Nel silenzio quasi totale delle testate televisive e giornalistiche, relegata per lo più nelle pagine interne, si consuma la crisi della produzione siderurgica, che coinvolge da sud a nord i lavoratori dell'acciaio
Che sta succedendo nelle città dell'acciaio, in sciopero per giorni con la prospettiva di perdere il lavoro? Per quanto soffocate da una informazione decisamente scarsa, le immagini dei lavoratori di Taranto in sciopero per 8 ore, con blocchi sulle statali sotto la pioggia e presidi alle portinerie, le immagini da Genova con gli operai che abbattono con le loro stesse macchine da lavoro le grate innalzate “a difesa” della Prefettura - non perché volessero veramente spianare con i loro mezzi il luogo fisico deputato a reprimerli, ma per ribadire che non si fermeranno - sono immagini di una forza che non si può ignorare. Hai voglia a varare decreti sicurezza per criminalizzare le proteste operaie: quando il limite della sopportabilità è varcato, non c'è minaccia che tenga. E infatti, per disinnescare lo scontro e non sapendo che pesci prendere, il Governo fa quel che sempre fa in questi casi: prende tempo e lascia bollire, a Piombino ne sanno qualcosa. Nel frattempo, racconta la novella del compratore che risanerà e metterà tutto a posto. L'abbiamo già sentita tante volte, sarebbe strano che qualcuno ci credesse ancora.
Il boom economico aveva vissuto anche sulla produttività delle acciaierie: Genova, Savona, Piombino, Terni, Bagnoli, e naturalmente Taranto, sono state per anni il cuore dell'industria nazionale. Bagnoli ha cessato di colare acciaio nel 1990, e da allora non si è visto un piano che sia uno per la bonifica del territorio, rimasto una sorta di deserto di fronte al mare. Savona chiude per fallimento nel 1994. Dieci anni dopo a Piombino l'ultimo altoforno in vita – poi demolito un anno fa - produce l'ultima colata. Lo stabilimento agonizza ormai da oltre trent'anni, e a gennaio scadrà l'ennesimo giro di cassa integrazione. L'area a caldo di Genova – che consisteva di un solo forno - è stata demolita una ventina di anni fa, e Taranto, che di forni ne aveva cinque, oggi ne ha solo uno funzionante. Nel periodo di massima produzione, Taranto è arrivata a produrre 12,3 milioni di tonnellate di acciaio, la più grande acciaieria d'Europa e una delle più grandi del mondo a ciclo integrale, dove si realizzava l'intera lavorazione del minerale di ferro e del carbone fossile: un mostro enorme di 15,45 chilometri quadrati, più grande della città stessa.
Una produzione simile non è stata senza conseguenze, per gli operai e per tutta la popolazione, con una incidenza abnorme di morti dovuti alle sostanze inquinanti rilasciate nella produzione, soprattutto sul quartiere operaio di Tamburi, a cui la fabbrica è addossata. Malattie cardio-respiratorie, cancro, leucemia: sulla pelle di Taranto e dei lavoratori Ilva, finché i profitti hanno fatto faville, tutti hanno fatto finta di niente. Quando poi la fabbrica è andata in crisi e sono saliti i debiti, anche il troppo è scoppiato e nel 2012, su richiesta della Magistratura di Taranto, è avvenuto il sequestro degli impianti e l'arresto dei dirigenti. Quanto al risanamento auspicato all'epoca, naturalmente è di là da venire.
Oggi che la lavorazione “sporca”, quella legata alla fusione, è rimasta a Taranto, a Genova e a Novi Ligure si riceve da Taranto l'acciaio da lavorare per la produzione di banda stagnata (quella che serve per le scatolette) e banda zincata (lamiere per auto, etc.). Fra le ragioni degli scioperi c'è stata l’ipotesi del Governo di istituire il cosiddetto “ciclo corto” a Taranto, cioè in pratica non solo di produrre, ma anche lavorare l'acciaio a Taranto, il che avrebbe significato la chiusura per Genova. Ma il cosiddetto “ciclo corto”, secondo le intenzioni governative, dovrebbe prevedere l'uso di forni elettrici anziché a carbone, quindi una decarbonizzazione nel giro di 4 anni e una inevitabile vendita a privati. E risiamo alla novella dei forni elettrici e del compratore, che – inutile dirlo – anche qualora si trovasse, non metterebbe mano ad alcunché senza corposi aiuti pubblici. Per i sindacati è chiaramente un piano di chiusura, per fermare le cokerie di Taranto e sospendere l’invio di semilavorati a Genova.
E infatti, prima della reazione operaia, dal Ministro Urso era partita l'intenzione di chiudere a Taranto alla fine di febbraio, per sospendere dal 1 marzo la produzione a Genova. Per chiudere il cerchio, nel giro degli industriali dell'acciaio italiani salvare l'Ilva non è una priorità. Dei lavoratori a spasso, a loro – con rispetto parlando – non importa proprio nulla; loro anzi non hanno niente da perdere con l'Ilva in crisi. Così chiosa Il Manifesto del 2.12.25, commentando l'intervento all'assemblea di Federacciai del presidente Antonio Gozzi: “Mantenere una produzione di acciaio primario da altoforno nazionale non è più una priorità per gli acciaieri italiani, la crisi del gruppo ex Ilva non è la crisi del settore, e la costruzione di un impianto di pre-ridotto a Taranto o altrove può essere una buona idea per affiancare l’uso di rottami ferrosi, a patto che non si crei troppa capacità aggiuntiva da forni elettrici a Taranto, a Piombino o persino a Genova”. E' un messaggio molto chiaro, e sicuramente il Governo è portato ad ascoltarlo...
Sotto la pressione degli scioperi, il piano di chiusura per ora è stato ritirato, ma continua la ricerca dei compratori per Taranto. C'è già stata una proposta di acquisto per una cifra simbolica di 1 euro, con il 40% degli impianti in mano pubblica, da riscattare con una cifra da liquidazione e un corposo taglio del personale. Un film già visto più e più volte. Giustamente i sindacati – per primo USB, successivamente anche Fiom, Fim, Uil, hanno chiesto un unico tavolo di trattativa per Taranto e Genova, nonostante le amministrazioni cittadine di ognuna delle due città siano più propense a tentare di salvarsi da sole. I lavoratori hanno tutto l'interesse a garantirsi una forza comune, e ce ne vorrà tanta per non farsi piegare.
Aemme