Francia: Tre mesi di scioperi e manifestazioni contro l’aumento dell’età della pensione

Da "Lutte de Classe" n°231Aprile 2023

L’importante partecipazione alle manifestazioni del Primo maggio 2023, sia a Parigi che in più di 300 città grandi e piccole in Francia, ha dimostrato che la rabbia era ben lungi dall’essersi spenta dopo la mossa del governo Macron-Borne che ha deciso di imporre, nonostante tutto, la sua riforma delle pensioni che prevede di aumentare di due anni l’età del pensionamento.

Eppure la legge è stata promulgata in fretta dopo il ricorso all’articolo 49.3 della Costituzione che consente al governo di imporre un testo di legge, senza il voto dei deputati. Dopodiché Macron e la sua prima ministra Elisabeth Borne pensavano di potere ormai voltare pagina e farla finita con il movimento di scioperi e manifestazioni, lanciato dalle organizzazioni sindacali il 19 gennaio scorso. Ma se la legge per ora è passata, l’impronta del movimento rimane, non solo per il fatto che il governo di Macron è ormai indebolito politicamente, ma anche con la crescita dell’esperienza e del livello di coscienza dei lavoratori.

Un governo senza maggioranza

Lo scenario della riforma delle pensioni, tra cui il rinvio di due anni dell’età del pensionamento, portato da 62 a 64 anni per la stragrande maggioranza dei lavoratori, avrebbe dovuto permettere a Macron di conquistarsi la destra – Les Républicains – e di affiliarla a questa “madre di tutte le riforme”. Il suo governo aveva già dovuto usare parecchie volte il 49.3 durante i primi mesi del suo secondo mandato, poiché, con le politiche del 2022, aveva perso la maggioranza assoluta alla Camera. Poteva sperare che quello che rimane del vecchio partito della destra tradizionale, da anni accanito sostenitore di un aumento dell’età del pensionamento a 64 anni e perfino oltre, lo avrebbe sostenuto.

Malgrado il sostegno dei senatori LR e l’invito di alcuni suoi dirigenti, tra cui Eric Ciotti e Bruno Retailleau, a votare il testo, la prima ministra ammetteva però che “i conti non tornavano”, giustificando così il ricorso all’art. 49.3. Si vede che anche nelle file della destra pochi eletti accettavano di accollarsi un sostegno a questa misura, respinta dalla maggioranza dell’opinione e perfino da una parte del loro proprio elettorato.

Macron vorrebbe certamente allargare la sua maggioranza, ma lo può fare solo se riesce a conquistare parte della destra dell’arco parlamentare. Ma ora non è affatto sicuro che la promessa di posti al governo basterà per trovare i rinforzi necessari all’adozione delle sue future leggi.

Non sembra per ora che Macron possa scegliere di cambiare il governo e i ministri. È più probabile quindi che il governo userà sempre più spesso procedure che gli permettano di aggirare la Camera: ordinanze governative, decreti-leggi, ed altre come il famoso articolo 49.3 che la quinta Repubblica mette a disposizione dell’esecutivo. Lo stesso Macron lo ha suggerito dicendo che la Camera parla troppo, vota troppe leggi e che “non tutto deve passare attraverso la legge”. E François Patriat, presidente del partito di Macron al Senato ha insistito: “Si legifera troppo, e con leggi troppo pesanti e lunghe, e troppo chiacchieroni!”. E se oggi la Premier Borne giura di non volere più usare il 49.3, tranne per i testi finanziari, questo rassicura solo chi è disposto a crederle.

L’unico merito di questa lunga fase di teatro parlamentare, schernito perfino dai dirigenti sindacali, in quanto “indegno e vergognoso” (Laurent Berger, dirigente della CFDT), sta forse nell’avere rafforzato la convinzione di una frazione dei lavoratori che la loro sorte non dipende da questi cenacoli di politicanti, ma dalla lotta di classe, dagli scioperi e dalle manifestazioni di piazza.

Un movimento non esplosivo ma persistente e esteso

Dal mese di gennaio, le giornate di mobilitazione e le manifestazioni si sono succedute, conservando il loro carattere massiccio, con parecchi milioni di partecipanti o scioperanti ogni volta, anche nelle città più piccole. Questo senza parlare del sostegno passivo di una larga parte dell’opinione pubblica, oltre le file della classe operaia e dei lavoratori sottoposti ai lavori più pesanti, cioè quelli più colpiti dalla riforma.

Il movimento però è rimasto limitato da questo suo carattere non esplosivo e dal fatto che le astensioni dal lavoro che lo hanno accompagnato non si sono trasformati in uno sciopero ad oltranza vero e proprio, deciso e ricondotto ogni giorno dagli scioperanti, e meno ancora in uno sciopero generale. Solo alcuni settori, tra cui le raffinerie o i ferrovieri, che si erano già mobilitati l’autunno scorso, ed anche i netturbini di alcune grandi città, i portuali, i lavoratori dell’energia o una frazione degli insegnanti, si sono impegnati in tali movimenti.

Nel suo discorso in televisione, il 21 marzo, con la consueta arroganza ed il consueto disprezzo, è stato forse lo stesso Macron ad avere ridato slancio alla mobilitazione. Quando afferma di non rimpiangere nulla e di vivere di “volontà e tenacia”, paragonando la “folla” dei manifestanti ai ribelli del Capitol hill di Washington del gennaio 2021, suscita l’odio dei lavoratori.

Macron ha anche confortato i dirigenti sindacali che denunciano fin dall’inizio la scarsa considerazione di Macron nei loro confronti. Macron se l’è presa in particolare con Laurent Berger, segretario della CFDT, accusato di non aver fatto nessuna controproposta e di essere in realtà un fautore dell’aumento dell’età del pensionamento che non ha il coraggio di assumersi la responsabilità delle proprie opinioni. Il presidente non ha tralasciato di ricordare che lo stesso Berger aveva proposto di accettare questo aumento al congresso del suo sindacato, nel giugno 2022, ma non era stato approvato. Berger si è offeso di questa accusa “sconveniente” e ha ricordato che aveva in effetti un progetto di riforma delle pensioni (quello della pensione “a punti”) e che proprio Macron l’aveva fatto suo nel 2019 prima di cambiare idea. L’indomani dell’intervista del presidente, c’erano comunque sempre più manifestanti nelle strade.

Col cancellare in fretta la visita di stato del re Carlo III, che doveva sancire la riconciliazione franco-britannica, Macron, re dei provocatori, ha senz’altro voluto risparmiarsi le ulteriori critiche che la festa prevista nel castello di Versailles avrebbe provocato.

Le dirigenze sindacali all’opera

Da mesi ormai, un fronte sindacale unito guida il movimento e ne decide le scadenze, senza seri dissensi, tranne forse quello di alcune minoranze. Questo spiega la sintonia dell’insieme dei dirigenti di questi apparati e la loro volontà (per quanto tempo ancora?) di non mollare davanti al potere, fino a invitare, per la giornata del 7 marzo a “fermare tutto il paese”. Colpendo tutti i lavoratori e respingendo tutte le offerte di dialogo delle burocrazie sindacali, Macron le ha costrette a stipulare l’unità e ad agire.

Laurent Berger, che fin dall’inizio si è dichiarato “in opposizione frontale”, appare come il principale dirigente e portavoce di questo comitato intersindacale, a tal punto che ora alcuni lo vedono come il migliore futuro candidato contro la Le Pen alle prossime elezioni presidenziali del 2027. Finora, Berger smentisce che possa candidarsi, ma l’evoluzione della situazione potrebbe portarlo ad entrare in politica e presentarsi come possibile salvatore, come lo fa già sul terreno sociale.

In realtà la CGT e il suo segretario generale Philippe Martinez (ora sostituito da Sophie Binet) contribuiscono più della CFDT al successo delle giornate di mobilitazione e allo stesso tempo fanno la propria parte, affermando di essere più decisamente a favore dell’allargamento degli scioperi. Martinez, che dirigeva la CGT ancora per pochi giorni, vedeva lì una “piccola sfumatura rispetto alla CFDT”, che “non ostacolava” l’unità sindacale. I due dirigenti hanno detto quasi nello stesso modo quanto si sentono traditi da Macron, dopo aver dato indicazione di voto per lui al secondo turno dell’elezione presidenziale:

Macron ci ha beffati” denunciava Martinez, mentre Berger si arrabbiava contro colui che “ci sputa in faccia”. Loro avevano avvisato il presidente della Repubblica, in una lettera del 8 marzo scorso, che la situazione “poteva diventare esplosiva”, dopo di che “questo non è sembrato preoccupante a nessuno” si è stupito Martinez. Così ci tenevano a presentarsi come interlocutori con senso delle responsabilità, che valeva la pena ascoltare per non lasciare che la situazione potesse scappare ad ogni controllo. Era anche il senso della supplica rivolta da Berger a Macron, chiedendogli di mettere la riforma in pausa per sei mesi, per calmare le acque e lasciare tempo alla concertazione.

Queste direzioni sindacali, che finora non temevano di essere scavalcate, non potevano accettare di screditarsi ingoiando il rospo della riforma elaborata da Macron. Ma hanno anche voluto fare sì che la contestazione rimanesse limitata alla problematica delle pensioni e non si estendesse in particolare a quella dei salari, che preoccupa e a volte mobilita anche di più i lavoratori. In imprese come la Airbus o la Caterpillar, dove FO è il sindacato maggioritario, esso ha spiegato chiaro e tondo che non si poteva neanche parlare di prendersela con la direzione aziendale e rischiare di metterne in pericolo la gestione.Le direzioni sindacali volevano dimostrare quanto sono uno strumento indispensabile per il mantenimento dell’ordine sociale… a patto di lasciare loro un qualcosa da presentare ai lavoratori. Il movimento sulle pensioni non ha impedito a FO e alla CFDT di firmare con il Medef, l’organizzazione padronale, un testo su una fasulla “ripartizione del valore aggiunto” nelle imprese, testo che Macron vuole ormai inserire nella legge. Questo dimostra che, anche se momentaneamente tra dirigenti sindacali e governo i ponti sono bruciati, la stessa rottura non si è mai verificata tra loro e il padronato.

Ma l’alta borghesia non ha intenzione di perdersi un’occasione di mettere i lavoratori in ginocchio, con l’aiuto del suo commesso Macron. Vuole mettere le mani su tutte le risorse, per consolidare di più i profitti, nel contesto della crisi e dell’entrata in un’economia di guerra.

Quale estensione dello sciopero?

In realtà durante tutto il movimento la volontà di lotta della classe operaia non è andata oltre il quadro adoperato dalle organizzazioni sindacali sia per esprimere il malcontento che per potere controllarlo. Al contrario di quanto sostenuto da numerosi commentatori e militanti, che hanno parlato di radicalizzazione e valorizzato le azioni di blocco davanti a certe fabbriche o sulle rotatorie o i pedaggi autostradali, non c’è stata un’evoluzione verso scioperi ad oltranza o movimenti più radicali. Le azioni di blocco operate da alcune minoranze, se si sostituissero agli scioperi veri e propri nelle imprese, potrebbero anche essere il sintomo della disperazione, della rinuncia a dare battaglia laddove i lavoratori la possono vincere: nelle imprese, con lo sciopero che è l’unico mezzo di spazzare la resistenza della borghesia. Come ha detto la nostra compagna Nathalie Arthaud, “la radicalità non sta nel dare fuoco ai cassettoni dei rifiuti, bensì nel non raccoglierli”.

Ma la storia del movimento operaio ci insegna che il ritmo, i flussi e i riflussi della lotta di classe possono passare da tante variazioni. Ad esempio, è vero che gli scioperi del giugno 1936 hanno avuto un carattere esplosivo e hanno cambiato natura con l’occupazione delle fabbriche, ma è anche vero che i primi segni del risveglio operaio erano stati osservati in un contesto ben diverso, nel 1934 e nel 1935, nel corso di scioperi che, ferocemente repressi, erano rimasti isolati e non erano riusciti allora a capovolgere il rapporto di forza con la borghesia.

Finora, la persona di Macron cristallizza l’odio ed il rancore. Ma si può sperare che la classe operaia imparerà dall’esperienza dei movimenti che ha sperimentato in questi ultimi anni e che non sono riusciti a ribaltare la situazione: risposte agli attacchi precedenti contro le pensioni, contro la Legge Lavoro di Hollande, o il movimento dei gilets gialli. La classe operaia può trarne la conclusione che potrà vincere solo con scioperi potenti, generalizzati, controllati da essa stessa, che affronteranno il potere di quelli che dirigono davvero l’economia: il grande padronato, i banchieri, i finanziari, cioè quelli che impongono la tabella di marcia a Macron oggi e la imporreranno al suo successore domani…

In questa prospettiva, le forze dei rivoluzionari oggi rimangono insufficienti e non sono in grado di intervenire in modo determinante nella lotta di classe. Invece questa situazione, l’esperienza politica, le discussioni e le prese di coscienze che ne derivano, aprono la possibilità che le idee rivoluzionarie trovino un riscontro maggiore in una frazione della gioventù e della classe operaia che si sono mobilitate. Sarebbe una pregiata garanzia per le prossime battaglie.

26 marzo e 3 maggio 2023