Crisi economica mondiale - La deregolamentazione finanziaria: la causa della crisi o la sua conseguenza?

Da “Lutte de classe” n° 142 – Marzo 2012

"La crisi (…) determina per le masse privazioni e sofferenze sempre più grandi. La disoccupazione crescente , a sua volta, approfondisce la crisi finanziaria dello Stato e mina sistemi sconvolti monetari. I governi (…) passano da una bancarotta all'altra. La borghesia stessa non vede nessuna via d'uscita. (…) Nei paesi storicamente privilegiati, cioè quelli in cui può ancora permettersi, per un certo tempo, il lusso della democrazia grazie all'accumulazione nazionale precedente (Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, ecc.), tutti i partiti tradizionali del capitale si trovano in una situazione di confusione che confina, a volte, con una paralisi della volontà"

Non si direbbe che queste linee siano state redatte oggi, a commento dell'attualità ogni giorno più drammatica della crisi che si approfondisce? In realtà, sono di oltre settanta anni fa. Sono estratte dal Programma di transizione, steso da Lev Trotsky nel 1938, quando alla vigilia della seconda guerra mondiale il mondo capitalista era sconvolto dalle conseguenze della crisi del 1929.

Oggi, se il commento è lo stesso, la causa lo è altrettanto: sono le contraddizioni inerenti al sistema capitalista stesso che hanno condotto alla situazione di crisi acuta che stiamo vivendo. Ma esiste una differenza considerevole tra la situazione degli anni trenta e quella odierna: è lo sviluppo senza precedenti della finanza e il posto che prende nell'economia capitalista.

Oggigiorno la finanza e gli scambi che essa genera hanno nell'economia mondiale un peso senza paragone con quello della produzione di merci. Una cifra permette di convincersene: nel 2008, gli scambi mondiali di merci e di servizi sono ammontati a 19.500 miliardi di dollari. Durante lo stesso periodo le transazioni sui mercati finanziari raggiungevano la somma di 3,6 milioni di miliardi di dollari, cioè una cifra 200 volte superiore.

Capitalismo e speculazione

La speculazione finanziaria quindi svolge un ruolo centrale nell'economia capitalista attuale e le somme che vi sono impegnate sono inimmaginabili. Questo ha portato in questi anni un certo numero di correnti politiche a puntare il dito verso gli "speculatori", come soli responsabili della crisi, e verso la "deregolamentazione", cioè tutte le misure che hanno consentito alla speculazione finanziaria di svilupparsi senza ostacolo, come causa di tutti i mali di cui soffre l'economia mondiale. Nello stesso modo la campagna dell'elezione presidenziale del 2012 in Francia è stata segnata da un certo numero di dichiarazioni dei candidati, sia di destra che di sinistra, per denunciare (a parole) "la finanza".

È un'assurdità. Innanzi tutto perché, come si vedrà, non è giusto operare una distinzione artificiale tra i capitalisti "speculatori" e i capitalisti "produttivi": sono gli stessi. Nel sistema capitalista, sin dalle sue origini, il denaro circola e si dirige quasi automaticamente verso i settori i cui profitti sono più interessanti. Le somme che sono investite oggi nella speculazione non cadono dal cielo: vengono dall'economia produttiva.

E poi, fare della deregolamentazione la causa della crisi e concludere logicamente che per uscirne ci vuole una nuova "regolamentazione”, equivale ad ignorare le cause profonde della crisi, che sono da ricercare nelle contraddizioni del sistema stesso, e non in questa o quella decisione dei suoi amministratori politici. Se la deregolamentazione è in effetti una realtà, ciò non significa che risulti dalla sola volontà di dirigenti politici liberali o "ultra-liberali", che siano di sinistra o di destra. Occorre ricordarlo? Nell'ambito di un apparato di Stato borghese e del sistema capitalista, sono in ultima analisi i capitalisti che dirigono, e i politici sono solo i loro commessi. Coloro che hanno attuato la deregolamentazione l'hanno fatto a comando, perché ciò corrispondeva alle necessità della classe capitalista a un certo momento. Qui sta una delle nostre divergenze fondamentali con le correnti altermondialiste, o con alcuni "indignati" odierni che pensano che si possa cambiare il mondo con buone leggi, il che è la definizione stessa del riformismo.

Per quanto ci riguarda, non crediamo che i politici borghesi siano capaci di cambiare la società. Forse si assisterà in questi anni ad una nuova ondata di regolamentazione, perché occorrerà provare a mantenere a galla una barca che fa acqua da tutte le parti. Turare le falle forse ritarderà un po' il naufragio, ma non lo impedirà.

Rimane il fatto che in effetti c'è stato tutto uno periodo di deregolamentazione, che ha facilitato l'esplosione della speculazione, anche al punto di renderla incontrollabile e di farne un elemento aggravante della crisi. Come apprendisti stregoni, i governanti che hanno allentato la briglia agli speculatori hanno liberato forze che oggi nessuno sembra più in grado di arrestare.

La speculazione, cioè tutte le operazioni che consistono nell'investire denaro nell'acquisto di un prodotto, finanziario o merce, con l'unico obiettivo di rivenderlo più tardi con un profitto, è quindi oggi un settore che tratta molto più capitali che non la produzione di merci. Questo dato di fatto non significa però che la speculazione sia una novità nella società capitalista.

La speculazione, cioè lo scommettere sull'aumento o il calo del prezzo di un prodotto, è vecchia come il capitalismo: la prima crisi importante legata alla speculazione risale all'anno 1637 in Olanda. Fu l'anno in cui scoppiò una bolla speculativa formatasi intorno… ai bulbi di tulipani. Apparve allora per la prima volta, o almeno la prima volta registrata negli annali della storia economica, questo fenomeno strano di una speculazione completamente irrazionale, in cui ogni partecipante fa scommesse in funzione delle voci, delle scommesse degli altri, in cui rialzi e ribassi si alimentano a vicenda e alla fine non hanno più alcun minimo rapporto con la realtà. Basti dire che un solo ridicolo bulbo di tulipano, poco prima del crac del 1637, raggiungeva il prezzo di due case, o di quindici anni di salario di un artigiano!

La speculazione finanziaria e la formazione di bolle speculative sulle merci più diverse non sono quindi una novità. Ma, più in generale, il capitalismo nel suo complesso, a cominciare dal processo di produzione, poggia completamente su un approccio "speculativo". Tutta la produzione capitalista è fatta non in funzione delle necessità accertate, ma in funzione della speranza nutrita da ogni capitalista di potere vendere sul mercato le merci che avrà fatto produrre. Si tratta di una speculazione, cioè di una scommessa. Se la scommessa è vincente il capitalista vende le sue merci e si arricchisce; se è perdente egli si ritrova con scorte di merci invendute a proprio carico.

Quanto alla speculazione finanziaria stessa, in particolare con il gioco della vendita e dell'acquisto delle azioni in borsa, fa anche parte del funzionamento normale del sistema: dal momento in cui, tramite la vendita, la merce si trasforma in denaro, una parte di questo denaro sarà utilizzata per transazioni finanziarie, o sarà diretta verso banche dove sarà trasformata in capitale da prestito. Il fatto che una parte del plusvalore servisse a ciò, cioè che "il denaro fabbrica del denaro come il pero fabbrica delle pere", era già sottolineato da Marx nel suo "Capitale” di 150 anni fa.

Ma il fatto che la speculazione esiste dagli inizi del capitalismo non deve fare dimenticare che questo sistema resta soprattutto basato sulla produzione di merci, poiché è nel corso di questo processo di produzione che valori nuovi, ricchezze, vengono creati. Una volta create, queste ricchezze circoleranno, sia nella produzione, sia in operazioni finanziarie. Ciò che è relativamente nuovo oggi è, appunto, la quantità di capitali assorbiti in queste operazioni finanziarie e il peso preso dalla finanza nell'economia capitalista.

Sotto molti aspetti, oggi questa ipertrofia della finanza oscura il modo di funzionamento reale del capitalismo: un'analisi superficiale dell'economia moderna può dare l'impressione, visto le quantità di denaro che si riversano nella finanza, che sia lì che si creano le ricchezze. Ma è un'illusione ottica. Il capitalismo divorato dalla finanziarizzazione assomiglia per molti aspetti ad un organismo divorato dal cancro. Il cancro certamente demolisce tutto il funzionamento del corpo e lo può anche uccidere; ma così come un organismo, anche canceroso, ha bisogno di prodotti alimentari e d'ossigeno per sopravvivere, il capitalismo, anche divorato dalla finanza, ha bisogno di creare merci nella produzione per fare plusvalore, cioè per creare valore.

Dalla crisi del 1929 agli anni settanta: la regolamentazione…al servizio dei capitalisti

Le correnti politiche che invocano i "trenta anni di prosperità" del dopoguerra, come l'età d'oro della regolamentazione, dimenticano piuttosto rapidamente che questo periodo fu solo una breve parentesi nella storia del capitalismo del Novecento. Questo sistema in realtà sopporta male la regolamentazione, e ai borghesi non piace tanto che gli Stati vengano a mettere il naso nei loro affari, se non per fornire loro sovvenzioni o varare leggi che gli fanno comodo.

La prima guerra mondiale ha imposto la necessità di disciplinare un po' l'anarchia capitalista per poter condurre lo sforzo collettivo della produzione di guerra. Con la fine della guerra, tornò la "libertà" dei capitalisti di fare ciò che volevano… ed essa portò direttamente alla crisi del 1929. Questa crisi, la cui responsabilità fu in parte attribuita ai finanzieri - a torto o a ragione, ma è un'altra questione - ha condotto gli Stati a provare a tarpare un po' le ali agli speculatori. A seguito del crac borsistico del 1929 e della crisi bancaria del 1932, l'amministrazione americana varò un certo numero di leggi che miravano ad impedire alle banche di giocare troppi soldi e soprattutto di rischiare di perdere i soldi dei risparmiatori e delle piccole imprese. Ciò si concretizzò in particolare nella legge Glass-Steagall del 1933, che introdusse una decisione importante: le banche commerciali, cioè quelle che raccolgono i depositi dei privati, ormai non avevano più il diritto di intervenire sui mercati finanziari. Questa attività era d'ora in poi riservata alle sole banche d'affari, che gestivano i fondi portati da alcuni grandi investitori. Questa legge sarebbe stata poi discussa e ridiscussa nei decenni successivi, fino a quando la pressione dei banchieri la fece abolire, si vedrà in quali circostanze.

Fu dunque tra la crisi del 1929 e la metà degli anni sessanta che si instaurò un periodo di regolamentazione dell'economia e della finanza, senza che fosse fonte di grandi disagi per i capitalisti, poiché la ricostruzione delle economie distrutte dalla crisi e dalla guerra mondiale aveva aperto un campo gigantesco agli investimenti produttivi. L'intervento massiccio degli Stati nell'economia, durante tutto questo periodo, non ebbe l'obiettivo di sopprimere i profitti privati, ma al contrario di aiutarli a prosperare: i capitalisti, di propria iniziativa, non avevano voglia di investire in ciò che pure era necessario anche a loro nei settori chiave della ricostruzione: energia, trasporti, ecc. Gli Stati quindi si assunsero gli investimenti, o diedero consistenti aiuti in denaro agli industriali per spingerli ad investire. Quanto alle banche, avevano allora molto interesse a prestare in maniera massiccia agli stessi industriali per finanziare questi investimenti, prestiti che erano comunque garantiti dagli Stati.

L' epoca del dopoguerra fu un periodo di regolamentazione rigorosa: i tassi d'interesse, i prezzi, i movimenti di capitali, erano allora strettamente controllati dagli Stati, non per ostilità alla borghesia, ma al contrario perché questa aveva bisogno di denaro a buon mercato, e solo il controllo degli Stati poteva consentire di limitare i movimenti speculativi sui tassi d'interesse. La regolamentazione, il controllo dei cambi e dei movimenti di capitali, ben lungi dall'essere "la strada della servitù" che denunciava allora il particolarmente stupido economista Friedrich von Hayek, rese possibile l'esplosione dei profitti. Ma fin dal momento in cui, tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta, i tassi di profitto cominciarono a diminuire nell'industria, le masse enormi di capitali generate dalla ricostruzione cercarono altri settori più redditizi in cui furono investiti.

Gli anni settanta e ottanta: dagli eurodollari alla crisi

Dal dopo-guerra in poi, con gli accordi di Bretton-Woods del 1944, uno degli elementi che avevano permesso la stabilità monetaria era stato la decisione di fare del dollaro la valuta internazionale di riferimento: il valore del dollaro era garantito dalle quantità d'oro in possesso dello Stato americano, e quello delle altre valute era basato sul dollaro. Essendo l'oro una materia prima la cui quantità non è sottoposta a variazioni repentine, tale sistema consentiva una stabilità relativa del corso delle valute. Come scrisse l'economista François Chesnais, “Collegare il dollaro all'oro permetteva a quest'ultimo di fungere alla meno peggio da base ad un sistema finanziario e monetario internazionale, che comporta l'esistenza di autorità statali munite di strumenti che permettono loro di controllare la creazione di credito e di garantire una certa subordinazione degli istituti finanziari alle necessità dell'investimento industriale".

La situazione cambiò alla fine degli anni sessanta, mentre già gli Stati Uniti si confrontavano con l'esplosione dei loro disavanzi di bilancio. In particolare, per colmare l'abisso finanziario dovuto alla guerra del Vietnam, lo Stato americano cominciò a creare sempre più moneta, causando un afflusso considerevole di dollari negli altri paesi. Ma questi paesi, poiché ce n'era la possibilità, esigevano che questi dollari fossero scambiati contro oro, il che secondo un economista minacciava "di svuotare le riserve di Fort - Knox" (il bunker dove è conservato l'oro degli Stati Uniti)… che comunque non sarebbero state sufficienti. Fu questa situazione a spingere il governo americano, nell'agosto del 1971, a decretare la fine della convertibilità del dollaro in oro. I cambi diventarono allora fluttuanti: ormai privi da qualsiasi riferimento all'oro, i valori reciproci delle monete furono determinati solo dall'offerta e dalla domanda, cioè dal mercato. Questa decisione stava per aprire un vasto campo alla speculazione sulle valute.

Il capitalismo era al tempo stesso di fronte ad un altro problema: dal 1960 era cominciata una lenta decrescita dei tassi di profitto industriali che rendeva gli investimenti nell'industria sempre meno interessanti. I capitalisti cercarono altri settori per investire i capitali e guardarono dalle parti dei mercati finanziari, che promettevano profitti più importanti e più rapidi. Molti si volsero allora verso la piazza finanziaria di Londra, dove negli anni cinquanta una specie di mercato parallelo aveva cominciato a svilupparsi: quello degli eurodollari.

Di che si trattava? Il problema era, per le banche americane, di provare a sfuggire alla regolamentazione derivata dalla crisi del 1929, che imponeva loro in particolare di prestare denaro solo dal momento che possedevano una data quantità di fondi propri, quantità fissata dalla banca centrale. Questo obbligo valeva solo per le transazioni effettuate tra le banche e i loro rispettivi Stati e nella loro valuta. Ma in Gran Bretagna si era creato un mercato creditizio nel quale tutte le transazioni erano effettuate con un accordo reciproco tra le banche, senza che lo Stato vi mettesse il naso, "un deposito di dollari che permette di fare prestiti in dollari senza passare per il territorio americano" (Alternatives économiques n° 174, ottobre 1999). Su questo mercato non c'era più riserva obbligatoria per le banche e non più controllo sui movimenti di capitali. Le banche americane prestavano dollari alle banche britanniche, che si affrettavano a prestarli di nuovo a tutti coloro che ne avevano bisogno, ad un tasso d'interesse superiore, e in particolare ai paesi in via di sviluppo. Poco a poco, non solo le banche ma anche le grandi imprese industriali americane cominciarono a piazzare i loro fondi di tesoreria a Londra, in modo che le banche londinesi li trasformassero in capitale da prestito.

Fuori dallo sguardo degli Stati - o meglio, approfittando del fatto che essi avevano scelto di non guardare - si costituì rapidamente un mercato gigantesco che l'economista Henri Bourguinat chiama "un enorme mercato di grande duty free", cioè fuori dogana. Nel 1960, questi euromercati rappresentavano la somma irrisoria di 4,5 miliardi di dollari. Ma nel 1970, "l'importo dei dollari offshore disponibili sul mercato dei cambi per la speculazione superava già quello delle riserve delle banche centrali".

Nello stesso periodo, cioè all'inizio degli anni settanta, apparve una nuova fonte enorme di liquidità da piazzare, con i cosiddetti petrodollari. Di fronte alla domanda crescente di petrolio dovuta all'esplosione della produzione di automobili, gli industriali del ramo petrolifero, poco desiderosi di investire in maniera massiccia nella ricerca di nuove risorse, scelsero al contrario di ridurre la produzione per fare aumentare i prezzi. L'aumento vertiginoso del prezzo del petrolio generò una massa considerevole di denaro… precisamente nel momento in cui la crisi rendeva poco proficui gli investimenti nella produzione. I petrodollari quindi andarono anche loro ad alimentare i circuiti della speculazione finanziaria.

La crescita con l'indebitamento

Nel frattempo era scoppiata la crisi economica del 1973, che prese avvio come tutte le crisi di sovrapproduzione del capitalismo, ma ebbe conseguenze un po' diverse da quelle del passato.

Da un lato, provocò come tutte le crisi un'esplosione della disoccupazione e una politica brutale "di controllo salariale" da parte del padronato, che intendeva recuperare sulla produttività e i salari ciò che la crisi gli costava. Siamo nel cuore di una delle contraddizioni essenziali del sistema capitalista. Per fare profitto, i capitalisti hanno bisogno di due condizioni: creare plusvalore tramite l'aumento dello sfruttamento dei lavoratori, cosa che presuppone di pesare al ribasso sui salari; ma d'altra parte realizzare questo plusvalore tramite la vendita delle loro merci presuppone un minimo di potere d'acquisto per i lavoratori. Più si abbassano i salari, in modo relativo o assoluto, più la disoccupazione è elevata, e più il potere d'acquisto si abbassa, cosa che riduce le capacità dei capitalisti di smaltire le loro merci… e quindi di realizzare il plusvalore ottenuto dal ribasso dei salari.

Il rimedio trovato a questa situazione apparentemente insolubile fu ciò che fu chiamato "la crescita con l'indebitamento". Poiché il potere d'acquisto diminuiva – compreso quello degli Stati, a causa della diminuzione dei ricavi fiscali dovuta all'aumento della disoccupazione – la soluzione era di chiedere denaro alle banche. Tanto più che negli anni precedenti, come si è detto, c'era stata una crescita gigantesca degli importi di denaro disponibile. Si vide dunque all'inizio degli anni ottanta una vera esplosione del credito, tanto del credito al consumo per le famiglie quanto del credito agli Stati. Le banche, dopo avere indebitato i paesi del terzo mondo negli anni settanta a colpi di eurodollari, fino a portarli sull’orlo del fallimento, avevano ormai sbocchi illimitati per "attaccarsi" ai paesi sviluppati, che si lasciarono "attaccare" aprendo le braccia e, più prosaicamente, ponendo fine a tutte le regolamentazioni che permettevano di limitare un po' la rapacità dei finanzieri. In altre parole: la deregolamentazione che cominciò allora fu una decisione che mirava ad offrire sbocchi ai capitali di una classe capitalista che non trovava più un interesse sufficiente a fare investimenti produttivi. I capitalisti non mancarono l'occasione: mentre nel 1980 il debito dello Stato francese era inferiore a 100 miliardi di euro (in euro costanti), esso supera oggi 1.600 miliardi.

Per rendere possibile tale situazione, gli Stati dovettero mettere tutti i loro mezzi a disposizione dei capitalisti per permettere loro di arricchirsi in modo favoloso grazie alla speculazione. Tutti gli argini istituiti dopo la crisi del 1929 furono abbattuti. L'elenco di tutte le misure di deregolamentazione decise dai governi sarebbe troppo lungo, ma se ne possono citare alcune: negli Stati Uniti, la decisione brutale della banca federale, nel 1979, di aumentare i tassi d'interesse, che furono rapidamente moltiplicati per tre, poi per quattro, precipitò verso il fallimento i paesi del terzo mondo che avevano preso prestiti in dollari. Sempre nel 1979, ci fu l'abolizione completa del controllo dei cambi in Gran Bretagna. Durante tutta la prima metà degli anni ottanta, negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna, ci fu la soppressione progressiva di tutte le misure di controllo e di regolamentazione dei prezzi dei servizi bancari, cioè i tassi d'interesse. Finora esclusivamente decisi dalle banche centrali, i tassi d'interesse dei nuovi prodotti finanziari inventati dai finanzieri di Wall Street e della City diventavano liberi. E allo stesso tempo, le barriere che impedivano più o meno il movimento dei capitali speculativi tra i vari paesi furono soppresse. Gli Stati adottarono gli uni dopo gli altri misure che consentivano ai detentori di valute estere di speculare liberamente sui loro mercati. Contemporaneamente eliminavano le barriere tra i vari settori della finanza o i vari mercati che prima erano separati (assicurazioni, materie prime, valute, ecc).

Una delle ultime vestigia della regolamentazione finanziaria fu abbattuta il 12 novembre 1999, sotto l'amministrazione Clinton: il Glass-Steagall Act, che già era sempre meno rispettato nei fatti, fu abrogato dal Senato americano per rendere legale la fusione tra la banca Citicorp e la società d'assicurazione Travelers Group.

In Francia, da sinistra a destra, una stessa politica

Non bisogna credere che solo gli Stati americano e britannico avessero proceduto a questa deregolamentazione massiccia: poiché corrispondeva alle necessità di una classe capitalista da tempo divenuta mondiale, tutti i paesi industrializzati fecero allo stesso modo, in particolare la Francia. Uno dei primi regali ai banchieri fu fatto dal presidente Pompidou e dal suo ministro dell'economia Giscard d'Estaing, con la legge del 3 gennaio 1973. L'articolo 25 di questa legge prevedeva che lo Stato non avesse più il diritto di prendere denaro in prestito direttamente dalla Banque de France… il che lo costrinse poi a rivolgersi alle banche private per finanziare il suo debito. Non occorre certamente esagerare la portata di questa legge, come fa oggi il movimento altermondialista, per il quale la legge del 1973 sarebbe la causa di tutti i problemi attuali. Ma fu incontestabilmente per le banche private una bella opportunità, fosse solo perché, da quel momento, le banche private ebbero la possibilità di prendere denaro in prestito a tasso molto basso presso le banche centrali, e di prestarlo immediatamente agli Stati a tassi ben superiori!

Segnaliamo che da quest'epoca data anche l'obbligo per i datori di lavoro di pagare i salari tramite assegni o accrediti e non in contanti, mettendo così la massa dei salari a disposizione dei banchieri.

Ma il vero inizio della deregolamentazione finanziaria fu avviato sotto gli auspici dei governi socialisti dell'inizio degli anni ottanta. La nazionalizzazione di un certo numero di grandi banche francesi sotto Mitterrand (Crédit commercial de France, BNP, Suez e Paribas), lungi dall'essere un'operazione sfavorevole ai banchieri, al contrario ha permesso che fosse sotto l'egida dello Stato, e a sue spese, che si operò la riorganizzazione del sistema bancario francese: l'ammodernamento informatico, indispensabile per alzarsi allo stesso livello dei grandi, fu realizzato con il denaro pubblico. Le banche nazionalizzate furono fortemente concentrate, mentre nel 1984 la "legge bancaria" di Delors poneva fine all'equivalente del Glass-Steagall Act in Francia, la legge che separava le banche d'affari dalle banche di deposito.

È istruttivo leggere queste linee tratte da una storia del sistema bancario pubblicata dalla Federazione delle banche francesi: "il mondo della banca era (prima) suddiviso in compartimenti, regolamentato. (…) La legge bancaria del 1984 (…) fu il punto di partenza di un movimento continuo d'apertura del credito e di deregolamentazione del sistema bancario. (…) L'influenza esercitata dallo Stato non impedì al paesaggio bancario di evolvere: le grandi banche si avvicinarono alle società di assicurazioni, le più potenti di esse costituirono gruppi finanziari complessi, e proseguirono i loro sforzi di radicamento all'estero."

Due anni dopo, la seconda legge bancaria varata dal "socialista" Bérégovoy completò il lavoro, in particolare con l'eliminare il monopolio della Banque de France sulla fissazione dei tassi d'interesse e creando un quadro giuridico unico per tutti gli istituti finanziari. Sull'argomento, un altro entusiasta sostenitore della deregolamentazione, l'economista David Thesmar, professore di finanza alla scuola HEC (Alti Studi Commerciali) di Parigi e cronista al giornale padronale Les Echos, ha scritto: "all'inizio degli anni ottanta, l'economia francese era estremamente regolamentata; le banche non sceglievano né il tasso al quale prestavano, né quanto esse prestavano. La deregolamentazione ha soppresso tutti questi blocchi. (… Prima,) quando la Banque de France riteneva che ci fosse troppa moneta in circolazione, chiedeva alle banche di ridurre i loro prestiti. Ogni mese, i padroni delle grandi banche incontravano quelli della Banque de France e ricevevano direttive. Per semplificare, prima della deregolamentazione, il lavoro di un banchiere consisteva nel prestare una busta relativamente stretta in un menù dal tasso fissato! (…) La legge bancaria ha fatto pulizia, definendo quattro grandi categorie di banche: le banche normali, le banche mutualistiche, le banche d'investimento e le casse di risparmio. Ha autorizzato le banche normali a compiere anche i lavori delle banche d'investimento. (…) Le altre due misure che contano, ricordiamolo, sono la soppressione dell'inquadramento del credito e la soppressione di una grande parte dei prestiti agevolati. Questi cambiamenti hanno rivoluzionato il modo di pensare dei banchieri, che sono diventati responsabili della loro politica di prestito".

L'entusiasmo di questo distinto professore si capisce solo dal momento in cui ci si pone dal punto di vista dei banchieri, a cui queste due leggi hanno permesso di trasformarsi in attori principali della speculazione finanziaria, su scala mondiale. E questa politica fu proseguita senza il minimo intralcio, quando la destra sostituì la sinistra al governo nel 1986. La privatizzazione delle banche, preparata dalla legge Bérégovoy, fu proseguita sotto Chirac (RPR), Rocard (PS), Balladur (RPR) e sotto Jospin (PS). Il fatto che lo Stato fa di tutto per consentire ai finanzieri di speculare liberamente è una politica che, secondo l'eufemistica espressione dello stesso David Thesmar, "oltrepassa le alternanze politiche".

Anche sotto Bérégovoy fu creato il secondo mercato, che permette alle imprese di dimensione media di essere quotate in borsa, e fu sempre Bérégovoy a creare nel febbraio 1986 il Matif (mercato a lungo termine degli strumenti finanziari), dedicato alla speculazione finanziaria pura sulle obbligazioni, i buoni del tesoro o le valute.

Lo si vede, la "gauche", che oggi fa finta, campagna elettorale obbligando, di volere "regolamentare" la finanza, porta una responsabilità nel fatto di avere creato un quadro legale che dà ogni libertà ai pescecani della finanza per buttarsi sul mondo. Del resto, l'attuale candidato socialista François Hollande non lo nasconde: si è appena vantato, nel Guardian britannico del 13 febbraio, del fatto che "la sinistra ha governato per quindici anni, durante i quali ha liberalizzato l'economia e aperto i mercati alla finanza".

Non confondiamo le cause con gli effetti

La deregolamentazione e la liberalizzazione sono delle realtà. Tuttavia, fare di questa deregolamentazione la causa della crisi attuale, come fanno gli altermondalisti e tutto l'ambiente che pretende di combattere "l'ultra-liberalismo", mentre ne è una conseguenza, è una assurdità. Questa assurdità risulta da un errore di ragionamento comune a tutti i riformisti: gli altermondialisti e gli economisti "anti-liberali" sostengono che gli Stati, dagli anni settanta, siano passati dalla difesa degli interessi generali di ciò che chiamano "la nazione" alla difesa degli interessi della classe borghese. Quindi ci sarebbe stato un "buono Stato", responsabile della difesa dell'interesse generale, e ci sarebbe oggi un "cattivo Stato", inventato da Thatcher e Reagan, e oggi incarnato ai loro occhi dalla figura di Sarkozy, "presidente dei ricchi"! Come se de Gaulle, Roosevelt, e gli altri Churchill e Attlee del dopoguerra non fossero stati almeno altrettanto presidenti (o primi ministri) dei ricchi!

Non esageriamo: i riferimenti costanti dell'ambiente altermondialista al Consiglio nazionale della resistenza francese (CNR) del 1944 e ai governi di coalizione del dopo-guerra, presentati come il punto più alto del "patto repubblicano", della democrazia e del progresso sociale, danno la misura della vacuità politica totale dei ragionamenti di questo ambiente. Si potrebbe quasi dimenticare - e se lo dimenticano chiaramente - che questi governi sono stati quelli del massacro di Sétif del 1945 in Algeria, della guerra d'Indocina e dei 100.000 morti della primavera 1947 in Madagascar. Che i cosiddetti "bei tempi" del dopoguerra erano quelli in cui gli operai, nel 1947, scioperavano scrivendo sui loro striscioni: "Vogliamo pane". E soprattutto, per riprendere, ma contro di lui, un'espressione dell'economista altermondialista Frédéric Lordon, che il sistema liberalizzato degli anni settanta - ottanta "non è uscito dal culo di una gallina": è stato prodotto dagli stessi che avevano prodotto anche la regolamentazione. Il sistema regolamentato degli anni del dopoguerra non ha impedito la crisi, e non ha impedito al capitalismo di affondare il mondo nel caos. Ciò dovrebbe bastare a chiudere la discussione con tutti coloro che sostengono che il ritorno alla regolamentazione sia un rimedio alla crisi.

In questa società, lo Stato è al servizio della borghesia: era vero nel 1929, nel 1945, e resta vero oggi. Così sarà finché il capitalismo esisterà. E non sono le leggi a determinare i rapporti sociali, ma i rapporti sociali a determinare le leggi. Allora, appellarsi alla legge, a "buone riforme", per risolvere la crisi, semplicemente non ha alcun senso. Il solo modo di risolvere la crisi sarà di strappare il potere economico dalle mani della borghesia e di costruire uno Stato che non sia più al servizio dei possidenti, ma al servizio dei lavoratori. E per far questo ci vorrà molto più di un'elezione, molto più che delle riforme, molto più che della regolamentazione: occorrerà una rivoluzione sociale.

14 febbraio 2012