Da "Lutte de Classe" n°238 – Marzo 2024
A febbraio, dopo più di quattro mesi di guerra, i massicci bombardamenti e l'avanzata delle truppe israeliane a Gaza avevano ucciso più di 30.000 persone, soprattutto donne e bambini, sfollato quasi due milioni di persone, distrutto la maggior parte delle infrastrutture e trasformato le città in rovine.
Opponendosi a qualsiasi tregua, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha chiesto al suo stato maggiore, all'inizio di febbraio, di lanciare un'offensiva sulla città di Rafah, nel sud di Gaza, al confine con l'Egitto. Qui si concentrano più di un milione di palestinesi fuggiti dal nord, che vivono in condizioni precarie nelle tende e sono privati dell'accesso all'assistenza sanitaria. Con il confine egiziano chiuso, la popolazione si trova intrappolata e sottoposta ai bombardamenti dell'aviazione e dell'artiglieria israeliana.
Il governo di Netanyahu proclama di voler sradicare Hamas ma non fa altro che perseguire una politica che è stata quella dei dirigenti di Israele fin dall'inizio, che consiste nel cercare di terrorizzare il popolo palestinese e annientarlo con la forza delle armi. Questo governo sa bene che non metterà fine alla resistenza, che riemergerebbe sotto la guida di Hamas o di una nuova organizzazione, ma i dirigenti israeliani non hanno altra politica da proporre se non quella di scavare sempre più a fondo in questa impasse.
Netanyahu può anche ripetere che “la vittoria è vicina”, che è solo questione di mesi, ma la realtà è ben diversa. Hamas è in grado di lanciare molti razzi contro Israele ogni settimana. Secondo le informazioni che circolano su alcuni media israeliani, il piano iniziale dell'esercito israeliano prevedeva il totale “controllo operativo” delle tre principali città della Striscia (Gaza, Khan Yunis e Rafah) entro la fine di dicembre.
Tuttavia questo controllo, anche nel nord, non è stato efficace, come ha dimostrato la morte di 21 soldati israeliani, tutti riservisti di età compresa tra i 25 e i 40 anni, il 22 gennaio, in un attacco missilistico da parte dei miliziani di Hamas nel campo profughi di Maghazi, a soli 600 metri dal confine israeliano.
La questione della fine della guerra divide gli israeliani, sia la popolazione che i suoi leader. È sempre più chiaro che la principale preoccupazione di Netanyahu è, continuando la guerra, quella di rimandare il momento in cui dovrà rendere conto delle sue politiche. Impegnato in una corsa militare a capofitto, ha più che mai bisogno del sostegno dei partiti di estrema destra. Questo era già successo dopo le elezioni generali del novembre 2022. Per formare il suo governo, è stato costretto a cedere loro importanti incarichi ministeriali, tra cui quello delle Finanze, affidato a Bezalel Smotrich, leader del Partito Sionista Religioso. Itamir Ben Gvir, leader del partito ultranazionalista Forza Ebraica, ha ottenuto un superministero della Pubblica Sicurezza.
Dal 7 ottobre l'estrema destra ha intensificato le sue pressioni, approfittando del clima di guerra per fomentare sentimenti anti-arabi nella popolazione israeliana. Chi è favorevole a negoziare una tregua con Hamas per garantire il rilascio degli ostaggi ancora detenuti viene accusato di essere “favorevole alla resa”. In Cisgiordania, i coloni, che costituiscono la principale base militante dell'estrema destra, godono dell'aperto sostegno dell'esercito israeliano nella creazione di nuovi insediamenti e possono commettere atti di aggressione contro i palestinesi nella più completa impunità.
Il 29 gennaio, a Gerusalemme, è stata organizzata una Conferenza per la Vittoria di Israele, il cui tema principale era il trasferimento dei palestinesi da Gaza. Mentre alcuni erano apertamente a favore dell'espulsione dei gazesi, il Ministro della Pubblica Sicurezza di estrema destra, Ben Gvir, si è dimostrato quasi un moderato, sostenendo l'“emigrazione volontaria”. Accanto a lui, sul podio, c'erano altri quattordici membri del governo di Netanyahu provenienti dall'estrema destra, dal partito di destra Likud e dal partito religioso ortodosso Torah Unity. L'estrema destra si batte per la “riconquista” e per “ricolonizzare Gaza”. Organizzando manifestazioni al confine tra Israele e Gaza per bloccare i camion che trasportano aiuti umanitari per i palestinesi, i suoi militanti invocano una guerra di sterminio.
Contro Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra, sono state organizzate altre manifestazioni dalle famiglie delle persone rapite, partecipate da molti cittadini israeliani, che hanno denunciato “il governo che se ne frega degli ostaggi”, chiedendo l'allontanamento di Netanyahu e l'organizzazione di nuove elezioni. Le divisioni sono ora evidenti anche all'interno del gabinetto di guerra, formato all'indomani del 7 ottobre. Benny Gantz, ex capo di stato maggiore e figura di spicco dell'opposizione a Netanyahu, coglie ogni occasione per prendere le distanze dal suo rivale e incontra regolarmente le famiglie degli ostaggi. Un altro ex capo di stato maggiore, Gadi Eisenkot, ha dichiarato in una conferenza stampa il 18 gennaio che “i leader israeliani non stanno dicendo tutta la verità sulla guerra” e si è rifiutato di rispondere a una domanda sulla sua fiducia in Netanyahu. Questo generale, che si dichiara favorevole a una rapida conclusione della guerra per evitare di arenarsi, non è affatto un pacifista: è noto per aver ideato la dottrina Dahiya, dal nome di un quartiere di Beirut distrutto dall'esercito israeliano nel 2006, che sostiene l'“uso della forza sproporzionata” contro le aree civili. Questa visione è stata ufficialmente inclusa nell'arsenale strategico dell'esercito israeliano nel 2008 e viene ora applicata a Gaza.
Accogliendo le critiche che stanno emergendo da una parte della popolazione israeliana, questi generali si propongono come candidati alla successione di Netanyahu. Possono anche contare sul crescente sostegno dei leader americani, frustrati dall'intransigenza di Netanyahu. il Segretario di Stato americano Antony Blinken, ad esempio, durante il suo ultimo tour in Medio Oriente, ha voluto incontrare in particolare Gantz ed Eisenkot.
In questo anno di elezioni presidenziali, Biden deve tenere conto dell'opinione pubblica, che in parte si oppone alla guerra a Gaza. Ma, al di là di questi calcoli elettorali, il presidente della principale potenza imperialista è anche preoccupato di limitare i rischi di estensione del conflitto a tutto il Medio Oriente, che l'atteggiamento provocatorio di Netanyahu potrebbe comportare. Biden ha invitato il governo israeliano a “garantire la sicurezza della popolazione civile di Gaza”. I suoi emissari hanno incoraggiato i negoziati con Hamas in Egitto. All'inizio di febbraio sono state imposte per la prima volta sanzioni contro quattro coloni israeliani accusati di violenze anti-palestinesi in Cisgiordania: è stato vietato loro di entrare negli Stati Uniti e i loro beni, se ne hanno, sono stati congelati.
Ma questa pressione, molto limitata, non può impedire che la guerra continui ancora a lungo, grazie alle munizioni e ai proiettili forniti dagli Stati Uniti attraverso un ponte aereo e marittimo. Sebbene l'aiuto militare americano sia stato di gran lunga il più importante, in realtà tutte le principali potenze occidentali hanno sostenuto attivamente la macchina bellica israeliana, comprese la Francia e l’Italia. I principali produttori di armi francesi, ad esempio, lavorano a fianco delle aziende israeliane in programmi di produzione di droni, veicoli corazzati lanciamissili, ecc.
Il sostegno degli Stati occidentali si è manifestato in modo spettacolare anche nel loro atteggiamento nei confronti dell'Unrwa. Questa agenzia delle Nazioni Unite è stata fondata nel 1949 per prendersi cura dei rifugiati palestinesi dopo la creazione di Israele, i cui dirigenti non si fanno scrupoli a scaricare i costi dei loro abusi sulla cosiddetta “comunità internazionale”. Dopo che le autorità israeliane hanno affermato, senza fornire la minima prova, che i dipendenti dell'agenzia hanno preso parte ai massacri del 7 ottobre, 16 Paesi - tra cui l’Italia e i principali donatori, Stati Uniti e Germania - hanno annunciato la sospensione dei finanziamenti all'Unrwa fino a quando non saranno noti i risultati dell'indagine. Da parte loro, Francia e Unione Europea hanno dichiarato di attendere le conclusioni dell'inchiesta prima di decidere se sospendere i finanziamenti.
L'Unrwa impiega 30.000 persone, la maggior parte delle quali palestinesi, e aiuta quasi sei milioni di rifugiati palestinesi in Cisgiordania e Gaza, oltre che in Libano, Giordania e Siria. Solo nella Striscia di Gaza, gestisce 278 scuole e 22 centri sanitari e, dall'inizio di ottobre, fornisce cibo a circa due milioni di persone assediate da Israele. L'essenziale sovvenzione americana è stata sospesa per la prima volta tra il 2018 e il 2021. Biden sta così dimostrando la continuità della politica della Casa Bianca, che è sempre consistita nel schierarsi con lo Stato di Israele, indipendentemente dal presidente in carica (1).
È impossibile prevedere quale sarà l'esito delle manovre e dei negoziati condotti dai leader americani. Fin dall'inizio del conflitto, si sono dichiarati a favore di una “soluzione a due Stati”. Hanno davvero la volontà di costringere i leader israeliani ad avviare negoziati ufficiali con i rappresentanti palestinesi? Negli anni '90, ciò ha portato alla firma degli Accordi di Oslo, che prevedevano l'eventuale riconoscimento di uno Stato palestinese. L'unico risultato è stato la creazione dell'Autorità Palestinese, una parvenza di Stato a cui i governi israeliani non hanno mai lasciato spazio, tranne per reprimere la propria popolazione. La colonizzazione della Cisgiordania è continuata e l'esercito israeliano ha continuato a comportarsi come un’armata d’occupazione, reprimendo, uccidendo e organizzando a suo piacimento assedi di città, e persino dell'intera Cisgiordania e di Gaza. Anche se i leader israeliani, su pressione degli Stati Uniti, dovessero riconoscere ufficialmente l'esistenza di uno Stato palestinese, questo non sarebbe molto diverso dall'attuale Autorità palestinese e certamente non porrebbe fine all'oppressione subita dai palestinesi.
L'attuale guerra non può portare a nulla se non a nuovi scontri. Le proteste contro Netanyahu in Israele dimostrano che alcuni israeliani sono consapevoli che l'estrema destra e le sue politiche li stanno condannando a una guerra senza fine. Ma gli attuali oppositori di Netanyahu, come Gantz e pochi altri, non propongono una politica fondamentalmente diversa. Una vera pace non sarà possibile finché non verranno riconosciuti i diritti nazionali dei palestinesi e finché la popolazione israeliana accetterà di essere arruolata in una guerra permanente che la rende il braccio armato dell'imperialismo.
Sono infatti le potenze imperialiste ad aver deliberatamente creato le condizioni per lo scoppio del conflitto arabo-israeliano. Lungi dal cercare di risolverlo, non hanno mai smesso di alimentarlo per avere, in Israele, uno Stato che fosse il pilastro della difesa dell'ordine imperialista in Medio Oriente. In tutto il mondo hanno usato gli stessi metodi, mettendo i popoli l'uno contro l'altro per usarli ai propri fini. Questo è nella natura stessa del sistema imperialista, basata sull’oppressione, sul controllo e il saccheggio dei vari paesi da parte degli Stati più potenti e sullo sfruttamento dei lavoratori in tutto il mondo a vantaggio delle classi dominanti, in particolare quelle dei Paesi imperialisti più ricchi.
Come comunisti rivoluzionari, siamo totalmente e incondizionatamente solidali con i palestinesi nella loro lotta per il riconoscimento dei loro diritti e per respingere il saccheggio di cui sono stati vittime. Ma dobbiamo anche affermare che l'esito di questa lotta, come di quella di molti altri popoli, dipenderà dalla capacità del proletariato di condurre il suo scontro fino al rovesciamento del capitalismo e alla costruzione di una società libera da ogni forma di sfruttamento e dominio.
20 febbraio 2024
(1) Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali hanno ancora espresso questo sostegno incondizionato, in aprile, in occasione dello scontro con l’Iran, provocato da Netanyahu. Questi mirava precisamente a dimostrare che, nonostante le loro timide critiche al suo comportamento nei confronti dei palestinesi, Israele rimaneva per i dirigenti occidentali il loro primo alleato nel Medio oriente. (NdT – aprile 2024)