Da "Lutte de classe” n°244 – Dicembre 2024 e Gennaio 2025
Questo testo è stato votato dal congresso di Lutte ouvrière di dicembre 2024
I. RELAZIONI INTERNAZIONALI
Un anno di crisi e di guerre, in cui si è sprofondato ancora di più nella barbarie e nella ripetitività o, come si dice per i terremoti, nelle scosse di assestamento dell'anno precedente. Ma non solo: si tratta anche di un peggioramento, se consideriamo la durata. Un anno di più, è la dimostrazione che la borghesia non ha fatto, o non è stata in grado di fare, un altro passo verso il superamento della crisi della sua economia.
Un anno di guerra “ad alta intensità” tra Russia e Ucraina, come in Medio Oriente, vuol dire decine di migliaia di morti, distruzioni colossali e, ben oltre le vittime attuali, la crescente certezza che il tuffo nella barbarie durerà nel tempo e che il dominio della borghesia imperialista sul pianeta ha solo questo futuro da offrire all'umanità.
L'attuale fase di una crisi che dura già da mezzo secolo fa parte di quella che gli economisti borghesi chiamano sempre più spesso “crisi secolare”. Essa è stata aggravata, a partire dagli anni Settanta, dal rapido succedersi della crisi del sistema monetario internazionale, dell'abolizione della convertibilità del dollaro e delle successive crisi petrolifere.
Questa crisi secolare ha posto definitivamente fine ai “Trent'anni gloriosi” (in realtà, si tratta di un breve periodo durante il quale la macchina economica capitalista si è rimessa in moto, con la ricostruzione dopo le distruzioni della Seconda guerra mondiale come principale forza motrice). Le crisi hanno costellato l'intera storia del capitalismo fin dalle sue origini e sono anche un momento del suo sviluppo. Ma a differenza di quelle del capitalismo ascendente, che erano seguite da un nuovo periodo di espansione, le crisi del capitalismo senile dell'era imperialista tendono a prolungarsi, persino a perpetuarsi (da qui l'espressione “crisi secolare”).
Per quanto riguarda l'evoluzione dell'attuale fase della crisi, tutto indica che essa è destinata a peggiorare. Lo dicono la stessa borghesia e i suoi portavoce più o meno autorizzati. La stampa borghese, in particolare quella economica, sembra ossessionata dal timore di una possibile crisi finanziaria in un mondo capitalistico ampiamente finanziarizzato, che potrebbe portare a un crollo economico paragonabile a quello del 1929, forse anche peggiore.
Fino ad oggi, questo non si è verificato nella crisi attuale. La conclusione che se ne può trarre è che finora l'economia globale si è salvata, ma anche e molto più probabilmente che il peggio deve ancora venire.
Quello del commercio è uno degli indicatori più importanti dello stato dell'economia capitalista globale. Per ora il commercio mondiale non è crollato, nonostante le misure protezionistiche adottate dalle potenze imperialiste, principalmente gli Stati Uniti, che dominano la produzione e gli scambi mondiali. Tuttavia, l'aumento di queste sta iniziando a intaccare anche questo indice. “Il commercio mondiale perde slancio”, si leggeva in un titolo di Les Echos del 26 agosto 2024, e “Questo rallentamento è dovuto in gran parte al calo delle esportazioni dei Paesi dell'Unione Europea (UE)”, precisava.
Cambiamenti nei rapporti di forza tra i Paesi imperialisti
Le statistiche che riguardano le potenze imperialiste nel loro complesso nascondono un cambiamento nei rapporti di forza tra di esse. Esacerbando le rivalità e essendo durata così a lungo, la crisi ha già inciso profondamente sui rapporti di forza economici globali, in particolare tra Stati Uniti ed Europa. Lo stesso articolo del quotidiano economico sottolinea in particolare “gli sviluppi in Germania, dove le esportazioni di prodotti chimici e altri manufatti sono diminuite”. Un recente numero di Les Echos (12 settembre 2024) commenta un lungo rapporto di Mario Draghi “consegnato a Bruxelles” che “avverte di un'economia europea in pericolo”. Con toni molto gravi, parla dell'inadeguata competitività dell'economia europea e avverte che “o agiamo, o sarà una lenta agonia”.
Le parole sono appropriate, e non sono commenti da giornalista, poiché Draghi è una delle figure più in vista del mondo borghese. Parla di un’Europa in agonia, non per confermare la necessità di una competizione migliore con i russi o con la Cina ma fa riferimento agli Stati Uniti. E ci si rende conto che, come uomo consapevole e responsabile della borghesia europea, ha timore che l'Europa stia morendo di fronte agli Stati Uniti e alla concorrenza americana. E punta il dito sul problema: l'insufficienza degli investimenti produttivi.
È davvero una grande scoperta! Ma quanti articoli vi abbiamo dedicato, dagli anni '1970 in poi? Sì, la borghesia è sempre meno propensa a investire nella produzione e sempre più nella speculazione, amplificando la crisi. Quando nel 1938, nel Programma di transizione, notava quanto la borghesia fosse smarrita, sconvolta e in preda al panico di fronte agli sconvolgimenti della propria economia, Trotsky descriveva una realtà molto simile a quella odierna.
Questo per quanto riguarda l'osservazione. La constatazione del crescente divario tra l'economia europea e quella americana è, allo stesso tempo, un'ammissione di fallimento dell'Unione europea. Le ragioni di questo risiedono in un'altra constatazione: nonostante il lungo e laborioso processo di “costruzione dell'Europa”, essa non è unificata e i diversi Stati che la compongono rimangono in competizione tra loro. L'Unione Europea non è affatto l'unificazione dell'Europa, ma un'ulteriore arena in cui i Paesi capitalisti europei continuano a confrontarsi. L'Unione non solo è limitata, ma è anche reversibile.
La libera circolazione all'interno dell'Unione Europea era uno dei suoi pochi vantaggi, almeno per la popolazione nel suo complesso. Ma la cosiddetta “libera circolazione” delle persone - c'è bisogno di ricordarlo? - è sempre stata un triste scherzo per chiunque non fosse cittadino di uno dei Paesi dell'area Schengen. E la recente decisione della Germania di reintrodurre i controlli alle frontiere ci ricorda con quanta facilità un Paese dell'Unione Europea possa rendere vana da un giorno all'altro questa misura emblematica.
E questo è solo un aspetto dell'Unione, minore per le varie borghesie nazionali. Ma nella maggior parte dei settori essenziali - gli eserciti, le forze di repressione, le amministrazioni, le istituzioni politiche, la fiscalità, la legislazione sociale, il corpus legislativo, ecc. - l'Europa non è riuscita a creare un unico Stato europeo., e-non ha superato la frammentazione dei suoi Stati. Nella rivalità tra Europa e Stati Uniti, questo è un handicap paralizzante.
Il collasso finanziario è ancora una minaccia
Se confrontiamo la crisi attuale con quella del 1929, possiamo notare che all'apice di quest'ultima, per effetto sia della crisi stessa che delle misure economiche protezionistiche, il commercio internazionale è crollato. Tra il 1929 e il 1933 il suo valore fu diviso per tre. Oggi non è affatto così, né per il commercio né per la produzione.
La grande differenza tra la crisi attuale e la lunga depressione che seguì il 1929 è negli enormi profitti che la grande borghesia continua a realizzare. Lo fa a discapito della classe operaia, dei salariati e dei pensionati, e a danno di tutti i servizi pubblici utili alle classi lavoratrici: sanità, istruzione, trasporti pubblici, ecc. I suoi profitti si realizzano principalmente attraverso la speculazione e la finanza.
Le operazioni finanziarie che contribuiscono alla distribuzione del plusvalore tra i capitalisti stanno diventando fattori di amplificazione della crisi. Le pubblicazioni finanziarie specializzate riflettono la profonda preoccupazione della grande borghesia per la minaccia di un collasso finanziario che sarebbe di dimensioni mai viste. Lo si è sfiorato nel 2008, ma non stato così profondo come quello degli anni successivi al 1929. Tuttavia Les Echos del 17 settembre 2024 afferma in un articolo che “i governi europei si stanno affrettando a saldare il peso della crisi del 2008” e che “il solo governo olandese ha speso 27 miliardi di euro per salvare ABN AMRO (la principale banca olandese) dal fallimento”. Ma questo è solo un piccolo Stato imperialista… Lo spettro di una grande crisi finanziaria deve spaventare molto di più la grande borghesia!
Intelligenza artificiale: dalla promessa scientifica e tecnica a speculazione vera e propria
Le promesse di aumento della produttività e la speculazione su di esse sono intrecciate a tal punto che i grandi capi della borghesia non sanno più cosa fare. Lo stesso si può dire per l'ultima parola d'ordine di economisti, giornalisti e, attraverso di loro, del grande pubblico: l’intelligenza artificiale, in breve la IA… Il rigore scientifico si mescola all'immaginazione più fantasiosa e alla speculazione più sfrenata, con qualche passaggio nella psicoanalisi.
Sotto il titolo “Nvidia: l'imperatore dei chip elettronici di fronte ai primi dubbi sull'IA”, Le Monde del 20 agosto 2024 ripercorre il meccanismo speculativo che si sta sviluppando intorno a questa azienda: “L'eroe di questa storia, Jensen Huang, cofondatore e CEO di Nvidia [...], è insieme a Elon Musk la figura più in vista della Silicon Valley. È anche una delle più ricche. Perché la sua azienda, di cui possiede il 3,5% del capitale, non vale più 1.000 miliardi di dollari in borsa, come indicato sulla targa, ma più di 2.500 miliardi. Il 18 giugno ha addirittura superato Microsoft e Apple, all'estrema quota di 3.300 miliardi di dollari, diventando per breve tempo l'azienda più costosa del mondo.
Eppure Nvidia non produce smartphone, computer o software, ma solo schede elettroniche. Ma queste ultime sono magiche. Sono la chiave per entrare nell'inquietante e affascinante mondo dell'intelligenza artificiale (IA). La loro velocità di calcolo e la loro flessibilità di utilizzo fanno sì che attualmente non abbiano rivali sul mercato. Di conseguenza, quando nel 2023 Microsoft, Google o Amazon hanno deciso di investire decine di miliardi di dollari in centri dati destinati all'addestramento di modelli di IA, come il robot conversatore ChatGPT di OpenAI, non hanno avuto altra scelta che bussare alla porta di Nvidia. E i loro miliardi sono finiti dritti in tasca all'azienda di San José.
Nel 2023 (anno fiscale concluso a fine gennaio), il fatturato è salito del 126% a 61 miliardi di dollari e l'utile netto ha sfiorato i 30 miliardi. Si tratta di un risultato inaudito nell'austero mondo dei produttori di chip, o anche nella tecnologia in generale. Intel, nei giorni di gloria del suo monopolio sui PC con Microsoft, non ha mai raggiunto un simile risultato. Nemmeno Apple all'apice della frenesia per l'iPhone. Tanto che gli analisti sono perplessi di fronte a questa follia: un fuoco di paglia, una bolla o un cambiamento d'epoca?”. Questa è la domanda e, a seconda della risposta, iniziano le speculazioni.
“La matematica in soccorso del vuoto d'aria dell'IA” è il titolo di Les Échos del 27 agosto 2024: “Man mano che la ricerca progredisce, sorge la necessità di riprendere i lavori di matematica fondamentale, in cui si possono identificare invarianti [...] e anche un numero infinito di modi per implementarli”.
Uno studio pubblicato a fine giugno dalla Goldman Sachs, una delle banche più potenti del mondo, fornisce una risposta immediata e lapidaria: “IA generativa: troppe le spese, troppo pochi i benefici?” (Le Monde, 20 agosto 2024).
Per il capo di una banca, un centesimo è un centesimo, o meglio un miliardo di dollari è un miliardo di dollari. Ma questo non impedisce a livelli successivi di speculatori di scommettere sul cavallo che sperano sia vincente, proprio come si fa al totocalcio. E, per rendere più attive le loro scommesse, alcuni puntano sulle criptovalute.
Dalla finanza alla moneta: un'altra catena di propagazione
Un crollo finanziario implica quasi automaticamente turbolenze valutarie più o meno gravi, che possono essere un vettore di trasmissione della crisi finanziaria.
Per ora, il perno effettivo del sistema monetario è il dollaro. Per una serie di ragioni, tra cui la frammentazione dell'Europa in Stati con interessi diversi, persino opposti, l'euro non è assolutamente riuscito a sostituire il dollaro. Nessuna delle principali valute esistenti - lo yen giapponese, lo yuan cinese, la sterlina britannica - ci è riuscita. A maggior ragione, i piani, in particolare quelli attribuiti ai BRICS (associazione che riunisce Brasile, Russia, Cina, India, Sudafrica, Arabia Saudita, Iran, Egitto, Etiopia ed Emirati Arabi Uniti), di creare una moneta in grado di sostituire il dollaro sono del tutto fantasiosi. Può accadere di competere con il dollaro a un livello o a un altro come quello regionale o in base a una circostanza geopolitica o a un'altra ma di sostituirlo no. Alla minaccia di una crisi finanziaria si aggiunge quella di una crisi valutaria. L'attuale impennata del prezzo dell'oro è il primo indizio di una o più crisi valutarie future.
L'ascesa guerriera
Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, nessuno poteva prevedere il percorso che avrebbero seguito i vari conflitti e le sanguinose esplosioni” per fondersi in “una conflagrazione mondiale” (Programma di transizione). Né c'è alcun motivo per cui l'attuale processo debba essere un copione della Prima o della Seconda guerra mondiale. L'unica certezza è la sua inevitabilità.
Nel suo passato, la borghesia può trovare una moltitudine di processi derivanti da una infinità di situazioni che hanno portato alla generalizzazione della guerra. Li può ritrovare già nella sua prima gioventù, quando la borghesia non aspirava nemmeno realmente al potere e si accontentava ancora di dare il suo contributo, soprattutto finanziario, alle guerre condotte dalla classe feudale, che la precedeva come principale classe sfruttatrice.
Il lungo periodo che gli storici hanno chiamato Guerra dei Cento Anni, l'ultimo di tale durata, fu ancora in gran parte una successione di guerre feudali. Durò 116 anni, 4 mesi e 15 giorni, dal 1337 al 1453. E nonostante il suo carattere dinastico feudale, la borghesia, i suoi interessi e il suo denaro cominciavano a giocare un ruolo importante.
La Guerra dei Trent'anni, iniziata nel 1618, si concluse nel 1648 con il Trattato di Westfalia. In alcune regioni della futura Germania, la perdita di popolazione fu tra il 66 e il 70%. Per molti versi, questa guerra, le cui motivazioni principali erano di natura religiosa e che opponeva i principi protestanti a un imperatore e ad altri principi cattolici, ha tracciato la mappa dell'Europa fino alla Rivoluzione francese e alle guerre napoleoniche.
La borghesia imperialista ormai senile può trovare precedenti nel passato... Ma oggi ha a disposizione risorse materiali molto più potenti. E il paragone non è solo aneddotico: se fissiamo l'inizio della guerra in Medio Oriente alla Dichiarazione Balfour del novembre 1917, essa ha già più di cento anni. È con questa dichiarazione che la Gran Bretagna, la futura potenza mandataria che voleva prendere il posto della dominazione turca, si dichiarò a favore di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina: una terra due volte promessa…
Il timore della crisi finanziaria
Pur alimentando le preoccupazioni dei suoi politici e giornalisti, la grande borghesia potrà rimanere tranquilla finché non ci sarà una vera e propria crisi finanziaria con effetti paragonabili a quelli sperimentati dal mondo capitalista dal 1929 in poi. Fino a quando i profitti continueranno a crescere, e qualunque sia il valore reale della moneta con cui vengono realizzati, questa situazione lascia il tempo per prepararsi a ciò che verrà dopo, in particolare a un peggioramento delle tensioni guerriere.
Se è indiscutibile che il proletariato è totalmente impreparato alla guerra, in un certo senso questo è vero anche in molti settori per la borghesia. Lo dimostra il ritardo con cui le grandi potenze consegnano le armi, anche all'Ucraina.
La guerra russo-ucraina, come quella in Medio Oriente, è un buon terreno di addestramento per gli stati maggiori. Questo è già avvenuto in diversi settori: ad esempio, l'uso massiccio di droni, la loro produzione, ecc. E, su un piano completamente diverso, nella guerra sotterranea l'esercito israeliano sta acquisendo una competenza senza precedenti contro Hamas e, più recentemente, contro Hezbollah in Libano.
Questo è vero anche certamente per molti altri settori coperti dal segreto militare, che prospettano la reale minaccia di una guerra nucleare. Se accadrà, questa non sarà combattuta con le bombe di Hiroshima e Nagasaki, vecchie di quasi 80 anni. Tenendo conto del poco che trapela dal segreto militare degli stati maggiori, la loro preoccupazione è piuttosto quella di adeguare le armi nucleari, per renderle più maneggevoli e quindi più utilizzabili in diverse circostanze. Va anche ricordato che durante la Guerra Fredda tra il mondo occidentale e l'URSS, questo confronto, pur alimentando quello che all'epoca veniva chiamato “l'equilibrio del terrore”, alla fine non è sfociato in una guerra nucleare.
Non c'è nulla che indichi che, a un certo punto del suo sviluppo, l'ascesa guerriera porterà a una copia della Prima o della Seconda guerra mondiale. Potrebbe anche continuare, approfondendo ed estendendo ciò che sta accadendo ora. Paradossalmente, è altrettanto probabile che l'ascesa guerriera sotto la borghesia senile e il capitalismo in crisi riproduca le guerre condotte con la collaborazione della borghesia nascente, all'epoca in cui il capitalismo stava uscendo dalla sua ganga feudale…
Alla ricerca di alleati
Lo sforzo costante di trovare alleati è già parte integrante della guerra. Tutti i conflitti del passato ci ricordano che la ricerca di nuovi alleati non solo continua, ma si intensifica durante le guerre stesse. Allo stesso tempo, dimostrano che possono esserci molti cambi di campo e che la configurazione delle alleanze di oggi non necessariamente rimarrà la stessa a lungo termine.
La stampa cita sempre più spesso il caso dell'Africa, dove la decadenza in corso del sistema di dominio della Francia sta aprendo nuove possibilità. Sta rimescolando molte delle carte lasciate in eredità dalla Conferenza di Berlino del 15 novembre 1884-26 febbraio 1885, che per più di un secolo ha tracciato i confini in Africa senza tenere conto delle origini etniche delle popolazioni. Le due guerre mondiali hanno cambiato la mappa dell'Africa solo in modo limitato e soprattutto a scapito dell'imperialismo tedesco.
Gli usi che il capitalismo potrebbe fare delle ingenti ricchezze minerarie del continente non sono gli stessi del XIX secolo, quando l'Africa fu spartita. Basti pensare all'uranio del Niger o ai numerosi metalli del Congo ex-Zaire, essenziali per le auto elettriche. La rivalità tra le grandi potenze per il loro controllo è destinata a diventare più accesa.
Il 22 agosto 2024, Le Monde titolava: “Un anno dopo la morte di Yevgeny Prigozhin, il fondatore del gruppo paramilitare Wagner: l'Africa, nuova linea del fronte tra Occidente e Russia”. Non c'è da stupirsi che il crollo del dominio francese abbia stuzzicato l'appetito per il continente africano. Tuttavia va detto che anche se l'espressione di Le Monde “la rimonta vincente della Russia in Africa” è molto esagerata, è chiaro che i punti di forza della Russia di Putin derivano, almeno in gran parte, dall'eredità della fine dell'URSS e dalla sua politica di alleanza con regimi che all'epoca venivano descritti come progressisti. Quelli, cioè, che nel contesto di ostilità tra i blocchi rifiutavano di allinearsi sistematicamente a Washington. Quindi, in modo molto indiretto, queste risorse provenivano dalla stessa rivoluzione russa.
Una di queste eredità lontane è stato, durante la Guerra Fredda, l'invito quasi permanente agli intellettuali dei Paesi africani a studiare a Mosca. All'epoca, ciò creava legami, a volte personali, tra questi studenti africani e certi sovietici a cui si apriva la possibilità di lasciare l'URSS. Da entrambe le parti, gli ufficiali degli eserciti africani e la leadership russa, la stessa generazione era al timone.
Il sostegno quasi unanime delle potenze imperialiste all'Ucraina nella sua guerra contro la Russia pone giustamente l'attenzione sulla minaccia di un confronto più diretto tra quest'ultima e la NATO, espressione militare delle potenze imperialiste.
Questo potrebbe rappresentare una fase dell'evoluzione bellica di un mondo in via di militarizzazione. La Russia di Putin è già direttamente coinvolta nella guerra, anche se, per il momento, le potenze imperialiste moltiplicano le linee rosse per dimostrare che non sono ancora impegnate in modo inarrestabile.
Tuttavia, l'attenzione dei dirigenti politici e militari dell'imperialismo americano è concentrata sulla Cina. Questa è impegnata con gli Stati Uniti in una corsa agli armamenti che si riflette nelle statistiche. Tutta l'Asia orientale, fino all'Australia, è coinvolta in una febbrile ricerca di alleanze. Lo Stretto di Taiwan, che separa la Cina continentale dall'isola omonima, è uno dei punti più caldi del pianeta. Un altro nella stessa regione è il confine tra Corea del Nord e Corea del Sud. A settant'anni dalla guerra di Corea, la pace tra le due parti dello stesso Paese, ancora separate da filo spinato e campi minati non è ancora stata firmata.
Questa certezza è espressa chiaramente in un articolo della rivista americana Foreign Affairs, pubblicato il 1° ottobre 2024 e firmato da Antony Blinken, il ministro degli Esteri di Biden. L'articolo inizia così: “È in corso una feroce competizione per definire una nuova era negli affari internazionali. Un piccolo numero di Paesi - principalmente la Russia, con la collaborazione dell'Iran e della Corea del Nord e della Cina - è determinato a cambiare i fondamenti del sistema internazionale... Tutti cercano di erodere le basi della forza degli Stati Uniti: la loro superiorità militare e tecnologica, la loro moneta dominante e la loro rete impareggiabile di alleanze e partnership...”.
Blinken prosegue etichettando questi Stati come “potenze revisioniste”, aggiungendo poco dopo che di tutti questi Stati “la Cina è l'unico Paese che ha l'intenzione e i mezzi per rimodellare il sistema internazionale, il più importante concorrente strategico a lungo termine”.Eppure, in nessuna parte del pianeta, Cina e Stati Uniti sono in conflitto militare diretto, nonostante abbiano le dita sul grilletto. Ma tutti temono che ciò possa accadere in seguito a qualsiasi provocazione, o incidente, visto il numero di navi da guerra e bombardieri che si incrociano nel Mar Cinese.
Perché la Cina?
In un testo preparatorio per uno dei nostri congressi, pubblicato nel dicembre 1971, abbiamo riassunto le nostre posizioni sulla natura di classe dello Stato cinese. Le nostre posizioni erano diametralmente opposte a quelle del movimento trotskista nel suo complesso, a cominciare dalle posizioni della principale corrente che rivendicava l'etichetta della Quarta Internazionale e si dichiarava erede di Trotsky. Il testo, intitolato Il caso dei paesi sottosviluppati in rottura politica con l'imperialismo, parla della Cina, ma anche della Jugoslavia, di Cuba, dell'Albania e del Vietnam del Nord, nei seguenti termini:
“Beneficiando di circostanze storiche eccezionali, alcuni rari Paesi sottosviluppati [...] sono stati indotti a rompere politicamente ed economicamente con l'imperialismo e, di conseguenza, si sono trovati impegnati in tutta una serie di riforme economiche e sociali volte a consentire loro di sopravvivere, se non di svilupparsi”.
Questo testo è stato scritto in un periodo in cui la Cina era ampiamente considerata in senso largo come un Paese comunista negli ambienti politici. Volevamo chiarire, soprattutto in riferimento al resto del movimento trotskista, non solo che non era vero, ma anche che non si tratta affatto di uno Stato operaio, ma di uno Stato borghese. Tuttavia, rispetto agli altri Stati dei Paesi sottosviluppati, essi mostravano alcune profonde originalità.
Innanzitutto, perché i rappresentanti politici radicali della borghesia nazionale, agendo in nome di un'ideologia vagamente umanista, come Fidel Castro, o con un'etichetta comunista, come Mao e Tito, sono riusciti a guidare le rivolte contadine e, basandosi su di esse, hanno conquistato il potere in nome della “borghesia nazionale”. Si concludeva che “il Partito Comunista Cinese [...] dopo di essere stato originariamente un partito proletario, poi successivamente tagliato fuori dal proletariato (cfr. la repressione della rivoluzione proletaria cinese nel 1927), ha finito per voltargli consapevolmente le spalle scegliendo come programma quello della borghesia nazionale (denuncia della lotta di classe in nome del blocco delle quattro classi, resistenza nazionale anti-giapponese, ecc. Così, nonostante la loro etichetta, il ruolo dei partiti comunisti è stato, per usare l'espressione di Trotsky, quello di fare da ponte tra il movimento contadino e la borghesia nazionale delle città, offrendo a quest'ultima un'alternativa politica quando tutte le altre soluzioni erano crollate”.
Ovviamente questa posizione ci poneva in radicale opposizione alla corrente maoista che, all'epoca, dominava l'estrema sinistra francese. Ma ci opponeva anche al resto del movimento trotskista, per il quale la Cina di Mao era uno Stato operaio, anche se questa affermazione era accompagnata da aggettivi come “deformato” o “sfigurato”.
Il dibattito che abbiamo introdotto nel movimento trotskista di allora non si basava solo su un'astratta questione teorica, ma su un interrogativo fondamentale: può uno Stato operaio emergere senza la partecipazione attiva e consapevole del proletariato? In altre parole: il proletariato può essere sostituito da un esercito di contadini guidato da piccoli borghesi nazionalisti (Cina)? Dall'esercito della burocrazia sovietica (democrazie popolari)? O da una giunta militare che si dichiara rivoluzionaria, o addirittura socialista o comunista, come in diversi Paesi africani? La nostra conclusione in quel testo del 1971 era la seguente:
“Qualunque sia il ritmo, il risveglio della classe operaia in questi Paesi deve concretizzarsi in organizzazioni autonome e nella formazione di partiti operai rivoluzionari che mirino alla presa del potere attraverso la democrazia proletaria. Il proletariato di questi Paesi, in quanto parte integrante del proletariato mondiale, portatore del futuro socialista, è l'unica classe che può offrire una prospettiva a questi Paesi. Anche se è debole nell'ambito nazionale di fronte all'enorme massa della piccola borghesia contadina, è forte della forza del proletariato mondiale, ma solo un'Internazionale rivoluzionaria può dare espressione concreta a questa forza”.
Non abbiamo nulla da modificare in questo testo, che continua a riassumere la nostra posizione politica sul compito dei rivoluzionari in Cina oggi.
La Cina sotto la costante pressione dell'imperialismo
Nel corso della sua storia recente, lo Stato cinese è stato sottoposto a pressioni da parte dell'imperialismo sin dalla rivolta contadina che ha portato Mao Zedong al potere. Queste pressioni sono state dichiaratamente militari durante l'epoca di Mao (la guerra di Corea dal 1950 al 1953 e poi, in forma più indiretta, la guerra del Vietnam), ma hanno assunto altri aspetti anche dopo la morte di Mao e l'avvento di Deng Xiaoping, nell'ottica di un riavvicinamento al mondo dominato dall'imperialismo.
Poiché la Cina non accettava il dominio diretto delle potenze imperialiste, gli scontri alternati a periodi di blocco economico impedirono al Paese di beneficiare della divisione internazionale del lavoro. La natura dittatoriale del regime sotto tutti i presidenti che si sono succeduti, da Mao a Xi Jinping, derivava dalla necessità di raggiungere una sorta di accumulazione primitiva.
La base sociale del regime di Mao era costituita dai contadini. Ma non erano essi ad avere il comando. Gli obiettivi essenziali di questo potere erano quelli di sottrarre i mezzi per realizzare questo tipo di accumulazione primitiva ai contadini, e poi alla parte proletarizzata di coloro che erano stati cacciati dalle campagne, per fornire allo Stato i mezzi per cercare di recuperare il ritardo.
Lo Stato cinese, beneficiando fin dall'inizio della fiducia dei contadini in rivolta che lo avevano portato al potere, non solo è riuscito a costruire un'industria consistente, ma ha anche raggiunto un grado di sviluppo che nessun altro Paese sottosviluppato di dimensioni, popolazione e risorse comparabili (India, Brasile, Indonesia, ecc.) è riuscito a raggiungere. Ha ottenuto tutto questo sfruttando i contadini e gli operai, utilizzando metodi brutali come quelli dei suoi precedenti compagni di viaggio sulla strada dello sviluppo capitalistico.
Grazie a un alto grado di statalismo, la Cina è riuscita a entrare nel novero delle nazioni capitaliste. Ma continua a subire le pressioni di quelle nazioni che hanno beneficiato per secoli dell'accumulazione primitiva e hanno occupato un posto privilegiato nella costituzione del mercato mondiale e della sua divisione del lavoro. Ora esse hanno preso la guida dell'evoluzione verso l'imperialismo, che ha permesso loro di partecipare al saccheggio dell'intero pianeta.
Quando i portavoce dell'imperialismo danno ai dirigenti cinesi consigli che i loro padroni non sono in grado di applicare né sono disposti ad applicare loro stessi
Questa pressione è più sottile che in passato. Ma è fondamentalmente la stessa preoccupazione che ha portato la Gran Bretagna a lanciare la prima guerra dell'oppio nel 1839. Come spiega il Financial Times di Londra: “In una visita a Pechino alla fine dello scorso anno, il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, si è lamentato del fatto che il surplus commerciale della Cina con l'Europa stava aumentando, mentre il suo mercato stava diventando più difficile da penetrare per le aziende europee”.
Ora arriva la richiesta: “O l'economia cinese si apre di più, o ci potrebbe essere una reazione da parte nostra”, ha avvertito Borrell. E lo stesso giornale riassume l'idea sottolineando che “da anni gli economisti chiedono alla Cina di fare di più per stimolare i consumi, al fine di riequilibrare un'economia che dipende dagli investimenti alimentati dal debito”. Che bello! A distanza di quasi due secoli, l'odierno rappresentante della borghesia riprende parole simili, chiedendo qualcosa che ci riporta al motivo per cui l'Impero britannico lanciò la prima guerra dell'oppio. Certo, oggi il prodotto non è più lo stesso del tempo in cui la Cina non voleva acquistare nulla dalla Gran Bretagna, che la costrinse a comprare l'oppio dall'India, il fiore all'occhiello dell'impero coloniale britannico!
Il giornalista del Financial Times di Londra insiste: “Gli economisti dicono che per far sì che i consumatori si sentano a proprio agio e siano in grado di spendere di più, soprattutto dopo la crisi immobiliare, la Cina deve accelerare lo sviluppo dei suoi programmi di protezione sociale e di assistenza sanitaria. Anche se la Cina ha fatto progressi nello sviluppo dei sistemi pensionistici e sanitari pubblici, questi sono ancora carenti”. È incredibile rendersi conto che i rappresentanti dell'imperialismo, chiedono un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori cinesi ma non lo vogliono in patria!
Chiaramente, non sono le condizioni di vita dei lavoratori cinesi a preoccupare i leader britannici, né quelli americani (né quelli europei - sia Les Echos che Le Figaro sono pieni di consigli simili ai cinesi). Ma, dal momento che la Cina ha raggiunto una sorta di accumulazione minima primitiva, lo Stato cinese dovrebbe essere spinto non solo ad allargare il suo mercato ma, soprattutto, a permettere alle borghesie imperialiste, prima fra tutte quella statunitense, di trarne profitto.
La pressione imperialista si manifesta in questo strano modo: i Paesi occidentali chiedono che la Cina dedichi meno investimenti all'industria e più al consumo, soprattutto da parte delle classi lavoratrici! Sono gli economisti dei Paesi imperialisti che, ora, premono affinché il governo cinese non solo sviluppi i consumi aumentando i salari in vari modi, ma costruisca anche una sorta di sistema di sicurezza sociale affinché i contadini diventati proletari possano beneficiare in qualche modo di un'assistenza sanitaria decente.
Per usare un'espressione diffusa, “la Cina è diventata l'officina del mondo”, in altre parole, un subappaltatore delle potenze imperialiste. In termini economici, quindi, si chiede obbedienza a un subappaltatore verso quello che lo controlla, con i disaccordi e l'oppressione che questo comporta, ma anche la fondamentale identità di interessi, seppur conflittuali, nelle loro relazioni.
Il proletariato cinese e il futuro dell'umanità
Quanto sta accadendo in Cina è cruciale per il futuro dell'intera umanità. Lo è riguardo alla borghesia imperialista. I futuri sviluppi in senso bellico, più o meno gravi, scaturiscono dalla coesistenza, o addirittura dalla collaborazione tra l'imperialismo occidentale e la Cina. Ma dipende anche da esse il futuro del proletariato.
Lo statalismo ha portato alla borghesia cinese quanto appena ricordato sopra. Ma questa evoluzione, con l'industrializzazione che ha prodotto, ha anche rafforzato il proletariato cinese. Quest'ultimo rappresenta oggi uno dei contingenti più forti, se non addirittura il più forte numericamente, del proletariato mondiale. E proviene da un Paese con una ricca storia di esperienze, tra cui rivoluzioni radicali e numerose.
Non sappiamo fino a che punto questo passato sia stato trasmesso alla generazione odierna. La dittatura esercitata prima sui contadini e poi sempre di più sul proletariato che ne è scaturito con il progredire dell'industrializzazione è ovviamente un potente ostacolo a questa trasmissione. Ma in passato le idee rivoluzionarie hanno sempre trovato il modo di superare tali ostacoli. La dittatura di una classe privilegiata non ha mai impedito lo scoppio delle rivoluzioni. Non ha mai impedito a una classe privilegiata che ha fatto il suo tempo di essere costretta a cedere il passo a una classe in ascesa.
La scomparsa di qualsiasi forma di Internazionale rivoluzionaria comporta che, non sappiamo nulla di ciò che accade in questo Paese, e in particolare nelle sue aziende, nonostante i mezzi tecnici di comunicazione che potrebbero facilitare tali rivoluzioni. Possiamo però affermare che, ovunque inizi la rivoluzione, se vuole trionfare su scala internazionale, dovrà scuotere il proletariato cinese. E, se riflettiamo sulle difficoltà incontrate dalla rivoluzione russa del 1917, non solo per la presa del potere da parte del proletariato ma anche per il suo consolidamento, a causa della sua demografia e delle sue risorse, possiamo renderci conto che il proletariato cinese gode di vantaggi che quello russo non aveva a quel tempo.
Conclusione
Non sappiamo come le giovani generazioni cinesi di oggi tradurranno tutto questo. Inizialmente, probabilmente non avrà un vero significato comunista, poiché il regime cinese ha screditato questa etichetta che continua a esibire falsamente. Ci sarà una reazione simile a quella dell'Europa orientale o dell'URSS sotto Gorbaciov o Eltsin. Ma questo non significa che non ci siano gruppi, magari delle nostre dimensioni, già attivi in quest'area. La storia può insegnare molte cose.
Non c'è assolutamente modo di prevedere o indovinare - e questo non ha alcun senso - come avverrà questo necessario risveglio della classe operaia. Possiamo dire che l'intellighenzia rivoluzionaria avrà un ruolo importante. Ma deve nascere e mettersi al lavoro!
All'epoca del crollo dell'URSS, l'economista americano Francis Fukuyama scrisse un mucchio di sciocchezze sotto il titolo “La fine della storia”. Ma questa non si è fermata nel 1992, quando è stato pubblicato il suo testo. “La storia di ogni società fino ad oggi è stata la storia delle lotte di classe”, dichiarava il Manifesto Comunista nel 1848. Sarà così anche in futuro, finché la nostra società rimarrà divisa in due classi fondamentalmente opposte, la borghesia e il proletariato.
Le leggi dello sviluppo storico, cioè le vite e le azioni degli otto miliardi circa di esseri umani che popolano il pianeta, sono infinitamente più potenti dei deliri di un singolo individuo o persino delle agitazioni di tutti i decisori del mondo.
“La guerra ininterrotta, a volte palese, a volte nascosta..., finisce sempre o con una trasformazione rivoluzionaria dell'intera società, o con la distruzione delle due classi in lotta”. Questo è ciò che Rosa Luxemburg riassunse sinteticamente come “socialismo o barbarie”. Non lo fece come commentatrice, ma come militante: agire per la trasformazione rivoluzionaria della società è l'unico modo per evitare la barbarie.
Quali che siano gli sconvolgimenti nella vita collettiva dell'umanità e le risonanze degli eventi attuali; quali che siano le scadenze e i termini, la necessità storica finirà per imporre la sua legge. Lo farà nell'unico modo possibile, attraverso l'azione degli uomini stessi. Per il proletariato, questo significa darsi partiti di classe e, nella nostra società globalizzata, un'Internazionale comunista rivoluzionaria.
16 ottobre 2024