Italia - Le ripercussioni della Comune di Parigi sullo sviluppo del movimento socialista

Chiedersi quali ripercussioni abbia avuto la vicenda della Comune parigina sul movimento socialista italiano obbliga prima di tutto a interrogarsi sulle condizioni di questo movimento nel periodo considerato. In realtà, non si può parlare, per l’Italia di quegli anni, di un vero movimento socialista.

Pochissimi intellettuali, i più sensibili alle correnti politiche e ideologiche europee, conoscevano qualcosa degli autori socialisti. Poco si sapeva di Proudhon e quasi niente di Marx. La lotta per l’indipendenza nazionale aveva assorbito per lunghi anni le migliori energie della gioventù rivoluzionaria, mettendole di fatto al servizio della Corona piemontese e della grande borghesia.

La classe operaia, ancora in gran parte occupata in piccoli laboratori e officine, conosceva già varie forme associative. Queste prime “società operaie” erano spesso incoraggiate dallo stesso governo monarchico, che le lasciava volentieri alla tutela o al patrocinio di notabili cittadini, spesso di nobili moderatamente “liberali”. In questo modo, la borghesia al potere, ben al corrente degli sviluppi del movimento operaio in Inghilterra e in Francia, paesi dove l’industria moderna era più progredita, cercava di prevenire in Italia la formazione di organizzazioni sindacali vere e proprie e, più ancora, di partiti socialisti.

Dal canto suo, Mazzini, egemone fino a quel momento nell’ambiente democratico, aveva cercato di incoraggiare le associazioni operaie per farne la base di massa del proprio movimento politico repubblicano.

A dieci anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, queste associazioni operaie si erano moltiplicate, soprattutto al centro e al nord. Nel 1864, a Londra era nel frattempo nata l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, sulla quale influì da subito Karl Marx. Era chiaro quindi l’indirizzo socialista di quella che successivamente si chiamerà semplicemente “L’Internazionale”. Mazzini, esule a Londra, cercò inizialmente di esercitarvi un’influenza, ma si fece presto da parte, intuendo che mettere le associazioni da lui egemonizzate a contatto con l’Internazionale avrebbe significato la penetrazione del socialismo nel proletariato italiano.

La sua prima preoccupazione divenne quindi impedire la diffusione delle idee socialiste tra i lavoratori e la gioventù democratica. In modo particolare, Mazzini si scagliava contro la teoria della lotta di classe. La sua Patria ideale era una repubblica nella quale si prevedeva al massimo una distribuzione meno iniqua della ricchezza. La solidarietà nazionale doveva prevalere sugli interessi di classe. Ma l'unità nazionale, alla quale mancava ancora l'annessione della Roma pontificia, si era realizzata nella forma monarchica. I servigi che involontariamente Mazzini aveva reso alla casa Savoia erano ripagati da questa con un mandato d'arresto, che ancora pendeva sul grande patriota genovese al momento della sua morte.

Il socialismo e l’Internazionale rappresentavano una prospettiva seria per la classe operaia, anche per quella italiana. Inoltre, i giovani democratici, che avevano sempre venerato Mazzini e Garibaldi, si rendevano sempre più conto che, finita la stagione delle guerre d’indipendenza, il solo ideale repubblicano non bastava a dare una risposta alla “questione sociale”, che ora si imponeva come la prima urgenza, la prima vera preoccupazione di quel popolo al quale le predicazioni mazziniane facevano continuo riferimento. Dalla semplice osservazione della realtà, dalla visione della miseria dei braccianti e degli operai, scaturiva la necessità di un nuovo programma e di una nuova bandiera per cui battersi. Non era poi passato molto tempo dalle cospirazioni e dalle battaglie sul campo che avevano caratterizzato la partecipazione di tanti giovani al movimento risorgimentale. La gioventù democratica italiana, aveva quindi alle spalle un buon tirocinio pratico, era pronta ad accogliere le nuove idee di emancipazione sociale che, tramite l’Internazionale, si stavano diffondendo in Europa.

La Comune e l’Italia

Fu attraverso un esule russo, Mikhail Bakunin, ormai più che cinquantenne, che l’Internazionale arrivò in Italia. Nonostante l’età e le traversie della sua vita burrascosa, Bakunin dimostrava un’energia straordinaria e una non comune capacità di legare con le persone e gli ambienti con i quali entrava in contatto. Fondò la prima sezione dell’Internazionale a Napoli, agli inizi del 1869, ma soprattutto seppe legarsi un certo numero di simpatizzanti, sia nell’ambiente delle associazioni operaie, sia in quello della gioventù mazziniana. Questo nucleo, contribuì fortemente, in seguito, a costituire l’ossatura di una vera organizzazione nazionale, la prima organizzazione italiana di ispirazione socialista. Dell'opera di Bakunin in Italia, scrisse lo storico Max Nettlau: “Egli solo ha saputo aprire una breccia nel muro costruito da Mazzini tra il socialismo internazionale e gli operai italiani”.

Ma per quanto energici e generosi possano essere gli sforzi di un uomo, è evidente che altre circostanze dovettero determinare lo sviluppo successivo del movimento socialista e di quello operaio da esso orientato.

Il fattore determinante, la scintilla, se vogliamo, fu la Comune, l’insurrezione proletaria parigina scoppiata verso la fine di una guerra insensata. Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia nel luglio 1870, consigliato in questo da ministri e generali adulatori che vantavano l’invinvibilità dell’armata francese, ma spinto anche dall’urgenza di offrire un diversivo “patriottico” ai crescenti conflitti sociali. Dopo poco più di in mese, “Napoleone il piccolo”, come lo aveva definito Victor Hugo, fu sconfitto a Sedan e fatto prigioniero. La borghesia allora, proclamo la repubblica e un governo di “Difesa nazionale”. In Italia, questo passaggio di regime suscitò un’ondata di entusiasmo tra le file della gioventù democratica rivoluzionaria e Garibaldi formò un corpo di volontari che si battè valorosamente contro i prussiani che stavano invadendo la Francia e si apprestavano ad assediarne la capitale.

Scrive Alfredo Angiolini, nella sua storia del socialismo italiano, pubblicata in dispense nel 1900, che i volontari garibaldini partiti in soccorso alla repubblica francese, "poterono vedere i progressi che le idee dell'Internazionale avevano fatto in Francia; tornati in italia ne parlarono con entusiasmo e l'attenzione dei rivoluzionari, dei ribelli, degli spiriti innamorati di libertà e di giustizia, fu rivolta ancora una volta verso la Francia".

La popolarità dell’Internazionale e del socialismo in Italia passò anche da queste vie inusitate.

Quando, dopo l’armistizio del 28 gennaio e la formazione del governo Thiers fu chiaro che la repubblica temeva molto di più gli operai di Parigi, arruolatisi in massa nella Guardia nazionale che gli invasori prussiani, quando, in seguito, il 18 marzo, di fronte al tentativo governativo di disarmarlo, il proletariato parigino insorse e si impadronì del potere, fu evidente che la repubblica non era che un’etichetta nuova per il vecchio dominio della grande borghesia e dell’aristocrazia finanziaria. E che queste, preferivano di gran lunga il dominio prussiano a quello della classe operaia.

Per quanto poche e frammentarie fossero le notizie che filtravano in Italia, non ci furono dubbi, negli ambienti più radicali del movimento democratico, che da una parte c’era un popolo insorto e che contro di esso si scagliava la furia delle classi dominanti.

La crisi dell’egemonia mazziniana

Mazzini, in quell’occasione, si giocò gran parte della sua autorevolezza. Si scagliò contro la Comune, contro l’Internazionale, contro il socialismo e unì la sua voce al vasto fronte di chi, dai moderati conservatori, ai liberali fino ai gesuiti scrissero e dissero parole di fuoco e ogni sorta di infamia contro i parigini insorti.

Ad aggravare la caduta di prestigio del patriota genovese fu la rottura che si verificò con Garibaldi. Dalla sua partecipazione alla guerra contro la Prussia, a fianco della repubblica, l’”eroe dei due mondi” aveva ricavato l’impressione che lui e i suoi volontari fossero diventati più un problema che un aiuto per il governo francese. Impressione pienamente giustificata dagli avvenimenti successivi all’armistizio. Anche per la sua mente politicamente molto confusa era chiaro che governo e stato maggiore repubblicani volevano porre fine alla guerra con i minori strascichi “sociali”, cioè evitando che la partecipazione popolare alla resistenza contro i prussiani mettesse in moto pericolose dinamiche rivoluzionarie. Proprio il contrario di quanto accadeva quando in una provincia passavano i volontari garibaldini! Quando Garibaldi si espresse pubblicamente a favore della Comune, definendo l’Internazionale come “il sole dell’avvenire”, i giovani cominciarono ad abbandonare, sempre più numerosi, i ranghi del movimento mazziniano.

Sia la nascita che la feroce repressione della Comune spinsero i migliori esponenti della democrazia rivoluzionaria italiana e gli operai più evoluti ed educati alla scuola dell’associazionismo, verso il socialismo. Si può dire che, in realtà, la storia di un vero movimento socialista in Italia comincia nel 1871. Uno dei padri del socialismo italiano, il romagnolo Andrea Costa, scrisse molti anni dopo, rievocando quei tempi, “Mazzini soprattutto si alienò la parte più calda e generosa della gioventù, cresciuta alla scienza nuova, infierendo contro alla Comune caduta, e attribuendo in gran parte alle teorie materialistiche, la disfatta della Francia... Ricordate, o compagni, il ‘71 e il ‘72? Come aspettavamo trepidanti le nuove di Parigi – come cercavamo gli statuti di quella potente Associazione internazionale – come leggevamo con ansia ciò che i giornali stessi degli avversari ne scrivevano? Meravigliosa fu la rapidità con cui si propagò in Italia il nuovo spirito...Noi ci gettammo in quel movimento spinti assai più dal desiderio di romperla con un passato che ci opprimeva e non corrispondeva... alle nostre aspirazioni, piuttosto che dalla coscienza riflessa di quel che volevamo. Noi sentivamo che l’avvenire era là; il tempo determinerebbe a quali idee ci ispireremmo”.

Il Congresso operaio promosso da Mazzini

Sconfitta la Comune, Mazzini comprese che la partita con il socialismo non era affatto conclusa. Ora, il socialismo e l’Internazionale erano, agli occhi di tanti giovani democratici e di tanti militanti delle associazioni operaie, indissolubilmente legati al martirio delle classi popolari di Parigi.

Se si è contro il socialismo e l’Internazionale, si è contro la Comune. Se si è contro la Comune, si è dalla stessa parte dei suoi massacratori. Così appaiono le cose e così effettivamente stanno.

Mazzini, che ha cambiato il suo luogo d’esilio dall’Inghilterra alla Svizzera, tenta un’ultima volta di consolidare la propria influenza sulla classe operaia organizzata. Promuove una Conferenza operaia nazionale a Roma, all’inizio di novembre del 1871. Vi partecipano 135 società operaie. Le direttive che ha impartito ai suoi “luogotenenti” sono quelle di dare una connotazione non politica al Congresso. Mazzini vuole farne l’occasione per fondare una grande organizzazione proletaria concentrata però sui soli interessi economici e professionali. È chiaramente una maniera per aggirare il problema dell’influenza socialista facendo leva sull’avversione verso la “politica” di una parte delle società operaie. Ma è un calcolo che non fa i conti con l’oste. Molte delle associazioni già passate all’Internazionale non parteciperanno. Bakunin coglie invece in questa iniziativa mazziniana l’opportunità di parlare ad una vasta platea di operai organizzati. Una sua “lettera”, viene fatta circolare tra i congressisti da Carlo Cafiero, allora fiduciario di Engels per seguire gli sviluppi dell’Internazionale in Italia. Il documento crea una profonda impressione tra molti delegati. Pur mantenendo verso Mazzini un tono rispettoso, vi si suggerisce, in sostanza, che le sue idee di patria, di religione, di repubblica, hanno fatto il loro tempo e che si tratta ormai di organizzare il proletariato in vista della completa emancipazione dal capitalismo, oltre tutti i confini nazionali e contro ogni patriottismo che finisce sempre per contrapporre lavoratore a lavoratore.

Il Congresso, per quanto si fosse concluso con un’apparente vittoria dei mazziniani, fu invece una sconfitta e segnò l’inizio di una straordinaria fioritura di associazioni aderenti all’Internazionale.

L'esule genovese morirà l’anno successivo a Pisa, malato e ancora perseguitato dalla polizia. Non riuscirà a vedere la crescita del movimento socialista in Italia e nemmeno il declino delle sue “fratellanze operaie e artigiane”.

Nuove sezioni dell’Internazionale

Il 18 ottobre 1871, Cafiero aveva scritto a Engels: “Non c’è una sola città importante dove l’Internazionale non abbia delle radici più o meno profonde. Girgenti, Catania, Napoli e i suoi dintorni, Sciacca e diverse altre borgate di Sicilia, Firenze, Parma, Ravenna, Pisa, molte altre città meno importanti della Toscana e le più grandi della Romagna, Torino, Milano e Roma, l’ultima zona che restava ancora all’esercito disfatto e del tutto in rotta di Mazzini, sono tutte ugualmente invase dall’Internazionale”. Un linguaggio che richiama quello militare e che esprime l’entusiasmo del giovane rivoluzionario per la nuova situazione creatasi dopo la Comune.

Alcune organizzazioni di allora somigliavano più a unioni di mestiere o addirittura a camere del lavoro che a un partito politico. È il caso, ad esempio, del Fascio Operaio di Firenze, che, secondo Roberto Michels (“Storia critica del movimento socialista italiano”, 1921) “comprendeva parecchie migliaia di lavoratori ed era diviso in un gran numero di federazioni operaie. Le sezioni più numerose e più cospicue erano quelle dei calzolai (700 soci), dei metallurgici (500 soci) e dei muratori (1700 soci). Specialmente più tardi, costituita la Federazione Italiana, si cercò di trasformare le associazioni miste in sezioni di mestieri”.

Sarebbe interessante soffermarsi sul processo che vide tante associazioni democratiche e operaie sottrarsi all’influenza mazziniana per aderire all’Internazionale. Nei diversi libri che si sono occupati di questa fase storica, troviamo una documentazione che fa ben comprendere anche le incertezze e la confusione teorica dei pionieri del socialismo italiano.

Il socialismo che stava prendendo forma in Italia non riusciva a scrollarsi completamente di dosso le vecchie idee moralistiche, la passione per le belle parole e i miti del passato. Occorrevano non solo uomini di polso, ma anche guide politiche sicure. Non potevano esserlo dei giovani entusiasti come Carlo Cafiero, Andrea Costa, Errico Malatesta. Non potevano essere loro gli assertori di una precisa visione della società, i maestri di cui c’era bisogno, capaci di padroneggiare una dottrina socialista che era passata già, altrove, “dall’utopia alla scienza”. Certo non si possono accusare questi precursori del movimento socialista italiano di fiacchezza o di mancanza di carattere o di coraggio, tutta la loro biografia attesta precisamente il contrario. Ma, affascinati dalle idee di Bakunin, che mischiavano princìpi che potremmo definire marxisti ad astrazioni “antiautoritarie” e insurrezionaliste, gli internazionalisti italiani non riuscirono completamente ad essere all’altezza di quella situazione.

Allo stesso tempo, per quanto sempre più spesso si definissero “anarchici”, dettero un grande impulso all’organizzazione operaia e all’idea di un distinto interesse di classe che gli operai dovevano imparare a difendere contro la borghesia. In questo, colsero una delle lezioni più importanti della Comune.

4 maggio 2021