Cento anni fa: La lotta dei comunisti italiani nel 1925 in parlamento

 

Le proteste, i disordini, il clima politico che seguirono in Italia all’assassinio del deputato socialista Matteotti da parte di sicari fascisti, fecero temere a Mussolini e al suo governo per la propria sopravvivenza. Lo stesso Partito fascista, nei suoi quadri direttivi, fu scosso dalla crisi politica. Tuttavia, come era successo fino dal 1919, i capi del socialismo riformista e della Confederazione generale del lavoro, rinunciarono alla mobilitazione generalizzata e organizzata della classe operaia e, lentamente, le proteste si calmarono fino al punto di poterle reprimere facilmente e spostare di nuovo i rapporti di forza a favore del governo. I socialisti e gli altri partiti della democrazia borghese risposero al delitto Matteotti con l’uscita dal parlamento e la formazione di una concentrazione antifascista: l’Aventino. I comunisti aderirono inizialmente a questa iniziativa ma realizzarono ben presto che si trattava di un favore fatto al governo Mussolini, che poteva così disporre di un parlamento quasi tutto suo. Così i deputati del Partito comunista decisero di rientrare a Montecitorio per condurvi la propria battaglia di denuncia del fascismo e del capitalismo che lo foraggiava.

L’anno parlamentare 1925 si apre con il discorso di Mussolini nell’aula di Montecitorio, il 3 gennaio. Mussolini dichiara: “Io assumo tutta la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto...se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!”.

Il discorso è continuamente interrotto da applausi e “vivissime approvazioni” come scrivono gli stenografi ufficiali. Il capo del governo, con la sua solita fraseologia roboante, descrive i mesi passati come un periodo di disordini, seguiti al rapimento di Matteotti e al ritrovamento del suo cadavere nell’estate precedente. Questi disordini sono stati tollerati, dice Mussolini, ma ora è venuto il momento di ripristinare l’ordine. “L’Italia – dice nella conclusione del suo discorso – vuole la calma laboriosa. Noi questa calma, questa tranquillità laboriosa gliela daremo con l’amore, se possibile, e con la forza, se sarà necessario”.

La “tranquillità” della borghesia

Mussolini vuole in primo luogo rassicurare i suoi e garantire loro che la fascistizzazione dello Stato sarà portata a compimento. La “calma” e la “tranquillità laboriosa” si saldano con il ripiegamento della spinta rivoluzionaria che, dal 1917 in poi aveva scosso l’Europa, facendone tremare le borghesie capitalistiche, gli stati maggiori e i governi. Ora, dappertutto, si parla di “normalizzazione”. Il capitalismo si sta riprendendo, abbassando drasticamente i salari operai e rendendo quasi impossibile ogni forma di resistenza di classe. Lo strumento di questa rivincita sociale, in Italia, è il fascismo.

In parlamento siede ancora una pattuglia di deputati comunisti, 19 in tutto. Quotidianamente insultati dai fascisti e dai nazionalisti nelle sedute della Camera, spesso aggrediti fisicamente nella stessa sede del parlamento, resistono fino all’ultimo e danno una prova eccellente di come dei rivoluzionari comunisti debbano servirsi anche dei più miserabili brandelli di legalità che lo Stato borghese lascia loro.

Nel paese, tra le masse operaie, nelle fabbriche, nei quartieri, i comunisti sono l’obiettivo principale degli arresti, degli omicidi, dei pestaggi e delle provocazioni da parte della milizia fascista e delle forze di polizia. Eppure resistono, e cercano di tenere in piedi, clandestinamente, una struttura che consenta loro di svolgere la propaganda rivoluzionaria tra i lavoratori.

Dai banchi di Montecitorio, i comunisti continuano a denunciare il fascismo e il suo accodamento agli interessi dell’ordine borghese internazionale. Il 9 marzo, in occasione della morte del presidente della repubblica tedesco, il socialdemocratico Friedrich Ebert, che fu complice dell’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht nel 1919, il deputato comunista Onorato Damen guasta la festa al governo denunciando Ebert come assassino e viene per questo più volte redarguito dal presidente dell’aula. Per quanto possa apparire strano a chi ha una visione del fascismo tutta “ideologica” e senza rapporti con gli interessi delle classi sociali, il governo Mussolini riconosceva nel presidente tedesco, per quanto “socialista”, un fautore dello stesso tipo di ordine che si stava ristabilendo in Italia.

Il fascismo al servizio di industriali e grandi proprietari

Il 10 marzo i 5 deputati del gruppo comunista presentano una mozione che attribuisce al governo Mussolini la responsabilità del caro-vita, in quanto “istrumento non solo delle classi dirigenti, ma anche di quei gruppi particolari di esse, i cui interessi sono ancora più in contrasto con quelli, oltreché degli operai, e dei contadini, degli stessi ceti intermedi produttivi”. Aggiunge che “malgrado ogni demagogia di promesse, dall’avvento del fascismo al potere fino ad oggi, il deprezzamento della lira e il rincaro dei generi, e dei fitti hanno continuato ad accentuarsi grandemente”. Conclude “affermando che solo la libertà di organizzazione da parte dei lavoratori e dei consumatori potrebbe permettere la creazione degli istituti atti a frenare l’inasprimento del fenomeno”. Il giorno seguente, il presentatore dell’ordine del giorno, Antonio Graziadei ha la parola.

Graziadei è un professore di economia già in su con gli anni. Il suo impegno politico gli varrà due aggressioni da parte delle squadre fasciste a Firenze e a Parma. Il suo discorso, lungo e articolato, poggia su elementi solidi e nessuno è in grado di contrapporvisi seriamente. Denuncia il peggioramento drastico delle condizioni dei lavoratori e dei settori più poveri della piccola borghesia. Dice: “Si può adunque calcolare che dall’ottobre 1922, avvento radioso del fascismo al potere, fino ad oggi, l’aumento medio nei prezzi dei soli generi di prima necessità sia stato del 20 al 25 per cento circa”. Graziadei colpisce la demagogia sociale mussoliniana rafforzando il concetto: “Se abbiamo da un lato un enorme aumento dei prezzi e dall’altro una forte riduzione dei salari monetari, la conclusione è una sola: il tenore di vita delle classi lavoratrici in Italia, in questi ultimi due anni, è grandemente peggiorata”. Altro argomento su cui insiste è la politica economica del governo, tutta volta a favorire la grande borghesia anche sul piano fiscale. Gli industriali e i grandi proprietari terrieri, dice rivolto ai banchi della destra, vi avevano finanziato per “ristabilire con mezzi militari” una situazione che appariva rivoluzionaria alle classi abbienti. Ora, costoro vi presentano il conto e la vostra politica finanziaria “non è altro che il pagamento dei conti ai finanziatori dell’impresa”.

Dopo Graziadei, ha la parola Onorato Damen, che usa un linguaggio più duro, rivendicando più apertamente le idee comuniste e denunciando il socialismo riformista assieme ai gruppi democratici borghesi, “antifascisti perché fascisti mancati”. Anche il discorso di Damen è ricco di riferimenti statistici, ma punta più a mostrare una ripresa dell’economia capitalistica basata sullo sfruttamento più accanito del proletariato, reso possibile dalla distruzione dei sindacati e dei partiti operai da parte dello squadrismo fascista. È particolarmente efficace quando riassume la genesi del fascismo e nega che questo rappresenti un movimento originale e coerente: “Dal 1914 al 1919, dal 1919 al 1922, noi osserviamo in Italia non il formarsi di un nuovo partito politico, non la elaborazione di un nuovo credo dottrinario politico, ma lo sviluppo logico ed implacabile di un’azione diretta e condotta dalla classe dominante per le proprie difese, per la propria conservazione.

Ecco perché oggi possiamo affermare che nel fascismo partito, che nel fascismo governo, si identifica la vittoria politica delle forze più agguerrite e più violentemente volitive del sistema capitalistico.

Ciò premesso riesce infinitamente facile spiegarsi come e sino a che punto il fascismo sia riuscito a disimpegnare la sua alta funzione storica di cane da guardia della proprietà”.

Una tappa significativa nel consolidamento del regime fascista è la legge “contro la massoneria”. Il disegno di legge Mussolini-Rocco viene discusso nel maggio 1925. Gramsci interviene come deputato e dimostra come il governo non voglia colpire tanto la massoneria quanto le organizzazioni operaie. Anche qui, si comprende l’atmosfera di continua intimidazione in cui operavano i deputati comunisti dai verbali del parlamento. A un certo momento, Gramsci risponde a un’interruzione di Mussolini: “In realtà l’apparecchio repressivo dello Stato considera già il Partito comunista come un’associazione segreta”. Mussolini: “Non è vero!”. Gramsci: “Intanto si arresta senza nessuna imputazione specifica chiunque sia trovato in una riunione di tre persone, soltanto perché comunista, e lo si butta in carcere”. Mussolini: “Ma vengono presto scarcerati. quanti sono in prigione? Li peschiamo semplicemente per conoscerli!”.

Il fallito attentato del socialista Tito Zaniboni a Mussolini, sventato grazie a infiltrati e confidenti della polizia, nel novembre del 1925, segna il giro di vite definitivo sulla possibilità di un intervento politico dei comunisti in parlamento. Si scatena la reazione in tutto il paese. Tra l’altro, la Camera del lavoro di Milano viene occupata dagli squadristi e, in seguito, adibita a sede delle corporazioni fasciste. I deputati comunisti vengono estromessi fisicamente non solo dai banchi del parlamento, ma anche dall’edificio di Montecitorio. Quando escono vengono aggrediti dai fascisti, insultati e bastonati.

Complessivamente, negli anni seguenti, il Tribunale speciale, istituito da Mussolini, condannerà 4030 comunisti su un totale di 4671 condannati, l’86%.

Anche se oggi la retorica dell’antifascismo ufficiale ignora questo dato, furono i comunisti, prevalentemente operai e contadini, a pagare il prezzo più alto, mentre gli “antifascisti perché fascisti mancati” sono indicati come simboli dell’ “opposizione a tutti i totalitarismi”. Eppure, dopo il delitto Matteotti, fu una forza rivoluzionaria e decisamente nemica del parlamentarismo borghese a condurre, anche in parlamento, l’unica seria opposizione al fascismo. Gli altri si ritirarono sull’Aventino, ubriacandosi dei loro discorsi e, in seguito, semplicemente, vennero dichiarati decaduti dal mandato parlamentare.

R. Corsini