Dal Covid-19 alla crisi del 2020

Da “Lutte de classe” n°208 – Giugno 2020

La crisi sanitaria è tutt'altro che finita, e l'economia e la società stanno sprofondando sempre più nella crisi del capitalismo, con tutte le sue conseguenze per le classi lavoratrici. L'umanità ha in larga misura i mezzi scientifici e tecnici per controllare la pandemia, anche se le persone autorevoli in materia scientifica ripetono che ci vuole tempo per farlo e che è necessario "imparare a convivere con il coronavirus". Ma la società è bloccata nella camicia di forza dell'organizzazione capitalista, con la proprietà privata dei mezzi di produzione e degli stati nazionali rivali, e il cui danno diretto o indiretto è incommensurabilmente maggiore di quello causato dal coronavirus. Il proletariato è l'unica classe sociale con l'interesse oggettivo e la forza di rompere questa camicia di forza e riorganizzare la società in modo tale che l'umanità sia in grado di controllare la propria vita sociale. Al di là dei problemi specifici della pandemia, è questa realtà che deve guidare l'azione dei comunisti rivoluzionari nel compito di costruire il partito che incarni questa prospettiva.

Le cifre, già catastrofiche, che illustrano il calo della produzione su scala mondiale, l'impennata della disoccupazione, il calo del commercio internazionale, ecc. finiscono per perdere ogni significato, perché è ovvio che l'attuale crisi dell'economia capitalista è sulla stessa scala dei grandi sconvolgimenti che l'hanno scossa nel XX secolo. E tutti questi elementi danno solo un'istantanea, in un dato momento, dello stato della crisi. Non fanno altro che lasciare intendere ciò che succederà dopo, cioè delle reazioni a catena che la crisi probabilmente genererà.

I paragoni più frequenti citano, in primo luogo, la crisi del mercato azionario del 1929, con la Grande Depressione che ne seguì. Infatti, se la pandemia di coronavirus e il contenimento hanno avuto effetti diretti sulla produzione, sono stati allo stesso tempo i fattori che hanno scatenato un brutale aggravamento della crisi del sistema capitalistico, un po' come il Giovedì Nero del 1929 fu per la Grande Depressione.

Il ministro dell'Economia francese Le Maire, ha usato il paragone degli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale per illustrare l'importanza del declino della produzione. Questo tipo di paragone però può solo essere superficiale, poiché ognuno di questi episodi della storia del capitalismo è stato diverso, così come lo furono le loro conseguenze. Tutti i periodi di crisi e di sconvolgimenti economici del nostro tempo, al di là della loro diversità, illustrano fino a che punto il sistema capitalista nella sua età senile, cioè imperialista, sia incapace di affrontare anche i problemi derivanti dal suo stesso funzionamento e, a maggior ragione, i nuovi problemi della società.

Nel 1929, la crisi venne direttamente dal funzionamento stesso dell'economia capitalista. Sono state le forze produttive in rapida crescita dopo la prima guerra mondiale, in particolare negli Stati Uniti, a scontrarsi con i limiti del mercato. Ma ciò che, al tempo dell'ascesa del capitalismo, era una pulsazione della vita economica che non fermava il progresso globale, e che poteva anche portare a un certo miglioramento delle condizioni di vita delle classi sfruttate, è cambiato al tempo dell'imperialismo. "La vita del capitalismo monopolistico nella nostra epoca è un susseguirsi di crisi. Ogni crisi è una catastrofe", ha scritto Trotsky nel Il marxismo e la nostra epoca. "La necessità di sfuggire alle sue catastrofi parziali per mezzo di barriere commerciali, inflazione, aumento della spesa pubblica e del debito pubblico, ecc., pone le basi per nuove crisi più profonde e diffuse".

Per quanto riguarda il significativo calo della produzione negli anni 1944-1945, esso deriva dalla distruzione della seconda guerra mondiale imperialista, che in qualche modo ha risolto la crisi del 1929, ma non allo stesso modo per tutte le potenze imperialiste che si erano scontrate.

Le potenze imperialiste sconfitte, Germania e Giappone, subirono una distruzione senza precedenti dei loro mezzi di produzione, sia umani che materiali. Fu a beneficio dell'imperialismo statunitense, il leader delle potenze vittoriose, che si risolse la crisi del 1929. Con la guerra stessa, offrendo ai grandi capitali statunitensi l'enorme mercato della produzione di armi e materiali. Mentre le potenze imperialiste in Europa si stavano distruggendo a vicenda e il Giappone si stava esaurendo nella guerra, prima di subire Hiroshima e Nagasaki, l'economia statunitense conobbe una delle più grandi espansioni della sua storia.

Terminata la guerra, la ricostruzione aprì un nuovo mercato su scala europea, se non globale, di cui il grande capitale americano fu, ancora una volta, il principale beneficiario. Tra il grande vincitore, l'imperialismo americano, e il grande perdente, la Germania, l'imperialismo inglese e quello francese, pur essendo dalla parte del vincitore, dovettero cedere all'imperialismo americano buona parte delle loro posizioni nel dominio del mondo.

Non affrontiamo qui il ruolo politico della burocrazia sovietica e dei partiti stalinisti, anche se fu capitale nel fatto che, a differenza della prima guerra mondiale, la seconda guerra mondiale non fu seguita dall'intervento rivoluzionario del proletariato. La guerra non ha comportato un cambiamento nei rapporti di forza tra il proletariato internazionale e la borghesia imperialista. Il cambiamento dell'ordine internazionale si è limitato al cambiamento del rapporto di forza tra le grandi potenze (l'URSS, risultato della rivoluzione proletaria ma burocratizzata, era al tempo stesso un elemento di disturbo dell'ordine mondiale imperialista ma anche un suo fattore di stabilizzazione).

La rivolta dei popoli alla fine della seconda guerra mondiale non fu tuttavia inferiore a quella che seguì la prima guerra mondiale. Ma da nessuna parte le masse in movimento hanno trovato una guida proletaria che proponesse come obiettivo ultimo il rovesciamento del potere della borghesia.

È questo fatto fondamentale che ha permesso alle borghesie imperialiste di riprendere il sopravvento, di consolidare il loro potere sulla società e di arricchirsi durante i cosiddetti Trenta Gloriosi, attraverso lo sfruttamento del proprio proletariato, il saccheggio dei paesi poveri e l'oppressione dei loro popoli.

Non sono state le leggi del mercato, della concorrenza e del profitto a permettere alla borghesia di riprendere la vita economica sotto la sua direzione e per il proprio profitto, ma, in larga misura, lo statalismo, cioè la negazione stessa dell'iniziativa privata. Ma questa stessa negazione si collocava nel quadro del capitalismo e aveva lo scopo di salvare il regno della borghesia. Oltre al suo ruolo sovrano, cioè la difesa degli interessi di classe degli sfruttatori contro gli sfruttati tramite la forza delle sue bande armate in uniforme, lo Stato ha accentuato il suo intervento nella vita economica curando quei settori che sono indispensabili al funzionamento dell'economia nel suo complesso, ma che non producono profitti sufficienti per i proprietari di capitali.

Lo statalismo ha avuto un ruolo importante in tutti i paesi imperialisti, compreso nel paese imperialista che si pone come patria dell'iniziativa privata, gli Stati Uniti. Lo statalismo in tempo di guerra non è solo una necessità militare. Durante la seconda guerra mondiale, sono stati proprio gli Stati Uniti ad illustrare al meglio il suo ruolo economico, decisivo per la borghesia. Nel dopoguerra la Francia fu un modello da questo punto di vista, con la nazionalizzazione di molti settori, dall'energia, rappresentata all'epoca principalmente dall'estrazione del carbone, ai trasporti, passando dalle comunicazioni e fino alle banche di deposito che attiravano i capitali, pianificavano in una certa misura e investivano in settori che non interessavano la borghesia. Oltre all'istruzione e quindi alla formazione dei futuri sfruttati, lo Stato si è fatto carico della copertura dei lavoratori contro la malattia e la vecchiaia.

È questo statalismo che è diventato il modello che gli stalinisti hanno presentato come surrogato del socialismo. Tutte le varianti del riformismo hanno fatto propria questa visione della società come unica alternativa al "capitalismo sfrenato". In Francia, mentre il principale partito radicato nella classe operaia, il PCF, spingeva i suoi militanti a subentrare ai capisquadra che cercavano di "far sudare" i lavoratori, la borghesia continuava ad arricchirsi all'ombra dello Stato, prima di sentirsi abbastanza forte da spingere alla privatizzazione di settori un tempo nazionalizzati.

Dietro ogni borghesia nazionale, il suo stato nazionale, e dietro gli stati nazionali, gli Stati Uniti, il dollaro, la loro potenza economica e militare: ecco intorno a quale asse la borghesia imperialista ha consolidato la sua posizione di classe dirigente e strutturato l'ordine interna­zionale.

Non c'è bisogno di tornare qui al mito di un capitalismo libero dalle grandi crisi, che ha dominato la visione del mondo durante qualche anno di crescita economica, tra la fine della ricostruzione e il nuovo periodo di crisi iniziato all'alba degli anni Settanta. Questo mito è affondato con la crisi del sistema monetario internazionale, la crisi petrolifera, seguita da innumerevoli scossoni.

Iniziò quindi questo lungo periodo segnato ovunque da una multiforme offensiva della borghesia contro il proletariato, dalla riduzione della quota dei salariati nel reddito nazionale rispetto a quella dei capitalisti, dal declino della condizione dei lavoratori. Per quanto riguarda la distribuzione tra i borghesi del plusvalore globale ricavato dalla classe operaia, essa è stata segnata dalla crescita della finanza e dei suoi prelievi.

L'attuale crisi economica si colloca in questa continuità, ma va anche oltre, amplificando l'aggravamento della condizione della classe operaia e la finanziarizzazione dell'economia.

La crisi attuale e i trucchi della borghesia per superarla

"Le banche centrali, l'ultimo baluardo dell'eco­nomia mondiale", era il titolo di Le Monde del 29 aprile 2020, con il sottotitolo: "La banca centrale giapponese, la BCE e la Fed ... stanno intrapren­dendo programmi di sostegno all'economia, prendendo decisioni prima impensabili".

Gli Stati imperialisti si sono imbarcati, uno dopo l'altro, nell'aiutare le imprese capitaliste "a qualsiasi costo", ha detto Macron, senza necessa­riamente passare attraverso nazionalizzazioni, seppur temporanee (questo può ancora accadere in alcuni casi). Il denaro viene distribuito direttamente alle imprese capitaliste private.

Sotto il titolo "Imprese SOS", Le Figaro del 27 aprile riassume a modo suo ciò che sta accadendo: "Vittime collaterali del virus, migliaia di aziende sono anche loro sotto assistenza respiratoria. È lo Stato che garantisce le loro liquidità e si incarica dei loro dipendenti".

Non dimentichiamo che i dipendenti non sono realmente sostenuti, in quanto non ricevono il loro stipendio pieno. Da un punto di vista capitalistico, questa affermazione è assolutamente corretta. Ma se lo Stato si sostituisce ai capitalisti, sia per prendersi cura dei loro dipendenti che per garantire le loro liquidità, a cosa servono i capita­listi, anche da un punto di vista capitalistico? Questa singola frase di Le Figaro sottolinea il carattere totalmente parassitario della borghesia.

Ciò non impedisce ad alcuni dei suoi portavoce di lamentarsi. Un editorialista di Les Échos, sotto il titolo "Covid-19: come salvare le nostre aziende dal fallimento", riassume nel sottotitolo: "Come in ogni crisi, le aziende ricorreranno alla leva del debito. Ma quello di cui hanno bisogno è un capitale proprio. È giunto il momento di creare uno strumento pubblico adeguato per fornirlo". Ed aggiunge: "Nell'arsenale del governo manca un'arma decisiva. Per salvare la nostra economia, abbiamo bisogno di uno strumento pubblico per investire in capitali propri in tutte le aziende che ne avessero bisogno. Una rivoluzione?" si chiede. Per aggiungere: "Certo, ma non si tratta di collettivizzazione". È come dire in sostanza: "Prestarci del denaro non è sufficiente, bisogna darcelo", oppure: "lo Stato non deve solo pagare i salari dei nostri lavoratori e i nostri debiti, ma anche garantirci direttamente i dividendi che ci spettano".

Dietro questa presunzione cinica si cela una preoccupazione: quella di una borghesia media di un paese imperialista assolutamente medio di fronte alla prospettiva economica che sta prendendo forma. Alla base di questa preoccupazione c'è proprio il fatto che la politica di salvataggio del capitalismo in crisi attraverso il credito e l'indebitamento sta portando ad un ulteriore rafforzamento della finanza e del suo ruolo. "Sarà impossibile ripristinare rapidamente un sistema produttivo privo di fondi e gravato da debiti", continua a gemere l’editorialista di Les Échos, che evoca le "molteplici acquisizioni nei tribunali da parte di chi sarà riuscito a superare la crisi" o le "ondate di acquisizioni di aziende da parte dei fondi di investimento". Dietro "lo Stato come salvatore del capitalismo" appare la minaccia delle banche e degli hedge fund, che spazzeranno via senza pietà le aziende private che non avranno possibilità di resistere.

Chi finanzierà... la finanza?

Le banche centrali producono a volontà moneta virtuale che usano per riacquistare il debito pubblico, i titoli di Stato. Questa procedura non è nuova: fu così che la borghesia imperialista superò la crisi del 2008. Le Monde osserva: "Nel 2007, il bilancio delle tre principali banche centrali del mondo - la Federal Reserve (Fed) degli Stati Uniti, la BCE [nell'Unione Europea] e la Banca del Giappone - è stato di 3,4 trilioni di dollari. Nel febbraio 2020, ancora prima della pandemia, ha raggiunto i 14,6 trilioni di dollari. E questo è solo l'inizio". La crescita di queste cifre è un'indicazione del crescente volume di credito esteso alle imprese capitaliste attraverso i loro stati. È necessario ricordare come, dopo la crisi finanziaria del 2008 e la minaccia di un diffuso collasso bancario, tutti i governi si sono impegnati a limitare e regolare l'eccessiva produzione di credito (e quindi di debito)?

Ma non appena l'allarme è passato, spazzando via delle banche delle dimensioni di Lehman Brothers, la sarabanda è ricominciata..

Solo quest'anno si prevede che le somme iscritte al bilancio aumenteranno di altri due terzi. Ma queste somme, che oltrepassano ogni immagi­nazione, saranno assorbite dai gruppi finanziari più potenti, cioè quelli che hanno il potere di concedere prestiti agli Stati. Questi titoli possono essere acquistati, venduti, rielaborati e trasformati in quelli che chiamano prodotti finanziari.

Ma chi ripagherà questa montagna di debiti che gli Stati stanno accumulando? Di colpo, per i dirigenti di questo mondo che, fino all'attuale crisi, predicavano a gran voce che i debiti dovevano essere rimborsati - ricordiamo che è in nome del debito che le classi lavoratrici di un paese come la Grecia sono state pressurizzate e le loro condizioni di vita demolite - la questione è diventata secondaria.

Alcuni parlano di debiti ripartiti su 50 o addirittura 100 anni. Altri prevedono addirittura un debito perpetuo, che cioè il debitore non dovrà mai ripagare. Alcuni dei più importanti economisti stanno risolvendo il problema del debito negandone persino l'esistenza. "È la moneta che finanzia la crisi, non il debito", dice Patrick Artus, capo economista di Natixis, in un'intervista a Le Monde.

L'idea del debito perpetuo non è veramente nuova, almeno non nella sostanza. Il processo con cui il governo prende in prestito per ripagare un vecchio debito trasformandolo in uno nuovo non è una novità. Ma il debito perpetuo sarebbe l'affermazione ufficiale che ciò che conta per i creditori è soprattutto ricevere una rendita. Se le date di scadenza sono lontane, 20 o 30 anni, è meno importante restituire la somma prestata rispetto agli interessi che il creditore riceve regolarmente, che finiscono per superare di gran lunga la somma originariamente prestata. Il debito perpetuo consiste nel fornire ai creditori una rendita regolare che è anch'essa perpetua. Il motivo principale per cui questa brillante idea, emersa dai cervelli di un capitalismo in putrefazione, è difficile da mettere in pratica, è che i titoli che rappresentano questa rendita perpetua, basati sul debito pubblico, sono suscettibili di competere con la moltitudine di altri prodotti finanziari. Sebbene questi prodotti siano virtuali, essi e i loro proprietari -reali- sono comunque in competizione tra loro. Tutto questo sviluppo, che lega sempre più spesso finanziatori e Stati, non elimina la concorrenza, anzi.

Dietro i giochi di destrezza del vocabolario, c'è la sostanza: dobbiamo ancora finanziare il paga­mento di questa rendita, cioè prendere dalla popolazione ciò che serve per mantenere il paras­sitismo della finanza.

Il pagamento degli interessi sta già assorbendo una quota crescente della spesa pubblica. Anche in questo caso si tratta di un'evoluzione fonda­mentale: il capitalismo sopravvive liberandosi in parte sullo Stato, al contempo ufficiale giudiziario e scagnozzo che fa il suo sporco lavoro, del fastidio e delle difficoltà dello sfruttamento diretto.

Tutte le crisi finiscono per cambiare l'equilibrio di potere tra i capitalisti. Si tratta anzi della funzione fondamentale della crisi nell'economia capitalista: ripristinare l'equilibrio tra produzione e domanda solvibile. Ripristinarla a posteriori, quando la produzione si è svolta nell'anarchia delle singole iniziative.

È nelle crisi che i rami malati dell'economia vengono tagliati fuori. Sono le crisi che stabiliscono il nuovo equilibrio di potere tra i capitalisti, è nelle crisi che i più potenti distrug­gono o divorano gli altri, che si realizzano le concentrazioni di capitale, cioè la concentrazione della ricchezza e dei mezzi per produrla in sempre meno mani.

Anche la crisi attuale svolge questo ruolo. La ricomposizione tra i diversi settori dell'attività economica si sta svolgendo in questo momento. Sia il turismo che le imprese di spettacolo stanno crollando. E molte aziende di questi settori non si riprenderanno.

Anche dopo due mesi di inattività, non sarà giusto considerare l'aviazione civile come un settore morto – tanto più che le aziende nazionali sono tra i principali beneficiari degli aiuti di Stato - come il settore automobilistico nel suo complesso. Ma questo non risolve la questione di chi sopravviverà e chi non sopravviverà. Delle aziende scompariranno, tuttavia, sia tra le compagnie aeree che tra i costruttori di aerei, e ancora di più tra i loro subappaltatori.

Altri settori, invece, in particolare quelli delle nuove tecnologie, i Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft), stanno vivendo un'ascesa fulminea, come i giganti della distri­buzione.

Ancora più importante, la crisi sta accentuando il predominio del settore finanziario sul settore produttivo. Ma dietro questi due modi di attingere al plusvalore globale derivante dallo sfruttamento dei lavoratori, c'è la stessa grande borghesia, le sue vette più ricche e potenti. Mentre la crisi attuale spinge la classe operaia in una crescente povertà e minaccia di rovinare la piccola e media borghesia, le grandi fortune continuano a crescere e le contraddizioni di classe si approfondiscono.

L'Unione Europea in implosione

Se questo sviluppo, cioè questo ruolo di ultimo baluardo dell'economia mondiale, vale per le tre grandi banche centrali - a cui si aggiungono la Banca d'Inghilterra e, con minori possibilità, la Banca centrale svizzera - la Banca centrale europea ha una particolarità in quanto, dietro di essa, non c'è un solo Stato, ma tutti e 19 gli Stati della zona euro. Stati che sono legati da interessi comuni ma che rimangono concorrenti e rivali. Jean-Yves Le Drian, Ministro [francese, NdT] per l'Europa e gli Affari Esteri, ha spiegato perché tutti i negoziati all'interno dell'Unione Europea stanno naufragando: "Stiamo assistendo a un allargamento delle fratture che da anni minacciano l'ordine internazionale. La pandemia è la continuazione con altri mezzi della lotta tra le potenze".

La forma concreta che assume questa lotta tra le potenze all'interno dell'Unione europea, o più precisamente all'interno della zona euro, ruota attorno alle condizioni di accesso ai mercati finanziari.

Neanche uno Stato dell'Unione Europea, nemmeno il più ricco, la Germania, ha la quantità di denaro che promette alle sue imprese capitaliste. Gli Stati intendono prendere in prestito questo denaro sui mercati finanziari. Ma con quale interesse? La recente crisi della zona euro (2010-2011) ha dimostrato che i 19 Paesi che ne fanno parte possono utilizzare la stessa valuta quando prendono prestiti sul mercato dei capitali, ma non pagano gli stessi interessi, a seconda del potere di ciascuno. Anche le potenze imperialiste medie fondatrici dell'Unione Euro­pea, come la Germania e l'Italia, non sono nella stessa barca.

L'interesse collettivo difeso dalle istituzioni di Bruxelles richiederebbe che i 19 Stati potessero contrarre prestiti collettivamente e a un tasso comune. Tuttavia, se i discorsi ufficiali ripetono più volte le parole "comune" o "collettivo", ogni paese tira dalla sua parte. L'ultimatum emesso dalla Corte costituzionale tedesca nei confronti della Banca centrale europea, intimandole di giustificare il riacquisto di determinati titoli, in particolare quelli degli Stati più poveri, è rappresentativo delle relazioni tra i paesi della zona euro. È un modo per dire che gli Stati più ricchi non devono aiutare chi è in difficoltà.

Briganti nemici incatenati alla stessa catena

La crisi non diminuisce la concorrenza, né tra grandi gruppi capitalisti né tra Stati nazionali. Per il momento, le rivalità si nascondono ancora dietro a discorsi che cantano le virtù della collaborazione. La posta in gioco di queste rivalità è, in ultima analisi, la distribuzione del plusvalore globale estorto alla classe operaia, tra le diverse categorie o le diverse fazioni capitalistiche rappresentate dai rispettivi stati nazionali. Ma tutte le lotte tra briganti per la spartizione dei loro bottini non devono far dimenticare che le vittime sono le classi sfruttate.

In altre parole, il prossimo periodo sarà segnato dall'offensiva di tutta la borghesia contro la classe operaia. La borghesia non nasconde nemmeno la sua intenzione di approfittare della pandemia per cambiare, a proprio vantaggio e a spese dei lavoratori, il rapporto di forza con la classe operaia. Prolungare l'orario di lavoro di tutti mentre ci si prepara a licenziare i lavoratori. Risparmiare ancora di più sui servizi pubblici quando hanno appena dimostrato che senza di essi la società non può funzionare. Ridurre gli aspetti sociali dello statalismo borghese, mentre lo Stato tiene spalancato il botteghino per i capitalisti.

Ciò che i portavoce ufficiali del grande padronato esprimono ancora con parole coperte, o presentandolo come temporaneo, altri, i "portatori d'acqua" della borghesia, lo formulano brutalmente. Così l'Istituto Montaigne - un nome che offende il grande filosofo del Rinascimento in Francia - ha appena presentato delle proposte per uscire dalla crisi, tra le quali spiccano le seguenti: aumentare l'orario di lavoro a 10 ore al giorno e 48 ore alla settimana; abolire la festività del giovedì dell'Ascensione; cancellare le vacanze scolastiche di Novembre.

Come può un orario di lavoro più lungo aiutare a superare la crisi? La proposta sarebbe semplicemente stupida se non ci fosse dietro l'idea che i lavoratori dovrebbero lavorare di più per guadagnare meno, in altre parole per aumentare il plusvalore preso dai loro sfruttatori.

I più prudenti servitori della borghesia criticano nei media questo tipo di proposta, detta "maldestra", quando la società non è ancora uscita dalla pandemia; mentre altri sostengono che sarebbe immorale!

Lo sfruttamento non è una questione morale, ma il fondamento della società capitalistica. Desiderare una borghesia più comprensiva nei confronti di coloro il cui sfruttamento la arricchisce è, in tempo di crisi, più stupido del solito.

Riformisti venditori di sogni e politica rivoluzionaria

Se si confronta la crisi attuale con il dopoguerra in Francia, ci sono alcuni aspetti che colpiscono. Prima di tutto, il discorso sulla "unione nazionale" ripreso da tutti i partiti della borghesia. Come direbbe un umorista, è così che si riconoscono. Almeno nei momenti di difficoltà per la borghesia, perché di solito devono distinguersi affinché gli elettori possano rinnegare il partito al potere, che governa contro di loro, votando per l'opposizione che, una volta al potere per grazia delle elezioni, farà come il suo predecessore. L'essenza del parlamentarismo borghese è lì: si va avanti, si fanno discorsi in Parlamento e lo sfruttamento continua! Cambia il partito al potere in modo che non cambi nulla.

Un'altra sorprendente somiglianza tra i due periodi: il linguaggio dei riformisti. I loro rappresentanti non sono più gli stessi, i loro legami con la classe operaia ancora meno. Alla "Liberazione", il PCF aveva un peso completamente diverso nella classe operaia rispetto ad oggi. È grazie ad esso e alla sua influenza che il generale reazionario de Gaulle ha potuto spacciarsi, non per un uomo di sinistra - non avrebbe certo voluto questa etichetta - ma per rappresentante dell'interesse nazionale, cioè anche degli interessi dei lavoratori. Tutta questa bella gente predicava che ci aspettava un futuro migliore mentre il presente era fatto di ipersfruttamento per i lavoratori, di razionamento alimentare, di alloggi di fortuna e di repressione sanguinosa per i popoli dell'Algeria, dell'Indocina e del Madagascar, per tutti quelli dell'impero coloniale. È in nome di questo futuro migliore che il PCF affermava che gli scioperi erano l'arma dei trust e che era necessario essere tutti solidali per rilanciare l'economia. È per parlare questa lingua che il PCF ha avuto dei ministri, prima di essere cacciato dal governo come i borghesi sanno cacciare via i lacchè che non sono più utili.

Laurent Berger, il segretario generale del sindacato francese CFDT, chiede ingenuamente "un'altra distribuzione della ricchezza" per affrontare la crisi, aggiungendo: "Il nostro paese dovrà mostrare molta più solidarietà che in passato". Questa supplica strapperà le lacrime a grandi capitalisti come Arnault, Bolloré, Dassault e Mulliez!

È quasi con le parole degli anni 1944-1945 che gli eredi politici degli stalinisti affermano oggi, come dimostrano alcuni volantini firmati dalla Cgt, che passa tuttavia per il più radicale dei sindacati: "Per una società più giusta, e attraverso la lotta, costruiamo nuovi giorni felici", "Inventiamo il mondo di dopo" o "Mai più, insieme costruiremo un nuovo futuro", "Per la pace, per la solidarietà nazionale, per la protezione delle popolazioni". Un linguaggio degno dei sacerdoti di qualsiasi religione: come vita futura, promettete il paradiso!

Tutta la stampa usa questo tipo di linguaggio, dipingendo di rosa l'uscita dal periodo di quarantena. Non per niente è di moda moltiplicare i riferimenti al Consiglio Nazionale della Resistenza (CNR) e al suo programma.

Ma, se le cose dipendono solo da ciò che il capitalismo ha in serbo per noi, nel futuro ci siamo già!

Minacce di licenziamenti massicci, disoccupa­zione senza precedenti si vedono anche negli Stati Uniti. Si vede un forte aumento della povertà, anche nei paesi più ricchi. Gli enti di beneficenza come la Caritas sono sopraffatti. La Emmaüs è sull'orlo del fallimento per la prima volta nella sua storia. E sono questi i paesi più ricchi del mondo!

Per quanto riguarda i paesi poveri, oltre all'aumento della povertà, c'è una crescente repressione contro i più poveri, con l'uso di manganelli e mitragliatrici in nome di una presunta guerra legittima, la guerra contro il coronavirus. E le bande armate ufficiali degli Stati, la polizia e l'esercito, si comportano, come sempre in questi paesi, ma ora più che mai, come bande criminali che ricattano la popolazione povera.

È così che il presente sta già plasmando il futuro che attende la società. Anche in questo caso, il coronavirus sarà stato solo un fattore scatenante. La carestia in Africa non è stata causata da Covid-19. La pandemia di cui sta crepando la società è la sua organizzazione sociale: questa è la realtà che tutti coloro che ci parlano di un mondo migliore dopo la crisi cercano di nascondere. Ma non ci riusciranno.

Come hanno espresso i loro portavoce sulla stampa, i possidenti temono reazioni di rivolta. "Il mondo è sull'orlo di una grande esplosione sociale", è stato il titolo di Les Échos del 22 aprile. Possiamo vederne le premesse anche in un paese imperialista ricco come la Francia, dove eppure ci sono molti ammortizzatori sociali, con il crescente numero di incidenti che mettono i giovani delle periferie popolari contro la polizia. Le vediamo anche negli Stati Uniti, non solo con scioperi ma anche con gli inquilini di alcuni quartieri di New York che rifiutano di pagare l'affitto quando, essendo stati licenziati, non hanno più risorse, nemmeno sufficienti per permettersi una protezione minima contro il coronavirus.

Nei paesi poveri è ancora peggio. "In Africa, la fame ucciderà più velocemente dell'epidemia", è stato il titolo di Les Échos del 27 aprile. I titoli della stampa nazionale riflettono una profonda preoccupazione. "Il pianeta sta cadendo in crisi sociale" (Le Monde, 22 aprile).

Il periodo a venire non è gravido di "nuovi giorni felici", ma renderà l'agonia dell'attuale organizza­zione capitalistica della società ancora più dolo­rosa per gli sfruttati.

La classe operaia dovrà difendersi. Con quali mezzi? Come? Si tratta ovviamente di una questione di rapporto di forza. Ma, nel periodo a venire, l'arroganza della borghesia sarà il più potente fattore di mobilitazione per uscire dall'ansia mista a rassegnazione che contrassegna l'attualità della maggioranza degli sfruttati. Ma ciò può cambiare bruscamente, in modo imprevedibile. Nessuno può immaginare quale sarà la provocazione della classe dirigente o dei suoi politici che creerà lo shock. I militanti rivoluzionari devono essere pronti a portare avanti la loro politica.

Ma difenderci, cioè limitarci a respingere i colpi che la borghesia e il suo stato ci assesteranno, sarà al massimo un eterno riavvio, come la corsa dello scoiattolo in gabbia. E in realtà, non è nemmeno un eterno riavvio, se non in peggio, perché si allarga sempre più il divario tra le masse sfruttate e i vertici dell'oligarchia borghese. Come cresce l'antagonismo tra le possibilità della società umana e i vincoli imposti dall'organiz­zazione capitalistica.

Da un lato, la produzione è socializzata su scala internazionale in misura infinitamente maggiore rispetto all'epoca di Marx e persino di Lenin e Trotsky; ma, dall'altro, rimane dominata dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e dalla rivalità tra Stati nazionali. Lo sviluppo sociale richiede profondi cambiamenti per rompere questa camicia di forza, cioè per rovesciare il potere della borghesia e mettere i mezzi di produzione a disposizione della collettività. Se la società non può progredire lungo le linee di forza del suo sviluppo, regredirà.

Ciò che non è cambiato da Marx, e che è stato confermato nel corso della storia, è che l'unica forza sociale che può portare a questo sconvolgimento rivoluzionario è la classe operaia.

Per questo motivo, per quanto enorme possa apparire oggi il divario tra il potere della dittatura della borghesia sulla società e i mezzi della corrente rivoluzionaria della classe operaia, non c'è altra scelta per il futuro che lavorare per rendere i lavoratori consapevoli dei loro interessi politici fondamentali, cioè del loro ruolo nel futuro della società umana, e per far sì che sempre più donne, uomini e lavoratori si organizzino su questa base.

Questo inizia nelle teste, nelle coscienze. Rifiutare qualsiasi forma di unità o di concordia nazionale, perché significano necessariamente l'abdicazione degli sfruttati di fronte ai loro sfruttatori. Non seguire più i ciarlatani o i venditori di illusioni. Prendere coscienza del fatto che, nonostante il suo attuale disorientamento politico, la classe operaia continua a rappresentare una forza considerevole, qui e a livello internazionale.

Le crisi sono potenti acceleratori della storia umana. La crisi attuale accelererà e aggraverà le lotte sociali. Possono manifestarsi in rivolte, in sommosse. Se queste rimangono senza prospet­tive, possono girare a vuoto e portare solo a un aggravamento del caos sociale.

L'unica altra prospettiva è quella incarnata dal proletariato, cioè il rovesciamento del capitalismo morente e la presa del potere da parte della classe operaia. Un'organizzazione sociale, anche in agonia, può sopravvivere se un'altra non è in grado di prendere il suo posto per permettere all'umanità di tornare sulla via del progresso. In altre parole, il regno della borghesia scomparirà solo se il suo potere sarà rovesciato dal proletariato. Il futuro dell'umanità dipende dalla capacità del proletariato di ritrovare la sua coscienza di classe e dalla sua volontà di riprendere la lotta per porre fine all'organizzazione capitalistica della società. E chi dice coscienza dice partito per incarnarla. Avanzare nella sua costruzione è il compito inevitabile e più immediato.

8 maggio 2020