II. IL MEDIO ORIENTE DI FRONTE ALLA BARBARIE IMPERIALISTA
L'attacco di Hamas da Gaza al vicino territorio israeliano del 7 ottobre 2023 ha segnato la ripresa della guerra in Medio Oriente. Pur essendo l'ennesimo episodio di un conflitto che dura sostanzialmente da più di un secolo, questa guerra si distingue già per la sua durata, la sua ferocia e la sua tendenza a sfociare in un conflitto più ampio, almeno su scala regionale.
I dirigenti di Hamas, che hanno deciso questo attacco, volevano riportare in primo piano il problema palestinese che i dirigenti israeliani e occidentali erano riusciti a mettere in secondo piano per diversi anni. In realtà, la politica israeliana non poteva che preparare una simile esplosione. L'arrivo nel governo Netanyahu di rappresentanti dell'estrema destra ha accentuato la sua radicalizzazione a destra. La sua politica è stata praticamente dettata da coloro che sono favorevoli a intensificare la colonizzazione della Cisgiordania, a mantenere un blocco su Gaza che non lascia al territorio alcuna possibilità di sviluppo e ad affermare il carattere “ebraico” dello Stato di Israele, istituendo un vero e proprio apartheid nei confronti delle popolazioni non ebraiche.
La politica di Israele ha gravemente screditato l'Autorità Palestinese istituita dagli accordi di Oslo, riducendola al ruolo di forza di intermediazione dell'esercito di occupazione in Cisgiordania. Ha tolto ogni speranza di miglioramento della sorte della popolazione palestinese. Ma non poteva che rafforzarvi le frange che erano determinate a scatenare una guerra aperta contro le forze israeliane, e in particolare quella più radicale all'interno di Hamas, che aveva preparato e guidato l'attacco del 7 ottobre.
Il fatto che Hamas abbia sfidato in questo modo spettacolare la politica israeliana gli ha certamente valso una nuova popolarità tra i palestinesi, almeno per un po'. Ma se ha riportato la questione palestinese all'ordine del giorno, lo ha fatto nel modo peggiore possibile per quanto riguarda gli interessi della popolazione di Gaza e della Cisgiordania. Innanzitutto, la scelta di Hamas di compiere questo attacco, il modo in cui lo ha compiuto massacrando civili a caso e prendendo ostaggi, ha fatto un favore al governo Netanyahu. Gli hanno permesso di ricostruire l'unità nazionale dietro di sé e di mettere a tacere l'opposizione in un momento in cui era sempre più screditato per le sue politiche interne. D'altra parte, la popolazione palestinese di Gaza, ma anche quella della Cisgiordania, è stata abbandonata a sé stessa di fronte alla risposta dell'esercito israeliano, la cui ferocia era del tutto prevedibile. Dopo un anno di guerra, dopo la quasi completa distruzione di Gaza, si misura non solo la drammatica gravità di questa risposta, ma anche il fatto che i dirigenti di Hamas non si erano affatto preoccupati di preparare la popolazione ad essa, o di sapere cosa ne avrebbe potuto pensare.
Questa politica non dovrebbe sorprendere da parte di un'organizzazione islamica reazionaria come Hamas, che diffida profondamente della propria popolazione e intende governarla solo imponendosi su di essa. Lo ha dimostrato governando Gaza in modo autoritario da quando ha preso il potere nel 2007. Lo ha dimostrato anche, con il suo atteggiamento, quando sono nati movimenti di massa che iniziavano a contrapporre la popolazione araba di Israele o della Cisgiordania alle forze di repressione israeliane. Lanciando razzi su Israele, ogni volta l’organizzazione spostava il confronto nell'arena militare per fare sapere alle popolazioni arabe mobilitate che il loro rappresentante obbligato era Hamas e che l'unico modo di combattere era sostenere la sua guerra. Il risultato è sempre stato quello di bloccare lo stesso movimento di massa, privandolo di qualsiasi possibilità di sviluppare le proprie prospettive.
L'attacco del 7 ottobre non ha fatto altro che prolungare questo metodo. Per i dirigenti di Hamas, la lotta con Israele si riduce a una lotta tra nazionalisti palestinesi e sionisti. Hanno usato i mezzi di una guerra con la stessa noncuranza per le popolazioni palestinesi e israeliane che si può osservare nelle guerre tra Stati. La sproporzione dei mezzi militari era tale che la popolazione di Gaza avrebbe inevitabilmente pagato un prezzo altissimo, ma questo non interessava ai dirigenti di Hamas, che perseguono i propri obiettivi. Nei confronti della loro stessa popolazione, fanno in modo di far apparire i loro combattenti come coraggiosi martiri pronti al sacrificio - cosa che in effetti sono - e quindi come loro rappresentanti obbligati. Nei confronti dei dirigenti israeliani e dell'imperialismo, si pongono invece come interlocutori ineludibili, ai quali prima o poi dovrà essere riconosciuto il diritto di governare uno Stato palestinese.
Infatti, i dirigenti occidentali e l'ONU si sono affrettati a parlare di una soluzione politica del conflitto attraverso il riconoscimento di due Stati, palestinese e israeliano, senza che si vada minimamente oltre le proclamazioni. Nessun passo concreto è stato fatto in questa direzione, soprattutto a causa della politica del governo Netanyahu. Rifiutando di prendere in considerazione qualsiasi soluzione politica che prevedesse concessioni ai dirigenti palestinesi e mandando a monte qualsiasi negoziato per il cessate il fuoco, ha condotto il suo scontro come una guerra di sterminio. Questa scelta riflette le aspirazioni dei sionisti più estremisti, per i quali fin dall'inizio il popolo palestinese non esiste e il modo più sicuro per garantirlo è schiacciarlo. È una politica di pulizia etnica che è stata perseguita fin dalla creazione dello Stato di Israele, ma che non è mai riuscita a impedire al popolo palestinese di esistere e crescere, e nemmeno l'attuale guerra di Netanyahu sarà in grado di eliminarlo. Il fatto stesso che non sia in grado di sconfiggere Hamas, anche se questo è il suo obiettivo dichiarato, dimostra quanto sia in un vicolo cieco. Ma evidentemente, anche perché è in gioco la sua stessa sopravvivenza politica, Netanyahu è disposto a continuare su questa strada finché potrà.
Tuttavia, la continuazione e l'espansione della guerra non sono dovute solo alla personalità e all'ostinazione di Netanyahu. Innanzitutto, il suo governo non è lì per caso: è il culmine di un secolo di politica dei dirigenti sionisti che, costantemente incoraggiati e sostenuti dai governanti imperialisti, hanno favorito le frange più estremiste e reazionarie all'interno di Israele e gli integralisti della colonizzazione. In secondo luogo, non è altro che una chiara affermazione della politica imperialista in Medio Oriente.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno preso in Medio Oriente il posto della Gran Bretagna e della Francia, che vi si erano spartite le aree di influenza, per dominare e controllare questa regione strategica dividendola. Lo hanno fatto cercando di conquistare i dirigenti locali, sfruttando le loro divisioni, incoraggiando le forze più reazionarie e talvolta ricorrendo a un intervento militare diretto. La loro preoccupazione costante è stata quella di impedire che uno qualsiasi degli Stati borghesi dell'area diventasse una potenza regionale in grado di contrastare il loro controllo. Hanno preso di mira a turno l'Egitto, la Siria e l'Iraq e da anni ormai l'Iran è sotto pressione. I dirigenti di Israele si sono dimostrati molto utili nel sostenere questa politica imperialista. In quanto alleati obbligati dell'imperialismo, hanno alimentato nella popolazione israeliana la convinzione di non avere altra scelta se non quella di muovere guerra ai propri vicini e sono stati in grado di trasformare il proprio esercito in una vera e propria estensione di quello degli Stati Uniti, che gli ha fornito una grande quantità di equipaggiamenti.
La manifestazione di divergenze tra il governo Netanyahu e quello degli Stati Uniti ha tutte le caratteristiche di un gioco di ruolo. Il primo è pronto a colpire tutti i suoi vicini e a entrare in guerra con loro in nome della sicurezza della sua popolazione. I secondi fanno solo finta di voler trattenere il braccio del loro alleato per salvaguardare le proprie possibilità di apparire, di volta in volta, come mediatori. Ma i dirigenti americani sanno quanto Israele sia utile per loro nel controllo della regione e quindi accettano tutti i suoi abusi contro i palestinesi. D'altra parte, attaccando Hezbollah e minacciando l'Iran, i dirigenti israeliani sanno di perseguire un obiettivo strategico degli Stati Uniti, che è quello di indebolire quel Paese, se possibile per rovesciare i suoi dirigenti e riportarlo alla condizione di una semi-colonia. Le loro iniziative belliche sono quindi sempre approvate o coperte a posteriori dagli Stati Uniti in nome del “diritto di Israele a difendersi”. Così è stato anche per l'ultima offensiva, l'ingresso dell'esercito israeliano in Libano. A prescindere dagli ipocriti appelli del presidente statunitense Biden a “evitare un'escalation”, i dirigenti israeliani hanno deciso di riprendere una guerra già condotta in passato in Libano, ritenendo di avere l'opportunità di cogliere Hezbollah nella sua stessa trappola. Sebbene Hezbollah fosse riluttante a farsi coinvolgere in un conflitto, si è comunque sentito obbligato a lanciare attacchi missilistici contro Israele il giorno successivo al 7 ottobre, per salvare la propria immagine di partito combattente. Come nel caso di Hamas, il fatto che questi attacchi abbiano permesso a Netanyahu di rafforzare l'unità nazionale attorno a lui non ha preoccupato i dirigenti di Hezbollah. Ma come nel caso di Hamas, questo significava coinvolgere la popolazione libanese, senza che lo volesse, in una guerra con il proprio vicino, di cui probabilmente sarebbe stata la prima vittima.
In Medio Oriente, i governanti imperialisti sostengono sempre di avere solo un ultimo nemico da abbattere, dopodiché, rimanendo solo i regimi responsabili e cooperativi, potranno rimodellare la regione e stabilire pace e prosperità. Si tratta ovviamente di una favola rivolta all'opinione pubblica occidentale. Schiacciare le persone con le bombe, utilizzando le tecnologie più moderne per raggiungere questo obiettivo, è diventato la sostanza della politica imperialista, che si riduce al terrorismo di Stato. Attraverso interventi militari e guerre, il risultato è quello di aver trasformato la regione in un campo di rovine. La Striscia di Gaza si è aggiunta quest'anno all'elenco dei Paesi distrutti, che già comprendeva Iraq e Siria. Possiamo aggiungere il Libano, dove l'intervento israeliano si è aggiunto a una drammatica crisi economica, e ancora più lontano Yemen, Afghanistan, Libia, Somalia e Sudan. Per quanto riguarda l'Iran, sebbene non sia ancora stato direttamente bersagliato da un attacco militare, la sua popolazione sta pagando a caro prezzo le conseguenze dell'embargo americano e della crisi che ha creato, per non parlare della dittatura reazionaria rafforzata da questa situazione.
La questione non è se stiamo andando verso un “incendiarsi” del Medio Oriente, un termine scelto dai giornalisti perché ha il vantaggio di rimanere vago. Da tempo la regione è in fiamme, nel senso che un gran numero di Paesi sono già a ferro e a fuoco. Invece la questione è quella dell’estensione della guerra e fino a che punto. La risposta dipende interamente dalle decisioni, se non di Netanyahu, perlomeno del suo protettore americano.
In questa guerra, siamo naturalmente dalla parte dei popoli oppressi dall'imperialismo e dai suoi alleati. Siamo quindi pienamente solidali con il popolo palestinese di fronte al massacro a cui è sottoposto e sosteniamo le sue aspirazioni a godere pienamente dei suoi diritti nazionali, compreso il diritto a un proprio Stato. Nella guerra condotta contro il popolo palestinese dallo Stato di Israele, che si sta allargando, auspichiamo la sconfitta militare di quest'ultimo, poiché ciò sconfiggerebbe il campo imperialista e lo indebolirebbe. Anche se è difficile da realizzare, ciò che dipende da noi è lottare, ovunque ci troviamo, contro le politiche del nostro governo e quelle degli altri Stati imperialisti. Ciò significa denunciare la loro partecipazione all'oppressione dei popoli e la loro complicità nei massacri in corso.
Un'autentica solidarietà con il popolo palestinese e il popolo libanese significa anche combattere le politiche delle organizzazioni nazionaliste che ne sono a capo e le loro scelte politiche, a partire dalle loro decisioni in materia di confronto militare. Le guerre che conducono non risolveranno nessuno dei problemi dei loro popoli, anche se dovessero avere successo. L'unico obiettivo di queste organizzazioni, nel contesto di un Medio Oriente diviso dall'imperialismo, è quello di poter gestire il proprio apparato statale e diventare così gli oppressori patentati del proprio popolo. Di fronte a loro, salvaguardare gli interessi del proletariato significa difendere una politica internazionalista, comunista e rivoluzionaria. Solo una rivoluzione proletaria estesa a tutta la regione può porre fine al dominio dell'imperialismo e spazzare via le varie fazioni borghesi e piccolo-borghesi che lo servono o lo vorrebbero servire.
Anche se non abbiamo i mezzi per difendere una tale politica tra le masse del Medio Oriente, dobbiamo affermarne la necessità. La nostra solidarietà con il popolo palestinese non deve essere vista come un sostegno alle politiche delle organizzazioni nazionaliste. Ciò è tanto più necessario in quanto è quello che sta facendo una parte dell'estrema sinistra, che in nome di questa solidarietà si allinea alla loro politica o addirittura si veste con la bandiera nazionale palestinese. Al contrario, se una parte della gioventù e della popolazione si solleva contro i massacri in corso, speriamo che questo sia l'inizio di una presa di coscienza di cosa sia l'imperialismo e della necessità di abbatterlo. Per noi, combattere la guerra in nome dell'internazionalismo proletario e dietro la bandiera rossa è un modo per contribuire ad aumentare questa consapevolezza, come farebbero dei comunisti rivoluzionari presenti in Medio Oriente.
Nella questione palestinese, sappiamo che la politica aggressiva dei dirigenti israeliani si basa sul fatto di avere convinto il loro popolo che non ha altra scelta se non quella di combattere tutti i suoi vicini. Lottare contro questa politica significa fare tutto il possibile per rompere l'unità nazionale su cui i dirigenti israeliani fanno affidamento, anziché contribuire a rafforzarla. Questa è una delle strade che la lotta del popolo palestinese può percorrere e che i rivoluzionari internazionalisti devono contribuire ad aprire. Il popolo israeliano può smettere di essere in guerra permanente e di fare da carne da cannone, per la difesa di interessi che non sono i suoi, solo se cerca la coesistenza con i popoli vicini e li rispetta. I rivoluzionari devono dimostrare che in Israele-Palestina c'è spazio per entrambi i popoli, a condizione che nessuno dei due cerchi di dominare l'altro, il che implica la rottura con tutte le politiche filo-imperialiste.
Realizzare una vera coesistenza e cooperazione tra i popoli significa porre fine a tutte le forme di oppressione, rovesciare le classi dominanti e gli Stati su cui si basano e instaurare il potere proletario. Questo potere deve essere esercitato nel quadro di una federazione socialista dei popoli del Medio Oriente, che riconosca il diritto di ciascuno di essi di avere la propria esistenza nazionale nella forma che preferisce.
I popoli del Medio Oriente hanno pagato e continuano a pagare a caro prezzo la sottomissione dei loro regimi alla dominazione imperialista. Ma stanno anche pagando a caro prezzo le politiche delle organizzazioni nazionaliste che agiscono in loro nome, che li stanno portando in conflitti senza via d’uscita. Per combatterli, per porre fine alla dominazione imperialista e a tutte le forme di oppressione, dobbiamo contribuire alla nascita di partiti comunisti e di un'Internazionale in grado di condurre una politica rivoluzionaria proletaria in tutto il Medio Oriente.
16 ottobre 2024