tra due - o più - entità economiche, laddove c'erano solo due dipartimenti della stessa unica entità. I rapporti che prima erano solo rapporti tra due servizi della stessa società diventano rapporti commerciali, con una possibilità di indebitamento per l'uno, per l'altro o per entrambi. Per quanto sia dannoso per l'azienda, per i suoi dipendenti e i consumatori, questo fornisce un'ulteriore materia prima alla finanza.
Da molti anni ormai, la stessa parola "crescita", usata dalla borghesia e dai suoi portavoce politici o mediatici, indica essenzialmente la crescita finanziaria. Al di là delle sue molteplici metamorfosi, l'economia capitalista nell'era imperialista deve ancora affrontare la contraddizione fondamentale del capitalismo nella sua fase iniziale, tra la capacità produttiva delle imprese e i limiti del mercato solvibile. Questa contraddizione è ulteriormente aggravata dalla crisi e dal suo corollario, la crescente finanziarizzazione del capitalismo.
L'economia capitalista porta nel proprio DNA il susseguirsi di periodi di espansione economica e di crisi. Ma, per parafrasare Trotsky, con il declino del capitalismo, i periodi di crisi e di disoccupazione di massa si allungano mentre i periodi di ripresa sono fragili e si concentrano principalmente sulle operazioni finanziarie.
La finanziarizzazione dell'economia e le sue conseguenze, compreso la gestione delle imprese in base alla redditività a breve termine, minano le fondamenta stesse dell'economia capitalista.
Le transazioni finanziarie non generano profitti. Consentono solo di distribuirli nel modo più favorevole per i più potenti. Il profitto è generato dallo sfruttamento di milioni di dipendenti che lavorano nelle fabbriche, estraggono le ricchezze minerarie, assicurano il trasporto e la distribuzione e gestiscono i servizi. Dipende dallo sfruttamento di tutti coloro le cui attività mantengono in funzione l'economia. Qualunque sia il modo in cui la classe capitalista distribuisce il volume del profitto tra i suoi membri, l'unico modo per mantenere e a maggior ragione per aumentare il suo volume complessivo è quello di aggravare lo sfruttamento, e alimentare il profitto attingendo sempre più dalla classe operaia, ma anche dalle altre classi lavoratrici. I prelievi crescenti del grande capitale, direttamente o tramite gli Stati, sono iscritti nella logica stessa della sopravvivenza del capitalismo decadente del nostro tempo. Proseguiranno, a prescindere dall'etichetta politica dei governi.
L'unica forza in grado di frenare questa tendenza è la forza collettiva della classe operaia. Anche le sue lotte più potenti, tuttavia, non possono che rallentare questa tendenza. Il problema dell'intera società umana non è quello di preservare gli interessi delle classi sfruttate nell'ambito del capitalismo, ma di rovesciarlo. L'ostentazione dell'onnipotenza del grande capitale, i danni che provoca e le minacce che nasconde finiscono per suscitare preoccupazioni e ostilità. In Francia i grandi partiti di sinistra, PS e PCF, hanno sperperato e usurpato l'eredità del movimento politico operaio. Hanno perso il credito che era rimasto dal loro lontano passato e non sono in grado di canalizzare a livello elettorale quello che è ancora solo un senso di disgusto e di disorientamento, e ancor meno di aprire una prospettiva politica.
Di fronte all'estrema destra, il cui obiettivo è usare questi sentimenti per rivolgerli contro coloro stessi che li provano, e preservare il dominio del grande capitale, il movimento no global, ultima disavventura della sinistra riformista istituzionale, denuncia molti aspetti dell'evoluzione del capitalismo odierno. Per quanto giusti possano essere alcuni aspetti delle loro critiche, la prospettiva tracciata dai no global è, dietro varie formule, l'utopia di un capitalismo meno disuguale, regolato, moralizzato, con una finanza controllata e disciplinata.
Questa tendenza si riflette a livello internazionale nella persona e negli scritti di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'economia, già consigliere di Clinton e poi principale economista della Banca Mondiale. Chiede - per usare un'espressione della sua recente intervista a Le Monde – "una revisione del capitalismo che favorisca la regolamentazione e il ruolo dello Stato". In Francia, l'economista emerso in questi anni per incarnare questa tendenza è Thomas Piketty. Fu a lungo vicino al PS e ai suoi dirigenti, consulente di Hollande prima di sostenere il candidato socialista Hamon.
Due voluminosi lavori Il capitale nel 21° secolo e Capitale e ideologia lo pongono come il teorico di una sinistra che cerca se stessa. Ma le sue proposte sono solo banalità del tipo: "affidarsi ad esperienze di cogestione germanica o nordica per spingerle oltre" (intervista pubblicata su L'Humanité (4) del 20 settembre 2019 col titolo Riflessioni per un nuovo socialismo). In materia di novità però, c'è certamente meglio della cogestione germanica o nordica, anche se spinta oltre.
Piketty se la prende con la proprietà incontrollata e incontrollabile delle multinazionali, ma lo fa in nome di una piccola proprietà più distribuita. La sua analisi del capitale nel 21° secolo porta alla proposta di una "proprietà temporanea", cioè "un sistema di circolazione permanente della proprietà con una dotazione annuale di capitale che permetterebbe a tutti di possedere 120.000 euro di capitale a 25 anni", precisa. Ciò sarebbe finanziato da un'imposta progressiva sugli immobili.
Ricordare a Piketty che ai suoi tempi Proudhon vedeva l'organizzazione sociale del futuro come basata sulla piccola proprietà, sarebbe un insulto a quest'ultimo! Riprendere un ragionamento simile quasi duecento anni dopo, mentre si sono sviluppati l'industrializzazione, la concentrazione del capitale, l'imperialismo, è davvero surreale.
Per il resto, Piketty, presentato con simpatia da L'Humanité come "specialista dello studio delle disuguaglianze", è ostile a Marx, al marxismo e all'idea stessa di lotta di classe. Coloro che contribuiscono maggiormente a creargli una fama di economista progressista sono ancora più di lui ostili al marxismo e alle idee di lotta di classe, e lo criticano per "la radicalità delle sue proposte" (quotidiano L'Opinion), accusando il consensuale Piketty di volere "una forma di espropriazione fiscale degli imprenditori".
L'approccio intellettuale di Piketty è in linea con la conclusione politica a cui conduce. "Cosa si sa veramente dell'evoluzione del reddito e della distribuzione della ricchezza a partire dal 19° secolo e quali lezioni si possono trarre per il 21° secolo?" si chiede nell'introduzione del Capitale nel 21° secolo, per affermare la sua intenzione di "rimettere la questione della distribuzione al centro dell'analisi economica"... come se si potesse capire la distribuzione senza analizzare il modo di produzione e le relazioni sociali che esso determina. E afferma saccentemente che "esistono però i mezzi affinché la democrazia e l'interesse generale riescano a riprendere il controllo del capitalismo e degli interessi privati, respingendo al tempo stesso il ripiegamento protezionista e nazionalista". Mille pagine di sproloquio, con dati di cui alcuni sono certamente interessanti, per arrivare a questa affermazione, mentre anche i difensori più accaniti del capitalismo lanciano l'allarme!
Coerentemente con il suo rifiuto della lotta di classe, non c'è in queste mille pagine dedicate al "capitale nel 21° secolo", neanche una parola sul potere della grande borghesia sulla società, nascosta dietro il feticismo del denaro e del capitale. La questione del potere non lo interessa affatto, la sua visione del mondo è limitata all'evoluzione del pensiero collettivo e della morale. È la più insipida visione riformista dei rapporti di classe, professata in un'epoca in cui il grande capitale sta conducendo una guerra a morte non solo contro la classe operaia ma contro tutte le classi lavoratrici. Non c'è lì niente che possa far paura al più blando dei dirigenti del Partito socialista.
Nonostante sia stato pubblicato nel 1867, il Capitale di Marx chiarisce i meccanismi e il funzionamento del capitale nel 21° secolo infinitamente meglio dei testi di Piketty, anche se sono illustrati da numerosi grafici e tabelle.
Gli ambienti intorno al PCF, insieme ai loro tributi ad economisti come Piketty, stanno facendo sforzi per "riabilitare" Marx. Lo fanno a modo loro, un modo ereditato da un'epoca in cui la teoria rivoluzionaria del proletariato era stata trasformata in dogma per giustificare il regime della burocrazia stalinista in Unione Sovietica e fungeva da surrogato ideologico per i suoi seguaci del PC francese. L'Humanité pubblica testimonianze e dibattiti in cui si riscopre il marxismo, o meglio il marxismo come spiegazione del funzionamento dell'economia capitalista, ma non il marxismo rivoluzionario.
"I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo", scriveva Marx nelle sue Tesi su Feuerbach. Ridurre il marxismo all'interpretazione del mondo è svuotarlo dell'essenziale del suo contenuto.
Anche gli aspetti più brutti dell'evoluzione del capitalismo moderno, come il dominio assoluto delle multinazionali della finanza, sottolineano la profonda tendenza dell'economia alla sottomissione del piccolo capitale a quello grande, alla globalizzazione, alla pianificazione, evoluzione che da tempo ha reso necessaria e possibile una società senza proprietà privata dei mezzi di produzione, senza mercato, senza concorrenza e senza sfruttamento.
Come ha scritto Trotsky nel Programma di transizione, "Le premesse oggettive della rivoluzione proletaria non solo sono mature, ma hanno anche cominciato a marcire". L'espressione di Trotsky riassume l'evoluzione del capitalismo nell'era della decadenza imperialista e le sue conseguenze attuali in una moltitudine di aspetti della vita politica, della cultura, delle relazioni sociali e persino dei comportamenti individuali.
Il futuro dell'umanità non dipende da una scoperta innovativa nel campo delle idee. Dipende dalla capacità della classe operaia a ritrovare la consapevolezza del suo compito e della sua responsabilità storica e, così facendo, di impadronirsi della teoria della sua emancipazione, il marxismo. Dipende dalla sua capacità a darsi partiti per incarnare questa consapevolezza e restituire al proletariato cosciente la volontà di lavorare per la rivoluzione sociale.
7 ottobre 2019
(1) Natixis è una banca per le imprese e i servizi finanziari, creata nel 2006, filiale del gruppo BPCE, a sua volta frutto della fusione dei gruppi Caisse d'Epargne e Banque Populaire.
(2) Les Échos è un quotidiano francese di informazione economica e finanziaria.
(3) Electricité de France è un’azienda francese fornitrice e produttrice di energia elettrica
(4) L'Humanité è un giornale francese, organo centrale del Partito comunista francese dal 1920 al 1994.