Italia: la politica “africana” del governo Meloni

Il governo Meloni ha lanciato ufficialmente, lo scorso 28 gennaio a Roma, il “Piano Mattei” per l’Africa. Il titolo della conferenza era “Un ponte per una crescita comune” ma l’intervento del presidente della commissione dell’Unione africana, Moussa Faki Mahamat, ha subito guastato la festa, lamentando di non essere stato consultato, né lui, né le altre istituzioni africane, nella stesura del piano.

Il Piano Mattei e tutta la politica “africana” del governo Meloni sono fatti in gran parte di chiacchiere e di una propaganda tronfia ad uso interno,resa più accattivante per l’elettorato con l’impegno a bloccare i flussi migratori. Nel complesso,non c’è niente di veramente nuovo. L’imperialismo italiano ha, da decenni, interessi rilevanti in vari Paesi africani e, nella situazione attuale, cerca di partecipare, a suo vantaggio, alla ridefinizione delle sfere d’influenza politiche ed economiche che si sta verificando in Africa come nel resto del mondo. Anche gli accenni della Meloni a un rapporto con i Paesi africani che “non sia più predatorio” ma di cooperazione, riecheggia certe pagine della propaganda colonialista del passato.

Un esempio per tutti, tratto da un discorso di Mussolini nel 1922: “Non si tratta di conquistare dei territori..ma di una espansione naturale che deve condurre alla collaborazione dell’Italia e delle popolazioni africane…”. Parole “illuminate” che non impedirono, 13 anni dopo, di sterminare migliaia di etiopi bombardandoli con i gas asfissianti.

La propaganda governativa ha cercato di accreditare il Piano della Meloni come una trovata originale, capace di risolvere gli storici problemi di sviluppo dell’Africa. Un provincialismo che forse convincerà una parte dell’elettorato di destra, facendolo cullare nell’illusione di un’Italia che ha in mano le chiavi della politica internazionale. Ma, come si poteva leggere su La Stampa già qualche mese prima: “Il Piano Mattei non esiste senza un robusto aiuto internazionale e senza il cappello dell’Onu. Semplicemente perché l’Italia non ha i soldi per implementare il grande disegno di rinascita dell’Africa a cui, dal primo giorno a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni ha affidato le speranze di fermare l’epocale afflusso di migranti provenienti dal Mediterraneo”.

Che cosa c’entra Mattei?

Enrico Mattei, fu uno dei più capaci esponenti del capitalismo italiano del dopoguerra. Comple­tamente privo di remore politiche, capace di finanziare tanto le correnti democristiane che lo appoggiavano, quanto il Partito Comunista di Togliatti, divenne il protagonista della “politica energetica” italiana. Fondò l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) nel 1953 e, fomentando e utilizzando a piene mani le illusioni “autarchiche” sull’esistenza di un tesoro di idrocarburi sotto il suolo della Pianura Padana si assicurò una libertà di movimento sconosciuta agli altri dirigenti dei gruppi economici a partecipazione statale. L’ENI, per quanto di proprietà statale, sviluppò una sua propria politica estera che agiva parallelamente a quella ufficiale del governo. In questo modo l’imperialismo italiano riuscì a ritagliarsi un proprio spazio nell’ambito dello sfruttamento dei giacimenti di petrolio e di gas in Iran, in Egitto, in Libia e in Unione Sovietica, per stare ai casi più noti.

La “politica estera” di Mattei fu chiamata Neoatlantismo. Una definizione che voleva indicare il riconoscimento del campo guidato dagli Stati Uniti come quadro della collocazione strategica italiana, ma, all’interno di questa, la libertà di prendere iniziative e stipulare accordi economici che prescindessero dalle regole dettate dalle grandi compagnie petrolifere britanniche e americane. Nel clima della decolonizzazione, avviata proprio in quegli anni, l’azione dell’ENI si presentava come fiancheggiatrice delle istanze nazionaliste della nuova borghesia araba. Nello stesso tempo, infrangendo i tabù imposti da Washington, Mattei ottenne un accordo con Mosca per la fornitura di petrolio a prezzi molto più bassi di quelli di mercato in cambio della fornitura di tubi per oleodotti fabbricati dal centro siderurgico di Taranto. La storia è spesso ironica. In questo periodo di relativa espansione economica, segnata da quello che fu chiamato “il miracolo italiano”, Mattei fu un propugnatore dell’indipendenza energetica, intendendo con questa espressione la costruzione di una serie di relazioni economiche che svincolassero l’industria, e il capitalismo italiano nel suo complesso, dal potere monopolistico delle corporation petrolifere americane e inglesi. In un contesto del tutto diverso, gli attuali fautori del Piano Mattei caldeggiano, sempre inseguendo l’indipendenza energetica, il completo abbandono delle forniture russe e, sul piano politico-diplomatico, la totale subordinazione agli Stati Uniti. In un caso come nell’altro prevaleva e prevale la garanzia dei profitti capitalisti.

L’interesse per l’Africa

La politica estera italiana ha manifestato un “rinnovato interesse” per l’Africa a partire da circa un decennio fa. Una ricerca commissionata all’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) dal governo Letta, nel 2013, mette in evidenza le motivazioni di fondo di questo interesse che si basano, in ogni caso, su una interpretazione ottimistica dello sviluppo economico nel continente africano e della regione subsahariana in particolare. Il rapporto dell’ISPI sottolinea il crescente attivismo di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna nell’Africa subsahariana al quale si aggiunge quello di Cina, India, Brasile, Turchia e altri che “si stanno ritagliando un ruolo di maggiore influenza a livello globale anche attraverso una crescente penetrazione in Africa”.

Più o meno, l’appello degli autori del rapporto è quello a non lasciarsi soffiare tutti gli spazi. A parte l’Africa orientale, per la quale l’Italia “conserva un’attenzione particolare...ereditata da vicende storiche”, anche il Mozambico e l’Angola “costituiscono un’area privilegiata dell’influenza italiana, con imprese italiane che si sono ritagliate buoni spazi nei ricchi settori estrattivi dei due paesi”. Ma, di fronte alla frenetica attività degli Stati concorrenti e delle imprese che stanno loro dietro, occorre allargare il numero di paesi africani su cui “concentrarsi” , conclude il rapporto, fornendo questo elenco di otto Stati “prioritari”: Angola, Etiopia, Ghana, Kenya, Mozambico, Nigeria, Senegal e Sudafrica. È ragionevole pensare che questi paesi costituiscano la sfera d’interesse dell’imperialismo italiano in Africa.

Dal 2013, si avviarono una serie di “missioni bilaterali” con i paesi africani. Inoltre furono aperte 5 nuove ambasciate e si svolsero 3 conferenze ministeriali Italia-Africa. Si era fatta strada la convinzione che il ritmo di crescita delle economie subsahariane sarebbe continuato al 5,4% annuo, come veniva registrato dalle statistiche fino al 2015. Ecco che al “boom” africano potevano agganciarsi non solo le grandi imprese italiane ma anche le piccole e medie. Ma negli anni successivi queste percentuali si dimezzarono mentre crescevano i conflitti e le crisi politiche. Aumentò il numero di chi fuggiva dalla miseria, dalle guerre, dalle persecuzioni, dalla siccità. Porre un freno all’immigrazione diventò allora un’altra delle componenti fondamentali dell’interesse italiano per l’Africa.

La crisi russo-ucraina, da cui è partita la rincorsa alla “sicurezza energetica” da parte di tutti i governi europei, ha riportato di nuovo al centro degli interessi l’Africa. La metafora del “ponte” è ripresentata in tutte le salse. “L’Italia vuole essere un ponte verso la sponda meridionale del Mediterraneo, verso tutto il continente africano”, dice Draghi, rivolgendosi al parlamento europeo. Tajani, ministro degli Esteri ripete: “ L’Italia è un ponte naturale tra l’Europa e l’Africa. Per questo vogliamo diventare un hub energetico nel Mediterraneo…”

La vergognosa storia degli “aiuti”

La volontà di cooperare e di aiutare lo sviluppo dell’economia africana si dovrebbe misurare con l’entità degli aiuti economici dei vari paesi “donatori”. In realtà, questi “doni” non sono mai gratuiti e disinteressati, condizionati ad un ritorno verso il paese donatore per l’acquisto di beni o investimenti dall’interesse più che discutibile per i popoli africani, ma ben concreto per le aziende venditrici. Più di cinquanta anni fa, i paesi dell’OCSE presero l’impegno di versare lo 0,7 per cento del proprio reddito nazionale lordo agli aiuti per lo sviluppo (APS) ai paesi poveri. Questo impegno fu ribadito all’assemblea dell’ONU nel 2015. Per quanto riguarda l’Italia, gli APS sono scesi dallo 0,33% del 2022 allo 0,27% del 2023. Rifacendosi ai dati della stessa OCSE, inoltre, si vede che gli APS italiani, specificamente verso l’Africa, sono scesi dai 515 milioni del 2022 ai 351 milioni del 2023, con un calo del 32%. altro che aiuti allo sviluppo!

Gli investimenti diretti esteri (IDE), sono un indicatore della fiducia che i vari gruppi industriali e finanziari stranieri hanno nella possibilità di una crescita economica tale da remunerare il denaro investito. Qui il quadro si differenzia molto tra una regione e l’altra dell’Africa. Se l’Egitto nel 2022 è stato destinatario di 11 miliardi di IDE, più che raddoppiati rispetto all’anno precedente, nell’Africa subsahariana gli investimenti sono diminuiti. Dalla Nigeria, lo stesso anno, sono fuggiti 187 milioni di dollari. Complessivamente, nel 2022 gli IDE in Africa si sono quasi dimezzati rispetto all’anno precedente, passando da 80 miliardi di dollari a 45.

Naturalmente, questo non rappresenta un quadro definitivo ed esiste la possibilità che un nuovo flusso di capitali inverta la tendenza che abbiamo visto. In ogni caso, l’instabilità di gran parte dei paesi africani influisce sulla quantità e sulle caratteristiche degli investimenti esteri.

Ma per quanto riguarda l’Italia e le sue pretese di esercitare un ruolo di primo piano nello sviluppo economico del continente, un confronto tra gli stock di investimenti impegnati in Africa da vari paesi, chiarisce il suo carattere velleitario e propagandistico. Con i dati disponibili, che sono sempre quelli del 2022, abbiamo: Gran Bretagna con uno stock di 60 miliardi di dollari, Francia con 54 insieme ai Paesi Bassi e, dopo varie posizioni, Italia con... 6,6 miliardi.

Punti di forza dell’imperialismo italiano

Le complesse vicende che coinvolgono e, spesso, sconvolgono i paesi e i popoli africani sono intrecciate con le lotte tra grandi potenze per spartirsi mercati e zone d’influenza. Il cosiddetto “boom” africano, di cui si è parlato fino a una decina di anni fa, finora ha avvantaggiato soprattutto le banche e le grandi “corporation” di queste potenze.

Per il momento, a parte le dichiarazioni del governo Meloni, con le sue pretese di “promuovere lo sviluppo” africano, rimangono all’imperialismo italiano soprattutto i tradizionali punti di forza nel continente. L’ENI, in Libia, Algeria, Egitto, Congo, Mozambico ha dimostrato, fino ad oggi, di sapere difendere i propri insediamenti in mezzo a disordini e guerre civili. Il flusso di profitti generato da questo colosso dell’energia continuerà ad affluire, nonostante tutto, nelle banche italiane. L’altro settore nel quale gli interessi italiani hanno continuato a macinare profitti è quello delle grandi costruzioni, come la diga “Grand Renaissance” edificata nella vallata etiopica del Nilo, del costo stimato di 3,5 miliardi e di cui la principale costruttrice è la WeBuild di Salini , che ne ha già costruite altre due, sempre in Etiopia.

L’altro settore industriale dove il capitalismo italiano conserva e anzi incrementa il proprio business è quello dell’esportazione di armi. In generale, a dispetto della proclamata difesa dei “valori democratici” e della “lotta contro le autocrazie”, il 72% delle armi esportate dall’Italia va a paesi i cui regimi sono classificati come non liberi dall’agenzia internazionale Freedom House. Una proporzione che supera di molto quella della Russia (54%) ed è il doppio esatto della media europea. Molti di questi regimi sono africani. La società Leonardo fa affari d’oro in Nigeria. Ad aprile sono stati definiti i dettagli finali di un accordo col ministero della difesa nigeriano che prevede la fornitura di 24 aerei militari. Secondo varie fonti si tratta di un affare di circa un miliardo di dollari, una cifra che è quasi dieci volte l’ammontare di tutto l’export italiano di armi in Nigeria lo scorso anno. Le prospettive sono promettenti se, come dicono le stime più accreditate, la spesa militare crescerà del 20% già nell’anno in corso.

Altro caso da manuale è l’Egitto: al regime di al-Sisi, divenuto “famoso” in Italia per il rapimento, le torture e l’assassinio del giovane ricercatore Giulio Regeni, da parte della polizia politica locale, l’Italia destina un quinto del totale delle sue esportazioni di armi pesanti. Una esportazione del tutto illegale, alla luce della legge 185/90 che vieta la vendita di armi “verso Paesi responsabili di violazioni dei diritti umani accertate dai competenti organi”.

Complessivamente, la spesa militare dell’Africa nel 2023 è stata di 51,6 miliardi di dollari. La regione subsahariana ha segnato il primo posto per tasso di crescita con la Repubblica del Congo e il Sud Sudan. La prima ha più che raddoppiato la spesa nel 2023 e l’altra ha aumentato del 78% raggiungendo 1,1 miliardi dollari. Ma anche nel nord del continente le cose non vanno affatto male per l’industria della morte. Algeria e Marocco fanno la parte del leone rappresentando i quattro quinti della spesa regionale totale. Secondo la rivista Nigrizia è l’Algeria ad avere i numeri più significativi, una crescita del 76% per una spesa totale di 18,3 miliardi di dollari, si tratta “del livello più alto mai registrato dall’Algeria e del maggiore incremento annuale dal 1974. crescita - prosegue l’articolo della rivista – favorita da un cospicuo incremento delle entrate derivante dalle esportazioni di gas verso i paesi europei, costretti a rivolgersi al paese nordafricano dopo il blocco delle importazioni dalla Russia”.

Il quadro, dunque, è più che promettente. E se anche di “sviluppo” vero e proprio non si può parlare, si tratta pur sempre di un interessante mercato in crescita per chi produce armi pesanti e leggere. In attesa dei miracoli del Piano Mattei le industrie italiane della difesa riforniscono anche l’Algeria, che costituisce il suo ottavo cliente in ordine d’importanza.

Per comprarsi le armi che servono a difendere gli interessi dei possidenti locali e, più ancora, i profitti delle imprese capitalistiche e gli interessi diplomatici dei paesi imperialisti che operano nel continente, i governi africani sprofondano ancora più nella miseria i propri popoli, riducendone complessivamente la capacità di spesa. Per i capitalisti italiani e per i loro omologhi di tutti i paesi vale il detto “meglio un uovo oggi che una gallina domani”.

4 Maggio 2024