Dopo aver rotto il cessate il fuoco a Gaza e ucciso altri mille palestinesi in dieci giorni, Netanyahu ha detto di voler riprendere i negoziati con Hamas e invitato i suoi dirigenti a deporre le armi.
In realtà, non solo i bombardamenti israeliani sono proseguiti, ma sono stati emessi ordini di evacuazione delle aree di intervento militare a terra, nel nord e nel sud del territorio. Il 31 marzo, la minaccia riguardava la popolazione rifugiata a Rafah, al confine con l'Egitto. L'esercito ha ammesso senza battere ciglio di aver ucciso quindici soccorritori in quest'area, bombardando ambulanze ritenute “sospette”.
Mentre la popolazione, rifugiata nelle tende e nelle poche case rimaste in piedi, cerca di sopravvivere nonostante la mancanza dei mezzi di sussistenza di base, il ministro della Difesa israeliano ha ribadito che la guerra sarà applicata con “la massima forza in nuove aree”. Pochi chilometri quadrati sono stati però risparmiati dai bombardamenti e i gazawi non hanno più la forza di spostarsi con le loro famiglie e i loro magri averi.
Le manifestazioni di diverse centinaia di persone che si sono svolte il 25 marzo e nei giorni successivi a Beit Lahyia, poi nella città di Gaza, a Jabaliya e Khan Younes, hanno mostrato questa stanchezza dei palestinesi, anche nei confronti delle politiche di Hamas. Cartelli e slogan la denunciavano, chiedendo la fine della guerra e dicendo “non vogliamo morire”. Non si sa se queste manifestazioni siano state frutto di una mobilitazione spontanea o se provengano da militanti di Fatah, che da parte loro hanno chiesto ad Hamas di lasciare il potere a Gaza per porre fine alla guerra, ma la protesta è legittima.
La morte di 53.000 donne, uomini e bambini in diciotto mesi e la distruzione del territorio sono ovviamente innanzitutto il risultato della guerra totale condotta dal governo israeliano contro i palestinesi. Ma anche Hamas, con la sua decisione di scatenare la guerra con l'attacco del 7 ottobre 2023, ha la sua parte di responsabilità. Che si sia trattato di mantenersi al potere di fronte ai suoi rivali politici all'interno della popolazione palestinese, oppure di conquistarsi un posto come interlocutore nei negoziati con Israele e le potenze regionali, l'organizzazione islamista ha così aperto un nuovo, sanguinoso episodio della guerra che lo Stato israeliano conduce da decenni a Gaza e in Cisgiordania. E il modo in cui lo ha fatto non poteva che costare caro alla popolazione palestinese, a Gaza e non solo. Di più l’attacco di Hamas ha anche contribuito a rafforzare politicamente il governo israeliano. Proprio nel momento in cui una parte della sua popolazione lo contestava, Netanyahu ha potuto rispondere ingaggiando una guerra totale contando su una reazione di unità.
L'enorme manifestazione svoltasi a Tel Aviv il 29 marzo contro Netanyahu e il suo governo dimostra però che anche in Israele una parte della popolazione ne ha abbastanza della guerra e rivuole indietro gli ultimi ostaggi. Il Primo Ministro, sostenuto dal suo governo di estrema destra e dal suo alleato Trump, continua tuttavia la sua sanguinosa fuga in avanti. Fino a quando?
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