Dalla guerra commerciale alla guerra guerreggiata...con la nostra pelle

Ci stiamo avviando rapidamente verso una terza guerra mondiale? Non lo possiamo sapere con certezza. Non si può prevedere il futuro; ma si può imparare dal passato.

Negli anni e nei mesi che precedettero la Prima guerra mondiale, ad esempio, circolavano diverse ipotesi sull’avvenire delle relazioni diplomatiche tra i vari paesi europei. Alcune guerre locali erano già state concluse ed era convinzione condivisa, tra molti protagonisti della politica estera delle più grandi potenze, che i contrasti tra Stati avrebbero trovato una composizione pacifica, soprattutto a motivo dei rapporti economici che si erano stabiliti tra di essi. Come ricordava lo storico inglese Martin Gilbert, nel suo libro sul primo conflitto mondiale, non ci fu un’unica causa a far scivolare il mondo in quinquennio di morte e distruzione. L’accumularsi di diversi fattori finì per rendere “obbligata” la scelta dello scontro militare. Per limitarsi alla descrizione superficiale della traiettoria che portò alla crisi bellica, possiamo prendere questa felice formulazione di Gilbert: “Rivalità e dispute si mescolarono e concorsero a eccitare gli umori e a fornire le occasioni che che resero la guerra prima immaginabile, poi possibile e infine desiderabile”.

La situazione attuale, vede già oltrepassata la fase in cui la guerra è immaginabile e quella in cui è possibile. Non siamo ancora, almeno per le grandi potenze, alla fase in cui un conflitto bellico diretto tra alleanze contrapposte è desiderabile. Fermo restando che le due guerre in corso tra Russia e Ucraina e quella tra Israele e Gaza, recentemente allargata al Libano, vedono, dietro le forze armate che si fronteggiano, delle catene di Stati il cui ultimo anello è rappresentato dalle più grandi potenze.

Quanto sia acquisito, per tutti gli Stati, che una guerra più ampia sia da mettere nel conto è testimoniato dalla crescita delle spese militari mondiali, ininterrotta da 7 anni e che ha raggiunto i 2300 miliardi di dollari, di cui solamente gli Stati Uniti ne spendono 916, cioè quasi il 40%. L’Europa partecipa a questa corsa agli armamenti. La Germania avrà aumentato la spesa militare del 16% a fine anno. L’Italia supererà del 4,5% la stima iniziale di spesa per il 2024, portandosi a 32,2 miliardi di euro. La Polonia incrementa la spesa addirittura del 75%. Le guerre in corso e il riarmo altrui “giustificano” il riarmo in casa propria; ogni governo aumenta la propria forza armata per “difendersi” da un possibile attacco dei propri vicini. Vale per i paesi europei, ma vale anche per il Giappone, che aumenta dell’11% la propria spesa, “allarmato” dalla crescente potenza dell’esercito cinese.

Questo mare di soldi è una voce della spesa pubblica e, dal punto di vista economico si traduce in aumento straordinario della domanda per le industrie di armamenti, pagata sottraendo risorse ai sistemi sanitari, all’assistenza sociale, alle scuole. Un vero e proprio regalo che dalle tasche dei contribuenti finisce in quelli degli azionisti dei colossi dell’industria degli armamenti e delle forniture militari.

Ai motivi geopolitici dei contrasti tra Stati, sui quali troneggia il carattere monopolistico del capitalismo contemporaneo, con la potenza della ricchezza espressa dalle più grandi corporation, si aggiungono così gli interessi specifici dei gruppi finanziari e industriali legati alla produzione bellica, mentre la crisi economica rende sempre più indifferibile, per le classi capitalistiche di ogni nazione, assicurarsi il controllo delle “catene del valore”, delle materie prime e dei mercati di sbocco. Così si alimenta una guerra commerciale che va ad aggiungersi alle sostanze infiammabili che, ad un certo punto, portano alle guerre guerreggiate.

La crisi economica del 1929 si risolse con la Seconda guerra mondiale al prezzo di 68 milioni di morti. Sulla base di questo immane bagno di sangue e delle macerie fumanti dell’Europa e dell’Asia, la macchina del profitto capitalistico poté riprendere il suo slancio.

Bisogna fare tesoro dell’esperienza. Le guerre contemporanee si fanno, in ultima istanza, per i profitti. Le classi borghesi di tutto il mondo vogliono di nuovo prepararci a “difendere la Patria”, vogliono familiarizzarci con l’idea che sbudellare un “nemico” o farlo a pezzi con una bomba sia dar prova di patriottismo, di “valore”. Per noi invece il valore sta nel riconoscere i veri nemici, che non stanno fuori dai nostri confini ma presiedono i consigli d’amministrazione delle banche e delle grandi imprese, oppure stanno nei vertici dell’esercito e della grande burocrazia di Stato.