Da "Lutte de Classe" n°228 – Dicembre 2022 – Gennaio 2023
Questo testo è stato votato dal Congresso di Lutte ouvrière riunito a Parigi il 3 e 4 dicembre 2022.
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Di fronte a una crisi del sistema capitalistico che si prolunga e si acuisce, in questi anni nel mondo non sono mancate le reazioni dei lavoratori e delle classi popolari, comprese vere e proprie esplosioni sociali.
Senza risalire più indietro nel tempo, ricordiamo i movimenti della cosiddetta Primavera araba del 2010-2011. Nati da un profondo malcontento sociale, hanno portato alla caduta di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, con la speranza che questo cambiamento politico avrebbe portato a un miglioramento delle condizioni di vita. Sappiamo come queste speranze siano andate deluse, visto che in pochi anni abbiamo assistito al ritorno di una dittatura ancora più dura in Egitto e a un'evoluzione del regime tunisino nella stessa direzione, mentre la situazione delle masse popolari è peggiorata. Ma l'intera regione è stata contagiata dalle proteste, con movimenti in Libia, Siria, Yemen e persino negli Emirati, che hanno portato a interventi militari e guerre.
Nel 2019, l'Algeria ha sperimentato il cosiddetto movimento "Hirak", con massicce manifestazioni popolari settimanali per diversi mesi. Sempre sulla base di un profondo malcontento sociale, l'obiettivo politico "regime, via" è stato unanimemente condiviso per mesi prima che il governo riuscisse a riprendere il sopravvento. Sebbene il movimento si sia infine placato, le rivendicazioni sociali continuano ad esprimersi.
Un altro movimento è quello che ha scosso il Sudan, in particolare dal 2019, ed è ben lungi dall'essersi spento. Iniziato alla fine del 2018 con una protesta contro l'aumento del prezzo del pane, ha ottenuto la caduta della dittatura di Omar el Beshir, sostenuta dall'esercito e da un partito islamista. Il sanguinoso intervento del 3 giugno 2019, attuato dall'esercito, non è riuscito a spezzare il movimento di massa, poiché le manifestazioni sono continuate nonostante la repressione, intorno alle rivendicazioni democratiche espresse da una direzione piccolo-borghese, rappresentata dall'Associazione dei professionisti sudanesi.
Nella stessa regione del mondo, il Libano e l'Iraq hanno vissuto significative mobilitazioni popolari, soprattutto a partire dal 2019. Gli arabi palestinesi dei territori occupati da Israele, ma anche dello stesso Israele, continuano a manifestare frequentemente contro il regime a loro imposto.
Ma innanzitutto bisogna citare l'Iran, dove si sono susseguite fiammate di rivolta nel 2017-2018 e nel 2019, con numerosi episodi di lotte operaie in parallelo. In questo autunno del 2022, il Paese è teatro di una vasta esplosione di rabbia in seguito all'uccisione di una giovane ragazza da parte della polizia religiosa per aver indossato il velo in modo scorretto. Al di là del problema della situazione delle donne, alle quali questa polizia vuole imporre il suo ordine morale senza esitare a ricorrere alla violenza, viene messa in discussione la stessa dittatura della Repubblica islamica.
Le reazioni delle masse non si sono limitate al Medio Oriente. Lo Sri Lanka è stato scenario di una rivolta generalizzata durante la primavera e l'estate, mentre in India c’è stata una grande mobilitazione contadina contro le politiche del governo Modi. Il Cile ha visto una vera e propria esplosione sociale nel 2019, a partire da una protesta contro l'aumento dei prezzi dei trasporti. In Birmania, al colpo di Stato di febbraio 2021, ha risposto una mobilitazione di massa coinvolgendo in particolare la classe operaia.
In Kazakistan, l’inizio dell’anno 2022 è stato segnato da un’esplosione sociale, in risposta all’aumento dei prezzi dell’energia, di cui, come due anni fa, gli operai del petrolio sono stati l’avanguardia. Il movimento si è esteso a tutti i centri industriali e urbani, trascinando larghi strati popolari nella contestazione della dittatura. In gran parte spontaneo, è rimasto senza altra direzione che alcuni politici dalle pretese democratiche e sindacalisti riformisti più o meno radicali. Anche nel momento più alto, quando il potere non controllava più le grandi città, non si è espressa alcuna forza che avesse potuto offrire ad una classe operaia numerosa, concentrata e combattiva, la prospettiva di rovesciare il regime e stabilire il proprio potere. L’agitazione si è ritrovata disarmata, ancora più politicamente che materialmente, quando Putin ha inviato le sue truppe per schiacciare il movimento e salvaguardare gli interessi della burocrazia locale, della burocrazia russa e quelli dei grandi gruppi petroliferi e minerari occidentali presenti in questo paese.
Ciò che è successo in Kazakistan ha riprodotto gli avvenimenti del 2020 in Bielorussia. Una classe operaia potente economicamente e numericamente, ma senza direzione politica rivoluzionaria, è stata la promotrice di un vasto e lungo movimento di contestazione del regime che ha avuto forti risonanze tra i lavoratori dei paesi vicini e che però alla fine si è spento per colpa della repressione e dell’assenza di prospettive.
Quindi non è stato lo spirito combattivo delle masse a mancare. Da un paese all'altro, da una situazione all'altra, di fronte a condizioni che spesso diventano insostenibili, esse reagiscono con i mezzi che trovano, che vanno dalle lotte sindacali e dagli scioperi alle manifestazioni e agli scontri con le forze di repressione. Tuttavia, nonostante questa combattività, gli obiettivi proposti durante queste lotte non vanno mai oltre le rivendicazioni democratiche e sociali che non mettono in discussione né il sistema capitalista né l'ordine imperialista.
Le direzioni apparse alla testa di questi movimenti sono state molto diverse. In Sudan, vi si può trovare un partito islamista accanto ad un partito comunista di tradizione stalinista che ha abbandonato qualsiasi prospettiva di politica indipendente della classe operaia. In Haiti, si possono persino vedere i capi delle bande armate cercare di capeggiare la contestazione per sfidare il potere politico. In ogni caso, da nessuna parte si è trattato di direzioni rivoluzionarie, bensì di direzioni piccolo-borghesi, riformiste e/o nazionaliste se non religiose, che si fermano alla soglia della proprietà privata. Nessuna di loro pensava di uscire dall'ambito del sistema borghese, né da quello degli Stati nazionali esistenti e dalla divisione del mondo imposta dall'imperialismo. Questo è ciò che segna il limite di questi movimenti, ma anche ciò che spiega perché la maggior parte di essi si trova rapidamente in un vicolo cieco: il capitalismo decadente non può accettare di concedere un reale progresso sociale e nemmeno di allentare un sistema di dominio per il quale il mantenimento di dittature o governi autoritari è essenziale.
Manca quindi un partito mondiale della rivoluzione, proletario e comunista, la direzione rivoluzionaria del proletariato che i bolscevichi volevano fondare creando l'Internazionale Comunista. Per quanto le masse siano combattive, questa direzione non può emergere spontaneamente nel corso delle loro lotte. Porre fine al sistema imperialista, che è la forma di dominio del capitale finanziario, esige l'abbattimento della borghesia, degli Stati che la servono e dei confini artificiali che essi mantengono tra i popoli. Ciò richiede una politica in questa direzione e questa può essere opera solo del proletariato internazionale, se si arma di un programma che sia la sintesi degli insegnamenti delle esperienze passate.
Sottolineare questo significa affermare la necessità di costruire e radicare nella classe operaia partiti rivoluzionari basati sul programma trotskista, e un'Internazionale che sia veramente il partito mondiale della rivoluzione.
13 ottobre 2022