Da anni, con toni allarmistici, politici, sindacalisti, economisti fedeli al credo neoliberista, recitano la loro tiritera sulla crisi globale del settore automobilistico. Niente di nuovo sotto il sole si potrebbe aggiungere. In fondo, si tratta del solito gioco che da decenni finisce per convogliare soldi pubblici a sostegno di industrie decotte, inquinanti, simbolo del peggiore estrattivismo a danno dei territori e della salute dei lavoratori che si ritrovano ben presto irreparabilmente danneggiati, costretti a convivere con dolori cronici, in un corpo, ormai, usurato dal lavoro in fabbrica.
Anche se di questo non si parla, c'è un consistente numero di studi accademici e pubblicazioni scientifiche che evidenziano come decine di migliaia di lavoratori del settore abbiano danni fisici permanenti (1). Oltre a questo, non sono da sottovalutare, le violenze psicologiche sugli operai, i reparti confino, la depressione, la difficoltà a sopravvivere in un contesto ostile, incatenati dal ricatto del salario -invogliati di fatto, con le buone o le cattive, a rassegnare le dimissioni, in cambio di poche decine di migliaia di euro. Una miseria se si considerano i profitti miliardari delle multinazionali dell'auto e i dividendi che finiscono, ogni anno, nelle tasche del padronato, dei manager, degli amministratori delegati e degli azionisti.
A Melfi, così come in altri stabilimenti, gli operai/e che hanno denunciato le violenze fisiche e psicologiche subite, gli abusi di potere, il clima da caserma, mostrano come, anche grazie alla rituale inconsistenza dell'azione sindacale, i rapporti di potere siano sbilanciati a favore del patronato, a danno non solo degli operai ma anche delle popolazioni locali. In Basilicata, Melfi, la Sata e il suo indotto, sono un fulgido esempio di tutto questo. Politici, sindacalisti, amministratori locali sembra che non si rendano conto, dei danni prodotti da questo modello di economia dipendente dalle multinazionali. Peccato che, per il momento, per inedia, ignoranza o semplice opportunismo si preferisca continuare a richiedere soldi da regalare ad imprese inaffidabili, che come zecche succhiano sangue e si staccano solo quando conviene.
Di fronte alla drastica riduzione del personale, alle migliaia di uscite incentivate (di fatto licenziamenti), ai piani industriali ondivaghi, i sindacati tradizionali non riescono nemmeno ad ottenere più soldi e non una manciata di lenticchie per gli espulsi. A dimostrazione che di fronte alla politica padronale, gli operai devono fidarsi solo di se stessi, della forza che possono rappresentare quando sono in lotta e la sanno dirigere. Solo loro possono imporre che in questa società non siano quelli che producono tutto a pagare le spese di un sistema sempre più ingestibile.
Il regime di fabbrica e i dolori dei lavoratori
Intanto, per i lavoratori che restano in fabbrica le condizioni sono peggiorate, nonostante gli stop and go della produzione. Lo testimoniano le proteste contro il regime di fabbrica, spesso innescate proprio dalle disumane condizioni di lavoro e dalla messa a rischio della salute - come lavorare con un caldo asfissiante d'estate e con il gelo d'inverno a ritmi serrati, ingoiare antidolorifici in infermeria per tornare in fretta in linea, anche se azzoppati, subendo le pressioni del capetto-supervisor a cui l'azienda affida il compito di addestrare i lavoratori alla sottomissione totale.
A spiegarlo è un operaio di Melfi che, dopo circa 30 anni di lavoro, diversi infortuni e danni alla schiena, alle gambe e alle braccia, un giorno si è ritrovato con un piede incastrato sulla linea, si è sfasciato rotula e caviglia ed è stato costretto a rientrare in linea sotto la pressione del capo che gli ha anche consigliato di non andare in ospedale. Questa è solo una delle tante storie che emergono da queste fabbriche-penitenziario.
Per questi ed altri motivi - ad esempio l'inquinamento causato dall'Eni in Val d’Agri, l’estrazione del silicio, una delle famose terre nobili, regalata ad imprese di rapina -, questi territori, i loro abitanti, gli operai e le operaie delle fabbriche tra cui la Fiat-Sata, l'indotto, la logistica, meritano più di un risarcimento che solo l'emergere di lotte radicali può consentire.
Nella lotta dei 21 giorni di Melfi, nel 2004, la rabbia individuale divenne collettiva. Un'esperienza indimenticabile, che dovrebbe insegnare qualcosa a chi si siede a contrattare con il padronato per i rinnovi contrattuali, gli aumenti salariali adeguati e non le mancette e le maledette condizioni di lavoro che nonostante le innovazioni restano disumane.
(1) Bruning, C., de Faria, J. H., & Marques Junior, K. (2020). Work context in the automotive industry and damage to workers health. Revista De Administração Da UFSM, 13(2), 424–444. https://doi.org/10.5902/1983465929475
Corrispondenza Melfi