Per quanto si continuino a sfornare novità tecnologiche, in un mondo sottomesso ovunque alle stesse fondamentali leggi economiche del capitalismo, il risultato è quello che già si annunciava agli albori della rivoluzione industriale. Da una parte una borghesia che nei suoi strati più alti accumula ricchezze che fanno impallidire quelle degli antichi re e imperatori, e dall’altra una massa di popolazione che nelle sue componenti a più basso reddito non riesce a garantirsi due pasti al giorno o l’accesso all’acqua potabile.
Dopo più di due secoli d’esistenza e di continue rivoluzioni tecnologiche il capitalismo non è riuscito a garantire alla maggioranza dei lavoratori di tutto il mondo nemmeno un salario decente.
Certamente, esistono nel mondo grandi differenze, tra paese e paese, per quello che riguarda le forme di governo: da quelle più “democratiche” a quelle più brutalmente autoritarie. Ma la struttura dell’economia è sempre quella capitalistica. La difesa di questa struttura, all’interno della quale si arricchisce ogni singola borghesia nazionale, costituisce la missione principale e la ragion d’essere di ogni singolo apparato statale.
La legge del profitto
Negli Stati “democratici” i partiti di destra o di sinistra si contrappongono, talvolta anche duramente, agitando spesso anche la bandiera della “giustizia sociale”. Ma un’analisi seria e onesta delle ragioni della povertà e dei tanti altri guasti che colpiscono o minacciano la popolazione, e soprattutto i lavoratori, non può ignorare che alla base di tutti i problemi ce n’è uno, che è il più importante: il fatto che la collettività, in tutti i paesi, non può disporre liberamente, per il bene di tutti, di tutte le conoscenze accumulate in secoli di storia, e nemmeno delle risorse già esistenti. Lo impedisce l’ordine capitalistico, che imprigiona il lavoro umano, anche quello della ricerca scientifica, lo modella, lo limita e lo indirizza per l’unico scopo di accumulare denaro a vantaggio di una minoranza di finanzieri, grandi industriali e puri percettori di rendite. Le aziende sono tutte, in ultima analisi, congegni per fare profitti e vengono lasciate in piedi finché rendono, indipendentemente dalla qualità e dalla quantità di ciò che producono. Nessuno dei partiti che si contendono il potere governativo, nemmeno negli Stati più “democratici”, mette in discussione questo sistema. Nemmeno quelli più a sinistra, nemmeno quelli più “progressisti”.
Questo è l’orizzonte nel quale si muove la politica ufficiale. Averne coscienza non è ancora cambiare le cose, ma ne costituisce una indispensabile premessa.
Riforme sociali o rivoluzione?
Il capitalismo, specie nei paesi più sviluppati, come l’Italia, ha sempre meno margini di manovra economici. Se si dovesse mettere in campo un piano di riforme che affrontino i principali problemi che colpiscono i lavoratori e i ceti più impoveriti, da una sanità vera e accessibile a tutti e in tempi rapidi a un’istruzione gratuita a un alloggio decoroso e a buon mercato per chi non può pagare degli affitti che sono ormai superiori al proprio salario, se si dovesse istituire un vero salario minimo vitale, se si dovesse mettere in atto un provvedimento contro la disoccupazione che si basi sul principio della distribuzione del lavoro tra occupati e disoccupati, non si potrebbe fare a meno di mettere le mani nel portafoglio della frazione più ricca del paese, di utilizzare le armi della requisizione, dell’abolizione del segreto commerciale e di quello bancario, per capire di quante ricchezze effettive può disporre la società. Ma questa sarebbe una rivoluzione sociale. Cioè sarebbe la sostituzione della classe attualmente al potere, quella dei grandi capitalisti, con la classe lavoratrice. Questa è la verità. La vecchia contrapposizione, interna al movimento operaio e socialista, tra riformisti e rivoluzionari è superata dai fatti: oggi nessuna riforma sociale che migliori sostanzialmente la condizione dei lavoratori e dei ceti popolari può essere fatta se non in seguito a una rivoluzione.
Non scriviamo cose nuove, certamente, ma ci appoggiamo sull’elaborazione del movimento operaio, socialista e comunista, al quale uomini come Marx, Engels, Lenin e Trotsky hanno prestato la loro penna, il loro cervello e al quale hanno consacrato la loro vita nel corso di più di un secolo e mezzo di battaglie. Riportare le idee del marxismo dentro la classe lavoratrice è dunque lavorare perché questa sviluppi le sue lotte seguendo un proprio indirizzo indipendente, sottratto all’influenza delle idee della borghesia. Scrisse Marx: “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee della classe dominante; cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante”.
La “potenza spirituale” della classe dominante è ben visibile, ad esempio, nella sostanziale sottomissione che tutti gli organi di informazione mostrano nei confronti della borghesia del proprio paese sul terreno della politica internazionale, cioè sul terreno della concorrenza e della lotta contro gli altri predoni che si confrontano e si affrontano nel mercato mondiale. Più in generale, nell’attribuire a quelli che in realtà sono gli interessi di una classe determinata la qualifica di interessi generali. L’accumulare profitti viene così presentato come impegno per la crescita dell’economia nazionale. Si potrebbero fare centinaia di questi esempi.
Per una società comunista
Farla finita con un ordine sociale che produce guerre, miseria, oppressione, avvelenamento del suolo, delle acque, dell’atmosfera, su scala globale è il primo gradino che l’umanità dovrà compiere per uscire definitivamente da un’esistenza animalesca e iniziare una storia degna di essere definita umana.
Incamminarsi sulla via rivoluzionaria non significa illudersi che la rivoluzione sia dietro l’angolo o che ogni manifestazione di massa sia destinata a sfociare in un moto insurrezionale. Nessuno può predire quando si ripresenteranno nella storia futura le condizioni di una crisi rivoluzionaria. Oggi lavorare per la rivoluzione vuole dire impegnarsi a diffondere le idee del marxismo soprattutto nella classe lavoratrice, attraverso l’acquisizione di una coscienza politica comunista da parte dei suoi elementi più avanzati, appoggiando le lotte della classe operaia e cercando di mostrare con l’esempio che i militanti comunisti rivoluzionari, proprio perché tali, non hanno la testa tra le nuvole, ma sono dei politici realisti, che tengono conto dei rapporti di forza. Ma la situazione concreta, le cui manifestazioni più eclatanti sono sotto gli occhi di tutti, ci obbliga a mettere in primo piano gli obiettivi della trasformazione rivoluzionaria della società e a dire chiaramente, nelle discussioni e nella propaganda politica, per quale tipo di società ci battiamo. Questo significa posare un piccolo mattone per la costruzione di un partito della classe lavoratrice, che sarà protagonista e dirigente di questa trasformazione.
R. Corsini