Gli ultimi anni hanno visto una diminuzione dei salari in termini di potere d’acquisto sia in Europa che negli Stati Uniti. Secondo un centro di studi francese, il CEPII, “si è assistito ad un abbattimento brutale e senza precedenti dei salari reali del 3,2% nella zona euro, tra il 2020 e il 2022, e dell’1,4% negli Stati Uniti”.
La compressione dei salari è, da sempre, uno degli strumenti in mano alla borghesia capitalistica per preservare i propri profitti, specie in tempi di crisi. Ma, al di là della contingenza economica nella quale si sviluppa, la pressione esercitata dal padronato per spostare quote sempre maggiori della ricchezza prodotta dal lavoro salariato verso i profitti e a discapito dei salari è una costante della storia del capitalismo. Si tratta del conflitto tra capitale e lavoro sul quale Marx scrisse pagine chiarissime.
Salario, prezzo e profitto
Gli argomenti dei capitalisti e dei vari “professori” al loro servizio contro gli aumenti salariali sono più o meno sempre gli stessi. Quando, nel 1865, Marx tenne una serie di conferenze ai rappresentanti dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (più nota oggi come I Internazionale), si trovò ad affrontare e smascherare argomenti simili. Marx si serviva di esempi concreti. Partì dalla lotta degli operai inglesi, nel 1848, per la riduzione legale dell’orario giornaliero di lavoro da 12 a 10 ore, a parità di salario. Si trattava, di fatto, della richiesta di un aumento salariale su base oraria. Tra gli economisti borghesi che si opposero accanitamente ci fu “il dottor Ure” che, insieme agli altri portavoce ufficiali dell’economia borghese, provarono che questa legge avrebbe “suonato la campana a morto dell’industria inglese. Essi dimostrarono che non si trattava di un semplice aumento dei salari, di un aumento dei salari che si iniziava e si fondava su una diminuzione della quantità di lavoro impiegato. Essi asserivano che la dodicesima ora che si voleva togliere al capitalista, era proprio l’unica ora dalla quale egli traeva il proprio profitto. Essi minacciavano una diminuzione dell’accumulazione del capitale, un aumento dei prezzi, perdita di mercati, riduzione della produzione, conseguente ripercussione sui salari, e infine rovina”. Ma che cosa successe, in realtà, dopo l’applicazione della legge sulle 10 ore? Dice Marx: “Un aumento dei salari in denaro degli operai di fabbrica malgrado la riduzione degli orari di lavoro, un aumento notevole del numero degli operai di fabbrica occupati, una caduta costante dei prezzi dei loro prodotti, un mirabile sviluppo delle forze produttive del loro lavoro, un allargamento costante e inaudito dei mercati per le loro merci”.
Nelle sue conferenze, in seguito raccolte in un volumetto intitolato “Salario, prezzo e profitto”, Marx mise a nudo anche la formazione del profitto capitalistico. Dimostrò che la somma dei salari è inferiore al valore delle merci prodotte dai lavoratori. Il profitto dei padroni viene dal fatto che essi non comprano il prodotto del lavoro del salariato, ma ne comprano la forza-lavoro. La comprano al prezzo di mercato, cioè al prezzo di quello che è necessario ai salariati per soddisfare i propri bisogni di base e tornare al lavoro l’indomani. Questo è il salario.
Ma la caratteristica della forza-lavoro umana è di produrre più ricchezza di quella che essa costa al padrone; una volta comprata questa forza-lavoro, i padroni cercano di utilizzarla più intensamente possibile, per produrre la massima quantità di merci. Essi s’intascano la differenza tra il prezzo delle merci fabbricate dai lavoratori e il prezzo di tutto ciò che serve per produrle, compreso il salario. Questo plusvalore è accaparrato, collettivamente, da tutta la classe capitalista, industriali, ma anche banchieri, capitalisti dei trasporti… Il plusvalore creato dai lavoratori salariati nella produzione irriga tutta l’economia, e la borghesia, nel suo insieme, vive di questo.
L’esempio di Marx ci mostra come sia necessario per la classe lavoratrice possedere una propria visione, una teoria, della società e dell’economia per difendersi dalle argomentazioni e dagli attacchi della borghesia capitalistica. La teoria non è qualcosa di estraneo alla lotta per migliorare la propria esistenza. Accettare il punto di vista padronale, la sua teoria economica significa accettare una lotta impari alla quale ci si presenta disarmati.
È la teoria della lotta di classe, del conflitto tra capitale e lavoro, che ci mostra come il capitalista cerchi costantemente di ottenere sempre di più dalla forza-lavoro alle sue dipendenze, di aumentare la parte del valore prodotto che non versa in salari, e come la classe operaia debba cercare, per non ridursi alla miseria, di spingere nella direzione inversa.
Un conflitto permanente, che diventa feroce in situazioni come quella attuale, in cui la guerra economica tra capitalisti si esaspera. Un aumento dei salari, reale, cioè che sposti una parte del valore della produzione dai profitti ai salari è assolutamente fuori discussione per il padronato, che riesce a inventarsi nuove proposte per affrontare il problema dei bassi salari con ogni sorta di “fiscalizzazione” che lasci integro nelle tasche degli imprenditori e di tutti quelli che se lo spartiscono il plusvalore prodotto dagli operai.
La questione del salario minimo
Le dinamiche descritte da Marx agiscono naturalmente anche in Italia. Ma le caratteristiche del “modello italiano” aggravano ulteriormente la condizione operaia. Questo aggravamento è arrivato ad un punto tale che, da alcuni anni, hanno cominciato ad occuparsene prima i sociologi, poi i giornalisti e da ultimo i partiti di destra e di sinistra. I sindacati, per quanto possa apparire incredibile, sono stati più a rimorchio che alla testa di questo rinnovato interesse.
Così, su una questione che riguarda tutto il mondo del lavoro e i suoi interessi vitali, si è sviluppata tutta una demagogia che va dalla proposta dell’istituzione di un “salario minimo” legale, che, nel caso specifico, sarebbe una legalizzazione della miseria, alle varie forme di “detassazione” che, non incidono per niente sui profitti e scaricano su chi paga le tasse, cioè in massima parte sugli stessi lavoratori e sui pensionati, le varie elemosine che dovrebbero portare qualche spicciolo in più nelle tasche dei lavoratori.
È da sottolineare che, al massimo, i sindacati più grandi, si sono limitati a qualche discorso e, nel caso della Cgil, ad appoggiare il referendum promosso dai partiti d’opposizione. Da parte loro, i partiti di centrodestra hanno bocciato l’introduzione della legge sul salario minimo, fingendosi paladini della “libera” contrattazione tra le parti.
Eppure, proprio perché risponde ad una necessità comune, l’obiettivo di un aumento generalizzato dei salari, compreso il minimo salariale uguale per tutti, sarebbe il terreno ideale per sviluppate una grande iniziativa di lotta, una rivendicazione generale per conquistare la quale dovrebbero essere messe in campo tutte le forze organizzate del mondo del lavoro.
Del resto, se si parte dalla situazione di fatto, arciconosciuta e documentata da centinaia di articoli, analisi statistiche, articoli pubblicati in giornali, riviste e siti web, non ci vuole un grande sforzo di creatività a immaginare le principali rivendicazioni necessarie. Tra queste c’è certamente, come abbiamo detto, un minimo salariale uguale per tutte le categorie del lavoro dipendente. Ma l’ammontare di questo non può essere la miseria dei 9 euro lordi l’ora dell’iniziativa di legge popolare promossa dall’opposizione parlamentare e dalla Cgil. A titolo di confronto, il salario minimo legale in Francia è di 11,65 euro l’ora e quello tedesco è di 12,41 mentre i prezzi dei beni di consumo sono poco distanti da quelli italiani. Un chilo di normale pane bianco può costare dai 2 ai 3 euro in Germania e 2,50 in Francia. In Italia, secondo Coldiretti, si va dai 2,26 euro a Napoli ai 5,14 di Bologna. La benzina, secondo il Global Petrol Prices (dati al 7 ottobre), costa mediamente 1,67 euro in Germania, 1,69 in Francia e 1,74 in Italia.
Ma anche nei paesi dove esiste, il salario minimo legale consente una vita poco più che misera. Quello proposto dalla Schlein e da Conte è anche sotto questo livello. A meno che non si voglia sostenere che il costo della vita in Italia, per la massa dei lavoratori, sia del 23 o del 28 per cento più basso di quello francese o tedesco.
Il minimo salariale, quando si tratti di una somma decente, serve a proteggere gli strati meno tutelati della classe lavoratrice, da una parte, e a frenare la scivolata verso il basso di tutti i salari in generale, dall’altro.
Il problema del recupero del potere d’acquisto, perso negli ultimi anni, inoltre, si pone per tutte le categorie e per tutti i livelli retributivi.
In una sua dichiarazione alla stampa, il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Angelo Bonelli, ha detto che la proposta di legge sul salario minimo serve a “rispondere ai 4 milioni di italiani che guadagnano meno di 9 euro l’ora”. Il problema è che bisogna rispondere anche agli altri 14 milioni. La lotta per il salario non può essere lasciata nelle mani dei partiti e delle loro iniziative, non può essere subordinata alle manovre parlamentari e ai calcoli elettoralistici. Deve essere la classe lavoratrice tutta intera a portarla avanti e ogni categoria operaia e impiegatizia vi deve trovare un interesse, solo così sarà efficace.
L’inflazione ha colpito duro le famiglie dei lavoratori negli ultimi anni. Nel frattempo la grande borghesia si è arricchita. Il secondo punto di partenza per elaborare una strategia generale di lotta per i salari è dunque questo: recupero del potere d’acquisto attraverso adeguati aumenti in busta paga. Il terzo punto è l’introduzione di un meccanismo di indicizzazione dei salari, per non perdere con l’inflazione quello che si è ottenuto con la lotta.
Il capitalismo italiano, i sindacati e i bassi salari
Secondo una ricerca della Fondazione Di Vittorio della Cgil, andata in stampa lo scorso marzo, “l’Italia si contraddistingue, rispetto alle principali economie dell’Eurozona, per una lunga stagnazione dei salari reali”. Sulla base dei dati Ocse per il periodo 2000–2021 l’aumento del salario lordo annuale medio di un lavoratore a tempo pieno è stato dello 0,5% in Italia, contro il 17,7% in Germania e il 21,5% in Francia, sempre secondo la fondazione della Cgil. In valori assoluti: “Nel 2021, il salario medio osservato nell’intera economia italiana si attestava a 29,7 mila euro lordi annui, un livello nettamente più basso rispetto a quello tedesco (43,7 mila euro) e francese (40,1 mila euro)”.
La questione del salario, come tutte le altre questioni che riguardano le condizioni del lavoro in Italia e che sono l’oggetto della ricerca citata, sono qui trattate come guasti del sistema economico. I sindacati, per i ricercatori della Cgil, non hanno nessuna responsabilità nella situazione.
L’autore dell’articolo contenuto nella ricerca, Nicolò Giangrande, dal quale abbiamo preso le citazioni, attribuisce i bassi salari al “modello di sviluppo su settori a basso valore aggiunto e su una struttura produttiva basata sulla microimpresa che generano una domanda di lavoro meno qualificato e, quindi, meno retribuito. Inoltre, sull’occupazione dipendente del nostro Paese grava un’alta incidenza del lavoro a termine e/o a tempo parziale che determina, a sua volta, meno ore lavorate e, quindi, retribuzioni più basse. Sono quindi la forte discontinuità e la bassa intensità lavorativa ad incidere pesantemente sulla massa salariale complessiva e a contribuire, così, all’abbassamento del salario medio annuale”. Nascosto dietro un preteso metodo scientifico, dietro la presentazione delle condizioni salariali come conseguenza di fattori “oggettivi” vediamo in realtà l’accodamento del riformismo sindacale agli interessi della borghesia.
Se l’innalzamento dei salari, come qualsiasi altro miglioramento nei rapporti di lavoro, è di fatto un “sottoprodotto” della salute e della floridezza dell’economia capitalistica, il bandolo della matassa sta nello sviluppare le idee vincenti per far marciare nel modo migliore e senza intoppi la macchina economica capitalistica. Non si tratta di mettere sul piatto della bilancia l’enorme forza contrattuale che potrebbe esprimere la classe operaia in senso stretto e l’insieme dei lavoratori salariati. Il sindacato, agli occhi dei suoi burocrati, è una specie di movimento d’opinione, incaricato di sensibilizzare i partiti politici, i ministeri, la stessa Confindustria nell’eterna illusione di “riformare” il capitalismo italiano, dal cui successo competitivo si fanno dipendere, in ultima analisi, gli avanzamenti delle condizioni del lavoro.
Ma il fatto che questa impostazione è in fin dei conti la stessa dal 1945 a oggi, e il fatto che i miglioramenti più decisivi nei rapporti tra lavoratori e padroni, in questo lasso di tempo, si sono ottenuti quando i primi hanno imposto ai secondi, con gli scioperi, le riduzioni d’orario, le libertà sindacali in fabbrica, i più importanti aumenti salariali e le più vantaggiose regole di contrattazione, attesta che la via riformista, la via della cogestione, della codeterminazione, o come altro si voglia definire la collaborazione di classe, non porta in realtà a nessuna “riforma” che non vada nel senso della tutela dei profitti e della mano libera degli imprenditori sulla forza-lavoro. La questione salariale, posta come campo d’azione delle organizzazioni sindacali, è prima di tutto questione di rapporti di forza e della volontà politica di spostare questi rapporti dalla parte della forza-lavoro salariata.
La grande stagione di lotte che portò, dai primi anni ‘60 alla metà degli anni ‘70 a un miglioramento generale delle condizioni di lavoro non fu per niente il risultato di scelte consapevoli dei vari gruppi dirigenti di Cgil, Cisl e Uil, essa fu il risultato di una spinta spontanea dovuta all’ingresso in fabbrica di una nuova generazione di operai, in gran parte immigrati dal meridione, non ancora imbrigliati e intimiditi dalla burocrazia sindacale. Questa fu poi costretta a seguire il movimento spontaneo per non perderne il controllo. Quando questa ondata di lotte cominciò a rifluire, le direzioni sindacali assunsero di nuovo il ruolo di forza “responsabile” e “nazionale” e la classe lavoratrice subì una sconfitta dopo l’altra.
Detto questo, l’estrema dispersione della classe operaia italiana in una miriade di micro e di piccole imprese, aggravata dalle varie ristrutturazioni che si sono succedute negli ultimi quattro o cinque decenni, non è certamente il terreno migliore per organizzarsi e difendere le proprie condizioni lavorative. Oggi, secondo l’ultimo censimento Istat, il 79 per cento del totale delle imprese ha fra i 3 e i 9 dipendenti e occupa il 28% degli addetti. Le piccole imprese con 10-49 addetti occupano il 25,7% della manodopera. Così, più della metà dei lavoratori italiani è impiegato in aziende che stanno tra i tre e i 49 addetti. Sfuggono a questa statistica le imprese individuali con 2 addetti, dei quali uno può essere dipendente.
Certamente non bisogna guardare a questa frammentazione della classe operaia solamente come un dato “oggettivo”, conseguente a chi sa quali leggi economiche. Una “politica” di moderazione salariale come quella perseguita dai maggiori sindacati durante questo arco di tempo non ha favorito l’aggregazione di queste imprese in unità più grandi e ha fatto sopravvivere i “padroncini”, sicuri di poter contare su salari da fame.
I piagnistei padronali sul “costo del lavoro” eccessivo, spesso presentati come difesa della piccola produzione, che sarebbe la “spina dorsale” dell’economia italiana, si sono risolti in una spinta al ribasso salariale tanto per i dipendenti delle piccole quanto per quelli delle grandi imprese.
Dai salari alla rivoluzione sociale
Nel concludere l’ultima delle sue conferenze, Marx spiegò che i sindacati (quelli di allora) “compiono un buon lavoro come centri di resistenza contro gli attacchi del capitale”. Ma la loro lotta è al massimo “una guerriglia contro gli effetti del sistema esistente”. Non tendono alla trasformazione di questo sistema, né a “servirsi della loro forza organizzata come di una leva per la liberazione definitiva della classe operaia”. Cioè per l’abolizione del capitalismo.
I comunisti rivoluzionari, quindi, non devono limitarsi ad additare quelli che dovrebbero essere gli obiettivi di una grande lotta salariale. Insieme a questo, non devono smettere di indicare nel sistema economico e sociale capitalistico la causa delle diseguaglianze, dello sfruttamento e del continuo peggioramento delle condizioni salariali dei lavoratori.
Seguendo la logica del Programma di Transizione di Trotsky, bisogna rendere evidente come, nella fase attuale, anche una piena soddisfazione delle necessità economiche della classe lavoratrice, non può realizzarsi pienamente senza il superamento del capitalismo come sistema. Non solo il salario, ma ogni elemento di civiltà sociale è messo costantemente in discussione per i lavoratori e per tutti i ceti popolari.
Il programma dell’avanzamento, del miglioramento, del progresso sociale è oggi, definitivamente il programma della rivoluzione. Non si tratta, come agli inizi del ‘900, di opporre le riforme sociali alla rivoluzione, si tratta di comprendere che nessuna vera riforma che non solo garantisca una vita decente, ma innalzi i diritti e gli standard di vita della classe lavoratrice in modo duraturo, nessuna riforma di questo tipo può realizzarsi se non dopo una rivoluzione proletaria che tolga di mezzo la grande borghesia dal potere. Se è vero che le premesse di una tale rivoluzione ancora non si vedono all’orizzonte, è vero anche che quelle del riformismo sono finite da tempo.
10 ottobre 2024