Da “Lutte de classe” n°198 - marzo-aprile 2019
Ad un anno dalle elezioni del marzo 2018, definite dai commentatori “un terremoto politico”, le elezioni europee del 26 maggio 2019 sono attese come una verifica politica, in particolare dal Movimento Cinque Stelle e dalla Lega, i due partiti della coalizione di governo “gialloverde”. Ma sembra già che tutta l'evoluzione politica si svolga a favore del partito di Salvini e che il risultato dell'accordo di governo con quest’ultimo sia stato un rapido indebolimento del Movimento 5 Stelle, almeno dal punto di vista elettorale.
Già le elezioni regionali del 24 febbraio in Sardegna hanno evidenziato un importante crollo dei voti per il Movimento 5 stelle. Se alle politiche del 2018 nell’isola il partito di Di Maio aveva superato il 40% dei voti, questa volta non è andato oltre l'11%. Tale risultato è apparso come una conferma di quello già registrato due settimane prima in Abruzzo, dove il M5S è arrivato terzo, dietro alla coalizione di centrodestra e perfino a quella di centrosinistra. Il partito che dalle elezioni di un anno fa era uscito come il primo partito d'Italia ora perde consensi a favore della destra, dell'estrema destra e probabilmente un po' del PD, come se uno dei risultati della sua politica sia quello di ridare vita a quei “morti che camminano” che Grillo denunciava all'inizio della sua carriera politica.
Un governo a due teste
Il successo del marzo 2018 non era bastato ad assicurare al M5S, pur essendo diventato il primo partito del paese sul piano elettorale, una maggioranza per governare da solo. Luigi Di Maio si era definito allora come un “pragmatico senza dogmatismi” per giustificare la disponibilità ad aprire le discussioni sia con il PD che con la Lega. Grillo stesso aveva assunto questa apertura dichiarando all’indomani delle elezioni: « Noi siamo in parte di destra, in parte di sinistra (…) capaci di adattarci ad ogni circostanza”, e infatti il M5S l’ha dimostrato.
Una volta il napoletano Di Maio diceva che era per lui inimmaginabile poter discutere con un partito che si era augurato la scomparsa di Napoli sotto un’eruzione del Vesuvio. Era l’epoca in cui la Lega si chiamava ancora Lega Nord, un partito la cui demagogia xenofoba era incentrata sull’attacco ai meridionali, accusati di vivere alle spese di un Nord laborioso e meritevole. Sotto la guida di Salvini le cose sono cambiate, nel senso che la Lega non è più “Nord”: per conquistare gli elettori del Sud, essa preferisce ormai dare la colpa dell’impoverimento delle classi popolari, dei problemi di sicurezza e di tutto quello che non va ai migranti anziché ai calabresi o ai siciliani. In fondo la demagogia non è cambiata, sono solo cambiati quelli che prende di mira.
Va detto che durante la campagna elettorale, il M5S non aveva in nessun modo combattuto questa demagogia anti migranti, sicuro che se l'avesse fatto avrebbe perso consensi. Per lui il razzismo e la xenofobia della Lega non erano un motivo sufficiente per rifiutare di interloquire con questo partito. E, al fine di eludere l'impegno a non fare compromessi con partiti di governo, bastava la promessa di escludere ogni accordo con politicanti coinvolti in casi giudiziari... almeno per qualche tempo.
Duello al vertice
Per Salvini e la Lega, il M5S si è rivelato, dopo le elezioni, “un partito col quale si poteva parlare” e infatti un partito abbastanza “pragmatico” da consentire di lasciare al dirigente della Lega il posto di Ministro degli Interni. Così è nato questo governo bicefalo, in teoria diretto da Conte, ma nella realtà dai due vice premier Salvini e Di Maio.
Sin dalle prime settimane di questo matrimonio forzato, i due vice, e tramite loro la Lega e il M5S, sono stati in concorrenza per occupare il primo posto sul palcoscenico. È chiaro che, sia per l’uno che per l’altro, si trattava di segnare punti a proprio favore nell’opinione pubblica in vista delle prossime elezioni. Ma Salvini si è rivelato in materia un maestro in quel giochetto che consiste nello sparare discorsi demagogici, volgari e, il più delle volte, ripugnanti. Sin dai suoi primi giorni da ministro degli interni, costui ha cominciato l’offensiva di propaganda contro i migranti, assimilandoli a delinquenti venuti qua per vivere a spese dell'Italia e degli italiani, ai quali annunciava che la “pacchia è finita”. Le ONG che cercavano di salvare i migranti in mare, accusate di essere “imprese mafiose”, “complici dei trafficanti e dei terroristi”, si sono viste negare l’ingresso nei porti italiani.
Salvini non esita a ripetere questi discorsi dal momento che gli consentono di occupare lo spazio mediatico e di soddisfare i suoi elettori tradizionali, piccoli borghesi del Nord, reazionari e preoccupati di trovare un capro espiatorio per le loro difficoltà. Se il cantante vincitore del festival di San Remo è italo-egiziano, Salvini usa i twitter per spiegare che lui ne preferisce un altro che gli sembra «più italiano». Se qualcuno è in carcere per omicidio dopo aver sparato ad un ladro che era già sotto controllo, Salvini lo va a trovare perché, spiega, “chi viene aggredito deve difendersi”. È inutile precisare che le aggressioni razziste moltiplicatesi da quando sta al governo non lo preoccupano nello stesso modo.
Il governo Conte ha dedicato i suoi primi mesi a mettere in risalto le misure contro i migranti volute da Salvini, ben più che le poche misure sociali richieste da Di Maio. Così il Decreto sicurezza ha inasprito ancor di più le condizioni per il soggiorno e l'accesso dei profughi ad un lavoro e ad una casa. Ha abolito, in particolare, il permesso di soggiorno per motivi umanitari che poteva essere rilasciato per due anni, come pure lo Sprar, il sistema di aiuti e protezioni ai rifugiati. Si sono introdotte altre misure che restringono lo stesso diritto di manifestare, senza che il M5S vi abbia visto un motivo per protestare.
Le misure che additano i migranti come i responsabili dell’aggravarsi della situazione delle classi popolari hanno permesso a Salvini di apparire come un ministro efficace, che non si accontenta di far discorsi. Ciò ha confortato il suo elettorato tradizionale, ma la sua politica è stata approvata anche da una parte delle classi popolari e dei lavoratori, rimasti senza nessun’altra prospettiva. Tale evoluzione è stata favorita dal clima anti migranti, alimentato dai mass media e da quasi tutti i politici, fornendo a Salvini il terreno sul quale sviluppare la sua politica xenofoba. Da questo punto di vista il M5S non fa eccezione, dal momento che esso non si è mai battuto contro questi vergognosi orientamenti della Lega, anzi, li ha in pratica sostenuti.
Misure sociali: dalle promesse alla realtà
È difficile esistere accanto al suo ingombrante alleato per Di Maio, che vorrebbe dare anche lui un'immagine di dinamismo e creatività. Diventato Ministro del lavoro, Di Maio dichiarava di essere quello che avrebbe “dato un colpo mortale al precariato”. Ma il M5S, al pari della Lega, deve governare per la borghesia e non contro i suoi interessi. Altro che colpo mortale, il «decreto dignità» di Di Maio è stato appena un graffietto. Annunciata come “morte della precarietà”, la legge autorizza un’applicazione più ampia dei voucher, estesi a nuovi settori, dal turismo all’agricoltura e al pubblico impiego. Si è ben lungi dalla soppressione del Jobs act portata avanti dal M5S durante la campagna elettorale.
Ma la proposta principale del programma di Di Maio in materia sociale era quella di introdurre il reddito di cittadinanza, proposta con cui ha raccolto tanti voti nel Sud e nelle isole, laddove più della metà della popolazione in età lavorativa è disoccupata. Nella regione mineraria del Sulcis in Sardegna, dove l’attività è crollata, la disoccupazione dei giovani sale addirittura al 78 % e più di un quarto degli abitanti sono disoccupati. Una volta roccaforte rossa, nel marzo 2018 questa regione aveva votato al 42 % per il M5S.
Di Maio, così come nell’agosto 2018 aveva trionfalmente annunciato la fine della precarietà con il decreto dignità, il mese dopo dichiarava che grazie all'adozione del reddito di cittadinanza “aboliva la povertà”. Oggi, dunque a più di sei mesi da quella pomposa e vaneggiante dichiarazione, non solo diventa chiaro che la povertà non è stata abolita -questo lo si poteva capire sin dall'inizio- ma si constata che nessuno ha ancora percepito un assegno di questo reddito. La platea degli aventi diritto, che prima della legge finanziaria doveva comprendere 6,5 milioni di beneficiari, è scesa a 3,5 milioni a causa dei tagli al bilancio richiesti dall’Ue e accettati da un governo la cui bandiera è il sovranismo e l’antieuropeismo. Queste sono però le stime del governo, ma quelle dell’Inps e dell’Istat parlano rispettivamente di 2,4 e 2,7 milioni di potenziali percettori. Sono cifre ben lontane da quei 9 milioni sbandierati dal M5S prima di andare al governo del paese.
Alle complicazioni amministrative da affrontare per chi avrebbe diritto al reddito di cittadinanza, si aggiungono le numerose condizioni restrittive e anche discriminatorie, poiché gran parte degli immigrati ne sarà esclusa, cioè quelli che non siano residenti da almeno dieci anni in Italia, in modo continuativo nei due ultimi anni. Ma per tutti la sua fruizione è condizionata alle misure chiamate con disprezzo “anti divano”, come se i disoccupati non si sognassero altro che di rimanere sul divano a guardare la televisione e di godersi il lusso consentito da uno stipendio di 780 euro al mese o anche meno!
In realtà, la possibilità di percepire questo reddito comporta ancora altri obblighi. I beneficiari non potranno rifiutare di partecipare a progetti d’interesse generale dei comuni, cioè di offrire fino ad otto ore di lavoro gratuito ogni settimana. Dovranno anche iscriversi in un programma, il cosiddetto Patto per il lavoro e per la formazione, che ipoteticamente proporrebbe formazione e posti di lavoro. I Centri per l’impiego dovrebbero agire da interfaccia tra la domanda e l’offerta di lavoro. L’uso del condizionale è d’obbligo, poiché la riforma che dovrebbe permettere ai Cpi di funzionare in tal senso è ancora in divenire e chissà se diventerà mai realtà. Il Patto prevede che durante il primo anno, i beneficiari del reddito di cittadinanza debbano accettare la prima offerta di lavoro nei 100 km attorno a casa, senza precisare le condizioni retributive, di qualifica e di contratto. Dopo un rifiuto, e comunque dopo un anno, la zona si estende a 250 km. Con grande benevolenza, il ministro ha spiegato che nelle famiglie con un disabile, le offerte di lavoro non potranno andare oltre i 100 km da casa... Per tutti gli altri, dopo un secondo rifiuto, e comunque dopo un anno e mezzo, la zona dell'offerta di lavoro sarà estesa a tutto il paese. In qualche modo, con queste misure si reinventa per il Sud d'Italia la tradizionale emigrazione al Nord. Ma questa volta sarà forzata! Comunque, al terzo rifiuto scatterà la perdita del beneficio.
Oltre agli obblighi per i beneficiari, non potevano mancare gli incentivi per le aziende e per i padroni che accetteranno di dare lavoro ai beneficiari del reddito di cittadinanza. In sostanza, costoro incasseranno il reddito che il lavoratore avrebbe percepito se non lo avessero assunto. Ci si può chiedere se, in fin dei conti, questo reddito andrà davvero a chi non ha lavoro, oppure ai padroni in cerca di manodopera a basso costo. Il reddito «rivoluzionario» di Di Maio risulta davvero in sintonia con i tempi.
Naturalmente anche la Lega doveva fare qualche promessa sociale. La propaganda contro i migranti, il “prima gli italiani” sbandierato da Salvini, doveva tradursi in qualcosa di concreto per il semplice lavoratore. Il leader della Lega aveva optato per l’abolizione della legge Fornero, che dal 2011 ha elevato l’età della pensione a quasi 67 anni. Ma, lungi dall’abolire questa misura, il governo si è limitato a varare la cosiddetta “quota 100” che consentirebbe la pensione anticipata all’età di 62 anni e con 38 anni di contributi, ovviamente con una pensione molto più bassa. Ad eccezione di chi ha condizioni di reddito abbienti, “quota 100” sancisce il diritto di scegliere di andare via dal lavoro... con una pensione misera.
Un partito politicamente inconsistente
I due vice premier, alleati al governo e rivali in politica, sono innanzitutto preoccupati di confortare i loro elettori e di guadagnare consensi in vista delle prossime verifiche elettorali. La strategia è vincente per la Lega di Salvini e disastrosa per il Movimento 5 Stelle, a giudicare dai recenti risultati elettorali.
Il M5S perde terreno a vantaggio della Lega, pure dopo aver affiancato Salvini sui temi nazionalisti e antieuropeisti o con i discorsi di denuncia di chi vorrebbe “sfruttare l’Italia”, senza dimenticare il tema dei migranti dichiarandosi contrario all’ingenuità di chi vorrebbe “accogliere tutta la miseria del mondo”. Gli altri cedimenti di Di Maio hanno rinnegato i pochi impegni presi dal M5S. Il sostegno al movimento No Tav è ormai praticamente dimenticato, anche se il M5S ha cercato di frenare ogni decisione almeno fino alle elezioni europee. I suoi elettori, tuttavia, hanno già dovuto ingoiare il rospo di vedere il ministro 5Stelle dei trasporti accettare la gara d’appalto per una nuova parte dei lavori.
Il M5S ha inoltre ceduto davanti alla Lega quando il tribunale di Catania ha lanciato un procedimento per sequestro di persona contro Salvini, dopo il divieto di sbarco dei migranti della nave Diciotti. Per mandare avanti il procedimento occorreva togliere l’immunità a Salvini e far dipendere la sua sorte dal voto dei parlamentari. Il M5S, grande difensore della giustizia, paladino dell'onestà e del rispetto della legge da parte dei politici, ha preferito nascondersi dietro il voto dei suoi aderenti in rete. Così il ministro degli Interni è stato risparmiato, così come l'alleanza di governo che per ora DI Maio non ha alcuna intenzione di abbandonare. La cosiddetta “democrazia partecipativa” può servire a tutto, anche a mantenere un governo, anche a continuare a coprire le decisioni più schifose di un Salvini. Come quella di far perseguire per abuso d’ufficio e per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina il sindaco di Riace Domenico Lucano, “reo” di aver accolto decine di migranti con la solidarietà ed il favore della popolazione del suo comune.
Col passare dei mesi, il M5S ha accumulato compromessi e cedimenti. Ha abbandonato le proposte vagamente progressiste o ecologiste del suo programma guazzabuglio per capitolare davanti al suo alleato e rivale d'estrema destra, al quale ha fatto e farà da zerbino. Questi pochi mesi di partecipazione del M5S al governo dimostrano quanto il fatto di affermare di essere un movimento di tipo nuovo, senza ideologia né struttura, preoccupato innanzitutto di far eleggere cittadini semplici ma onesti e di buon senso non è di per sé una garanzia di buon governo. Non riesce nemmeno a garantire il mantenimento delle proprie promesse o la fedeltà ad impegni che nondimeno il M5S aveva ridotto al minimo.
Il Movimento 5 stelle respinge le “ideologie”, dice di essere “un po' di sinistra e un po' di destra”, ma questo significa che non si preoccupa in nessun modo di analizzare e di combattere le cause fondamentali della regressione delle condizioni di vita dei ceti popolari, quelle della precarietà e della disoccupazione. Fin dalla sua fondazione nel 2009, il M5S si è accontentato di puntare il dito sullo Stato e sulla classe politica in quanto soli e unici responsabili dei mali della società e delle disuguaglianze. In tal modo si esonera la borghesia dalle sue responsabilità, tanto più facilmente, dato che per il M5S questa classe non esiste, come in generale non esistono le classi. Per questo partito, la società è divisa tra onesti cittadini che vogliono lavorare, dall’operaio al grande padrone, e politicanti e funzionari corrotti che si arricchiscono a spese loro.
Non è sorprendente che tale organizzazione opportunista, che afferma di non avere un “programma dogmatico”, abbia finalmente così poco resistito alle idee più reazionarie oggi di moda. Ma l’avvenuta evoluzione è difficile da ingoiare per la frazione degli elettori M5S costituita da delusi della sinistra tradizionale. Non mancano di certo le ragioni per voltare le spalle al PD e ai partiti del centrosinistra. I precedenti governi di questo colore hanno condotto senza patemi d’animo una vera e propria guerra ai lavoratori, in nome della modernizzazione dell'economia. E per quanto riguarda gli scandali di corruzione e i “piccoli accordi tra amici” che alimentano lo schifo esistente verso i politici, gli esponenti del PD vi hanno preso parte, sia a livello locale che nazionale. Ma i movimenti che, alla stregua del M5S, affermano che basta la volontà di “fare politica in un altro modo”, senza possedere alcuna concezione della società e di come la si può cambiare, dimostrano rapidamente la loro vacuità politica. L'incapacità di rappresentare un'alternativa politica li condanna alla fine a seguire le soluzioni degli altri, in questo caso gli orientamenti reazionari della Lega. Ma questo non li salva.
La Lega, parte vincente dell'alleanza
L'accordo per un governo bicefalo Salvini – Di Maio ha messo la Lega nella condizione di poter soffocare progressivamente il M5S. Salvini sta guadagnando punti nei confronti di un Di Maio che dimostra ogni giorno la sua inconsistenza ed accetta tutti i diktat dell'alleato pur di mantenere in piedi la coalizione di governo. La situazione favorisce innanzitutto la Lega, ma anche la destra in generale, e comunque il successo nell'opinione pubblica delle idee più reazionarie.
Anche nel centrosinistra, le critiche si concentrano sul M5S, ben più che sulla Lega. Per il PD, si tratta di riconquistare gli elettori persi perché attratti dalle sirene della destra e dei 5Stelle. Il Partito Democratico, dopo aver scartato Renzi, diventato troppo impopolare, si è dato nuovi dirigenti, come il “più presentabile” nuovo presidente del partito Zingaretti, e cerca di ritrovare gli elettori che si sono illusi di vedere nel M5S un'alternativa alla politica di semplice gestione della crisi a favore della borghesia com'è stata attuata dallo stesso PD. Ma dal punto di vista sociale, esso critica il governo Salvini - Di Maio da destra. Si lamenta per il fatto che i soldi pubblici siano spesi in misure sociali come il reddito di cittadinanza invece di essere investiti nelle grandi opere o nei programmi di aiuto allo sviluppo delle imprese che i grandi padroni esigono.
Molti lavoratori ed elettori di sinistra che costituiscono il tradizionale serbatoio elettorale del PD sono ovviamente preoccupati dal progresso dell’estrema destra e possono constatare che il M5s, lungi dall'essere un argine contro questa evoluzione, in realtà la facilita e l'accompagna. Ma l’unica alternativa offerta dal PD è di tornare alla casa originaria e di rassegnarsi alla vecchia alternanza tra governi di centrodestra e governi di centrosinistra, con nuovi sacrifici in prospettiva per l’insieme delle classi popolari, in nome dello sviluppo dell’economia. I successi relativi del PD nelle recenti elezioni regionali corrispondono forse al ritorno di alcuni suoi elettori alla loro vecchia casa. Molti altri si convinceranno semplicemente di non poter far altro che astenersi o, peggio, saranno conquistati alle idee della Lega e della destra, un fenomeno che il M5S, come d’altronde il PD, non impedisce.
La classe operaia deve ritrovare una sua prospettiva
Dopo le elezioni del marzo 2018, un sindacalista della CGIL spiegava così il risultato storico del M5S e della Lega in Sardegna: “La delusione creata dai partiti di governo proviene da quegli anni di chiusure di fabbriche, durante i quali non c’è stata nessuna alternativa per i lavoratori. Ecco perché i cittadini di questa regione si sentono traditi e pronti a provare tutti gli altri, senza nessun punto di riferimento politico”. Senz'altro l'osservazione era giusta, ma un anno dopo, le condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari non sono migliorate. Tanti lavoratori sono condannati ai salari bassissimi delle cooperative o al lavoro nero. E per quelli che hanno ancora un contratto meno precario, la situazione non è molto migliore, con ritmi di lavoro sempre più intensi e pericolosi. Gli infortuni sul lavoro si moltiplicano e l’Italia è diventata uno dei paesi ricchi in cui si muore di più al lavoro.
La crisi del capitalismo continua e si approfondisce. La politica della grande borghesia consisterà nel far pagare ai lavoratori sempre più a caro prezzo le conseguenze di questa crisi e le spese del mantenimento dei profitti. I discorsi e i giochetti del governo gialloverde non potranno nascondere a lungo questa realtà. I lavoratori, se non vorranno sprofondare in una situazione sempre più dura, dovranno, prima o poi, ritrovare la strada delle lotte.
Ma, di fronte alla crisi, i lavoratori dovranno anche ritrovare una vera prospettiva politica, che può essere soltanto quella dell'abbattimento del sistema capitalistico. Di fronte ai saltimbanchi gialloverdi, ma anche alla tentazione di trovare rifugio nel riformismo senza prospettiva del PD, è più che mai necessario ridare vita ad un partito operaio comunista che sappia ricollegarsi alla tradizione rivoluzionaria della classe operaia.
12 aprile 2019